Un salto a piè pari nel buco del verme d’Irlanda

Poll na bPeist

Non c’è scena maggiormente impressionante. La studentessa ventunenne in visita Aparajita Gupta, che viene ripresa dal musicista Brian Smith tra la furia dell’oceano dalle rocce sopra Poll na bPeist, la celebre formazione geologica rettangolare dell’isola di Inis Mór (Inishmore) la più grande dell’arcipelago delle Aran, nell’Irlanda occidentale, il cui nome tradotto vuol dire “Tana del verme” ovvero il drago. Con le onde che ad un tratto aumentano ulteriormente la loro potenza, sembrando voler divorare tutto quanto. Si fanno più alte, ancora e ancora, finché una, particolarmente spaventosa, non raggiunge la piccola figura umana e… La spuma la ricopre, torna indietro e se la porta via. Ben poco ci resta da guardare tranne il mare, il cielo, il buco. Di lei non v’è traccia alcuna.
Sono il Re del Mondo, Rose! La frase simbolo della scena culmine del film dai maggiori incassi della storia, finché non venne superata dall’uscita di quell’altra geniale creazione di James Cameron, praticamente Pocahontas pelle-azzurra nello spazio. Ma tutti ricorderemo, ancora molto a lungo, l’abbraccio plastico che inscenò un giovane Di Caprio (Jack) con la sua amata Kate Winslet dalle braccia aperte verso al cielo (Rose) proprio all’apice massimo del transatlantico, ove le linee divergenti delle sue murate s’incontravano a formare il piedistallo di quel dannato amore tragico per eccellenza, destinato a infrangersi contro la rigida realtà di gran ghiacciolo da 200.000 tonnellate ca. Del resto stare in bilico sul bordo, spingersi innanzi fino al limite massimo dell’area utile a disposizione, ha da sempre costituito un gesto riservato ai saggi governanti, ai coraggiosi eroi. Ettore, figlio primogenito di Priamo, che scruta dalla cima della rocca di suo padre l’odiato nemico greco in avvicinamento; Re Cuor di Leone che si sporge sul camminamento del suo penultimo castello in Terra Santa, poco prima di rendersi conto che è tornata l’ora di rivolgere il suo sguardo in patria, dove le macchinazioni del fratello minacciavano la sua sovranità; Re Carlo I perso nella contemplazione di una Londra sempre più riottosa dall’alto barbacane della Torre, esattamente dove, soltanto qualche giorno dopo, i ribelli puritani avrebbero esposto il risultato della sua decapitazione.  Ma è soltanto successivamente che un tale desiderio, il superamento del senso di vertigine, e per inferenza della propria stessa concezione di mortalità, sarebbe diventato veramente universale. E un tale preciso momento può essere facilmente individuato a posteriori e per immagini, grazie all’aiuto della storia dell’arte: vedi il dipinto Der Wanderer über dem Nebelmeer o il Viandante sul Mare di Nebbia, dell’autore romantico Caspar David Friedrich, in cui un giovane nerovestito e di spalle si staglia sopra un precipizio roccioso, con il bastone da passeggio stretto in pugno, al posto delle antiche spade guerrieri, ed i capelli scompigliati al vento. Quale fantastica vista sopra l’incontrollabile potere della natura! Chi non avrebbe voluto essere al suo posto, Romanticamente trasfigurato dalle circostanze? Da lì questo l’irrequieto desiderio di partire, raggiungere i luoghi più alti e porsi al di sopra di colui che non ha voglia, né coraggio di provare. Wanderlust: ciò che un tempo era il privilegio dei potenti, ma che oggi, grazie agli avanzamenti tecnologici e culturali, è diventato un sacrosanto diritto di noi tutti, incluse le studentesse indiante in visita presso il vasto mare d’Irlanda.  Il che non vuol dire, del resto, che sia il caso di ignorare le comuni norme del buon senso.

