L’unica ragione per salire sopra un faraglione

Cnoc na Mara

Eravamo ad un tal punto preoccupati per il Leprecauno, lo gnomo che abita nel punto in cui l’arcobaleno si smaterializza all’interno della pentola delle monete d’oro, da non renderci conto che ben altri esseri sovrannaturali deambulavano sui prati e presso i mari della verdeggiante Irlanda. Mostri ciclopici dalle fauci spropositate, in grado di prendere tra i denti acuminati interi tratti di costa, farli a pezzi e quindi risputarli, impossibilmente integri, ma a diversi metri di distanza dalla posizione precedente. I loro nomi: il vento, le onde, la pioggia. Esseri instancabili, dall’opera continua e senza posa. Con il risultato che, per ciascuna falesia a picco sul mare, e sia chiaro che ciò avviene soprattutto ma non solo nella regione settentrionale di Donegal del Cnoc na Mara, ancora oggi compare almeno una di queste rocce isolate, alte e frastagliate, dall’imponenza niente affatto indifferente e in grado di misurare, nel suo punto più alto, anche 100-130 metri. Come impronte di altre epoche. Come steli di un’antica religione. E di un culto che è anche moderno, in fin dei conti, ovvero quello di ammirare ciò che ha creato la natura, ed esclamare dal profondo del nostro stesso essere: “Voglio farne parte, in qualche modo entrare in questo flusso inarrestabile degli eoni, e lasciarmi trasportare in su dalla corrente!” Una vera Missione Impossibile, se mai ce n’era stata una, perché come potremmo noi bambini della Terra, che siamo piccoli e insignificanti, interagire con simili esseri di un’altra dimensione, in entrambi i sensi letterali, la cui esistenza sembrerebbe estendersi da un lato all’altro della ruota immane del Tempo.
La risposta è semplice, nonché scontata: se una cosa è lunga, la si percorre di gran lena, dall’uno lato all’altro lato contrapposto. Se è profonda, si consiglia d’immergervi le proprie mani per scoprire quello che contiene (lingotti, monete, gemme preziose o perché no, le infernali formiche rosse dello scherzo dello gnomo). E se invece si erge con possanza verso il cielo, tutto quello che ci resta da fare è disporre le simmetriche mani, l’una accanto all’altra e ben più in alto della testa, per poi stringere le dita e tirare, in alternanza, ancora e ancora, finché l’acqua vorticante non sparisca sotto i piedi, e con essa le preoccupazioni, la coscienza, addirittura i sentimenti. Affinché la mente, ormai priva di ogni distrazione, possa concentrarsi su di un’unico concetto ripetuto. Come facevano i filosofi del mondo antico, oppure i monaci buddhisti alla ricerca del Satori: “Non cadere, non cadere, non c-” E se non cadi, poi alla fine arrivi! Ed a quel punto chi può dire, quello che succederà?
Chi se non Iain Miller, ad esempio, la guida e scalatore professionista con base operativa a Dungloe, nella regione a prevalenza di lingua gaelica del Donegal, ma che si è dimostrato a più riprese pronto a spostarsi, per tutta l’isola natìa, alla ricerca delle più irripetibili ed evocative passeggiate, da consumarsi proprio sopra il ciglio estremo della costa. Per non dire ancora oltre, in prossimità delle propaggini più distaccate, i riconoscibili, imponenti faraglioni. Luoghi simili alle nostre rocce intinte nel Mediterraneo, come quelle celebri di Capri, o ancora, le Due Sorelle in Puglia, nel Salento, per non parlare della grande Concali su Terràinu, il “Pan di Zucchero” nella zona sud-occidentale della Sardegna. Ma non si può oggettivamente paragonare la quieta e ripetuta insistenza del Mediterraneo, un mare che fu nostro amico fin dall’epoca più remota, con la furia incalcolabile del vasto e freddo oceano nordico, che in queste regioni fa il bello o il brutto tempo con suprema, incalcolabile ferocia. Creando simili rocce in serie, come fossero il prodotto più richiesto di un catalogo dimenticato…

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I sette addetti alla Marina Militare della Mongolia