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Queste ineccepibili frittate giapponesi

Takanoyaki

Non hai davvero vissuto finché non affondi gli incisivi centrali e tutti i tuoi canini nella consistenza morbida di un giallo concentrato e sagomato, che cedendo dolcemente s’apre per lasciare fuoriuscire i liquidi, la salsa e qualche volta, addirittura l’essenza alcolica del sake leggero, l’imprescindibile mirin. Ehi, tu. Si, tu: sappi che nel tempio mistico della cuociologia applicata, sostenuto da colonne nella foggia di posate e con bacchette sovrapposte al posto di pantografi legnosi, ciascuna forma ha singolo significato, collegato al gusto ed al sapore di un qualcosa. Il dolce è romboidale chiaramente, il salato ha gli spioventi lati di un trapezio, l’umami d’amido incorporeo è triangolare. Mentre ciò che è sferico per sua prerogativa, non può che preannunciare la preparazione dell’involucro per eccellenza, il pegno nascituro dei pennuti di ogni foggia, forma e dimensione l’Uovo. Ma per te gallina, che non hai viaggiato con il becco e/o con la mente, coccodé non c’è davvero un modo di abbellirlo, che non sia basato sull’aggiunta di qualcosa. Giusto, chiricchì? Come la pizza che veniva lanciata l’altro giorno verso chi passava salutando, per le strade di una Napoli entusiasta e con su scritto W il Pàpa, la sostanza con il guscio fa da tela del possibile in cucina. O in alternativa, fondamenta per quello che serve all’occorrenza, giammai decorazione in grado d’autosostenersi. Tondi ellissoidali che in principio sono sempre uguali (salvo anomalie piuttosto rare, come doppio-rosso o tutta-chiara) trovano l’applicazione in molti campi: sbattute o riscaldate, sode, diluite. Quindi il vero nesso delle uova resta la purissima frittata.
Non c’è davvero un altro piatto, inteso come contenuto dello stesso e non ceramica disposta sulla tavola, metonimia ripetuta tutti i giorni, che sia al tempo stesso tanto conosciuto e chiaro nella sua purezza metodica d’intenti. Puro-uovo, tutto-tondo, solo-quello, cotto al punto giusto per gelificare le sue proteine, affinché ciò che era liquido diventi fluido non-esattamente newtoniano. Perché è proprio questa semplice stregoneria, sovvertite le primarie leggi della fisica, a donarci un gusto che è il momento più mirabile di molte colazioni, da un lato all’altro di uno strano viaggio delle alternative. Così negli Stati Uniti quella cosa, prende il nome di pancake, ricoperto di fluidifico sciroppo d’acero grondante calorie, lubrico e sporchevole rivolta al conformismo dei Corn Flakes; così in Europa Occidentale è l’omelette, tacciano gli amanti dell’italianismo quel primato e dei francesi. L’ormai internazionale gesto di disporre la gustosa polpa d’uovo su tondissime padelle, intrappolando l’aria sotto di esse perché possa generare bolle, approccio alchemico alla morbidezza.
Lo stesso Napoleone, si racconta, di passaggio con le sue schiere d’armigeri verso l’ennesima occasione di conquista, si fermò presso il paese di Bessières, Haute-Garonne nel sud della Francia, dove il locandiere ebbe ad offrirgli un piatto d’uova tanto perfetto ed appetibile che il condottiero dichiarò: “Sia fatto grande, per l’intero esercito” E così fu. Da allora ogni anno, nei giorni di Pasqua, la piazza del paese ospita pantagrueliche padelle benedette dall’arcivescovo di Tolosa in persona, entro le quali viene fatto palesare lo strumento giallo contro il demone temuto della fame. Chissà che avrebbe detto il grande Tokugawa. Frittatine, frittatone, che c’importa della dimensione. Quel che conta è la sublime…Precisione. Punto fermo del Giappone!

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Il mercato thailandese attraversato da una ferrovia

Maeklong Train

La prima volta dev’essere stato memorabile. È relativamente facile determinare il corso degli eventi, fatto salvo il demone imprevisto dei dettagli. C’era in quel particolare luogo, fin da tempo immemore, un grande spiazzo ricavato tra i palazzi di Samut Songkhram. Siamo in una ridente cittadina che getta la sua ombra sulle acque del Mae Klong, principale fiume della regione di Kanchanburi. Proprio quel corso d’acqua, per inciso, che Hollywood avrebbe in seguito ribattezzato Kwai, fischiettando beatamente, tanto per farci un ponte e dopo pure un film. Cosa importa, in fondo, del vero toponimo locale? Così il popolo degli abitanti, passeggiando, attraversava di continuo un tale prato, riuscendo a trasformarlo, con il tempo, in un fondamentale punto di ritrovo. Finché qualcuno, proveniente dalla sua fattoria nella campagna, portò lì la frutta dei suoi alberi, il riso e qualche stoffa colorata. Presto furono davvero in molti ad imitarlo. La voce si sparse in lungo e in largo: c’era un nuovo mercato, variopinto ed eccitante, lì nel mezzo del centro abitato, via dagli alberi e dal fiume turbinante su cui giunche, chiatte ed altre imbarcazioni si affollavano, per quell’altro celebre ma più antico, la fiera galleggiante di Amphlawa.
Ci sono luoghi in cui il progresso arriva tutto assieme, all’improvviso, spinto innanzi dal bisogno percepito di modernizzarsi. Tale approccio è attentamente istituito, per la prassi, da uno sforzo immane che percorre i molti campi contrapposti della collettività. Pensate, ad esempio, al Giappone del 1800. Mentre in altri luoghi, invece, si procede per gradi e con estrema attenzione, selezionando caso per caso ciò che va mantenuto in vita quotidianamente, mentre tutte quelle altre usanze o pratiche che hanno fatto il loro tempo, e siano dunque celebrate nei musei o nella letteratura. Possibilmente, solo e unicamente lì. Pensate alla Cina del 1900. Ma ecco, la Thailandia segue un’altra diramazione di quel grande corso. Laggiù nella penisola, dove una stretta striscia di terra si protende verso la Malesia e tutte le altre isole del mistico Sud-Est, in bilico tra due dei golfi più grandi al mondo, la tecnologia si mischia con le tradizioni senza soluzione di continuità. Non è un caso, né un’affettazione lirica di qualche autore, se le composizioni fantascientifiche sull’immediato futuro trovano tanto spesso l’ambientazione proprio in simili località. Cyberpunk: l’unione inscindibile tra l’uomo e il mondo della tecnologia, di per se stessa fonte di nuovi equilibri tra i rapporti meta-prismatici della derelitta società, ineguale (così la corrente è battezzata da quel movimento giovanile degli anni ’80/90, ribelle per definizione). Uno stile di pensiero in cui il mondo della virtualità, si dice, troverebbe sfogo grazie a impianti tecnologici totalizzanti ed invasivi, nel corpo umano come negli spazi del mondo reale. È invero possibile, che un tale mondo si stia palesando gradualmente, tra gli alti palazzi di vetro e cemento di Bangkok. Mnetre è invece certo, nonché pienamente dimostrabile, che ad appena 60 Km dalla capitale, siamo già nel pieno di una differente fase. La stagione del Trainpunk.
La vita del mercante viaggiatore, fin da che lui pratica quel suo mestiere, è soggetta alle connotazioni problematiche del mondo. Può bastare uno scroscio di pioggia, nel momento maggiormente inopportuno, per sovrascrivere l’ora di punta, cancellando innumerevoli occasioni di far soldi. O un ufficiale particolarmente puntiglioso, di passaggio con la Luna di traverso. O lo sciopero dei mezzi pubblici, naturalmente, salvo casi assai particolari?!

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Nell’Otago scivoliamo su slittini senza neve

Luge run

“Benvenuto a Queensland, Nuova Zelanda, dove il sole splende tutto l’anno. Dove il kookaburra lancia il suo canto rauco prima di rubarti una salsiccia, il vento soffia tra gli arbusti ed i turisti sono pronti a tutto pur di divertirsi. Sono 53 dollari, grazie.” Poi si fa da parte, a lato del tornello presso l’area di partenza del circuito quasi verticale. Le montagne frastagliate dell’Otago, propaggine estrema del paese, svettano sopra le acque specchiate del lago Wakatipu. Oppure, forse è l’Hayes… Tutto dipende dal percorso scelto e dalle curve rilevanti, per discendere velocemente dalla cima del Bob’s Peak. Che nome falsamente rassicurante! Qui nell’isola meridionale dell’estate senza fine, dove il gelo che attanaglia è una leggenda da narrare assieme alle altre favole di tolkeniana reinterpretazione, il criterio dei toponimi pare selezionato per tranquillizzare l’animo degli “spericolati” escursionisti: Tooth Peaks, il monte del dente(ino), David Peaks, ehi David come butta? Che dice Jane Peaks?? (Si, c’è pure la consorte) mentre a ridosso delle abitazioni, giù dall’altra parte del gran lago, addirittura sorgono i Remarkables, gli Stupefacenti, ma non come a dire, wonderful, oppure amazing – quelli si, veri superlativi – ma piuttosto un termine morigerato che pare preannunciare l’espressione: “Caspita, c’è una montagna. Ah, però! Saliamoci e facciamo qualche cosa.” Questo pensi mentre molli il freno, visto che hai pagato per la bicicletta e adesso è ora di pedalare. Metaforicamente parlando.
Perché tranquillità non vuole dire inedia, pacificazione non significa fastidio. Scatta sempre un meccanismo, nella mente di chi è giovane ed intenzionato a fare nuovi esperimenti, che dal nulla sa creare l’avventura; il rischio che si corre per divertimento, il senso di sprezzo del pericolo, più o meno controllato, variabilmente conduttivo a strane conseguenze. Chissà chi avrà pensato, per primo, questa straordinaria soluzione alla mancanza di una vera stagione sciistica, nonostante il vento di nordovest del föhn possa portare a inverni alquanto freddi, con la neve che discende fino nella valle abitata e qualche volta lì attecchisce, addirittura. Ma l’anno è lungo e c’è da guadagnarci, pure senza pattini sotto la slitta, ma piuttosto…Con le ruote ed uno sterzo manuale, ah si! Se ti schianti, la colpa è tua. Ecco, guarda qui che roba: questo luge track (percorso per slittino) che ormai stai discendendo da oltre sei minuti, non accenna a giungere alla fine. È stato costruito, infatti, con criteri assai particolari. Prima di tutto è ruvido e asfaltato. Giacché l’approccio estivo allo scivolamento, per sua implicita natura, trae giovamento dagli estremi controsensi. Non puoi davvero curvare, senza l’adeguato grado di aderenza. E qui, seguire adeguatamente il circuito è cosa buona e indubbiamente utile, persino delicata. Scendi, coraggioso. Quanti tornanti, fra il degrado collinare discendente, alla tua sinistra, e il baratro piuttosto preoccupante, dalla parte contrapposta, come Frodo Baggins che affronta il passo di Cirith Ungol con il fido Sam Gamgee, presso la Torre della Stregoneria, verso la sagoma attraente del distante Monte Fato. Ci sono paesaggi, tanto ricchi di spunti attraenti per lo sguardo, da poter condizionare il mondo dell’intelletto e l’intera cultura di un popolo. Pensa per esempio al Tibet, che ospitò il Buddhismo Mahayana delle origini, una religione filosofica fondata sullo splendido infinito, come senza limiti erano quelle valli, all’ombra di montagne sconvolgenti. Ma non è davvero chiaro come sia successo, che il verde magniloquente delle dolci colline neozelandesi, abbia finito per diventare, nell’immaginario collettivo, il simbolo dell’Epica moderna!

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