Mongolian navy

Una singola nave, un lago ghiacciato per metà dell’anno, due marinai che sopravanzano le cinque dita di una singola mano. Soltanto quello corrispondente al pollice, che sa nuotare. Ovvero Batbayan, l’uomo che dichiara in discorsivo sottotitolo: “Vorrei un giorno riuscire a vedere il vero mare.” Perché: “Le acque dell’Hôvsgôl Nuur sono fredde e inospitali.” E conclude la comparazione: “Mentre il vasto Oceano…Io me lo immagino caldo, sereno ed accogliente.” Ehm, più o meno… Chi siamo noi per contraddire, dopo tutto, la singola risorsa umana più importante di un’intera forza nazionale, responsabile di innumerevoli salvataggi dei colleghi più distratti negli anni, ciascuno a sua volta costituente, se vogliamo, un settimo della Mongolia per mare. Dotata di… Un supporto a terra per gli aerei? Una nave da battaglia. Un trasporto per le truppe. Tutti ruoli, rigorosamente potenziali, rivestiti dalla loro poderosa Sukhbaatar III, un vascello di rifornimento d’epoca sovietica, a suo tempo orgogliosamente iscritto nei registri del governo locale come prima rappresentante di una lunga serie di navi sorelle, che in ultima analisi non ebbero mai occasione di concretizzarsi. E che oggi continua la sua antica missione, parzialmente dimenticata.
Si potrebbe definire l’insieme delle forze militari di un paese come una piramide invertita di colore verde oliva, in cui più si sale, maggiore diventa la quantità di uomini al comando di un solo ufficiale: squadra, sezione, plotone. Seguiti da: Compagnia, battaglione, reggimento. E poi brigata, divisione, corpo d’armata… Finché non si scorge sopra a tutto il resto, come un vessillo identificativo d’eccezione, quel termine mirato a definire tutti gli altri: l’Arma. L’Esercito Italiano, ad esempio, ne possiede tre: terrestra, navale ed aeronautica. Negli Stati Uniti d’America, a queste si aggiungono la guardia costiera e i marines. Ma detta stratificata suddivisione va ben oltre una semplice attribuzione delle responsabilità, giungendo a regolare anche la logistica in tempi di guerra, determinando chi debba ricevere i rifornimenti, quando, come e perché. Un sistema certamente antico, che in molti sarebbero più che mai pronti a far risalire fino ai tempi dell’esercito romano, per il semplice fatto che chi altro, prima o dopo di allora, poté mai vantare un simile curriculum di conquiste, guadagnate presso i campi di battaglia dell’intero mondo conosciuto? L’unica risposta possibile, nonché del tutto ovvia: loro, gli arcieri a cavallo d’innumerevoli tribù, instradati ad una singola missione dall’eternamente celebrato Gengis Khan. Indubbiamente uno dei maggiori capi dell’intera vicenda storica umana, almeno fino alla prime propaggini della modernità. Che seppe sfruttare, con il massimo profitto, un sistema per certi versi primordiale, eppure chiaramente efficiente, almeno quanto le coorti e le legioni di coloro che erano venuti prima: l’orda, singola e indivisibile, semplice, diretta, numericamente priva di limitazioni. Ovvero uno stuolo d’armigeri, che poteva raggiungere il milione di unità, nei periodi delle grandi migrazioni, come altrettanto facilmente suddividersi in innumerevoli gruppi e clan familiari, ciascuno totalmente in grado di sopravvivere per proprio conto. Ciò perché quando un’armata non ha frazionamenti numerici a condizionarla, tenderà naturalmente a contare sul suo naturale spirito di coesione. Ed è così che appena sette uomini, riescono a formare una Marina.

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Il fenomeno australiano delle nubi rotolanti

Tubular Cloud

Ogni anno, per l’intero mese di ottobre e qualche volta fino alla metà di novembre, l’isolata cittadina di Burketown, sita proprio all’apice del più grande golfo settentrionale d’Australia, conosce le voci e la presenza di un certo numero di visitatori estremamente determinati, provenienti da ogni parte del continente e qualche volta, del mondo. La ragione, come avviene per simili luoghi sperduti nei recessi più diversi delle carte nautiche o stradali, non è da ricercarsi in una particolare condizione storica, un anniversario o altra attività ed il sentire dei suoi abitanti, bensì nella forza inarrestabile della natura. Che crea, soltanto in quel periodo e per un certo numero di volte, il fenomeno di un’onda, straordinaria ed altamente caratteristica che per qualcuno, il pellegrino tipo o in altri termini l’esploratore, dovrà necessariamente essere cavalcata, almeno una volta nella vita. È una storia, per così dire, da surfisti. Come quelli che hanno creato, con fatica e grande abilità dimostrativa, il mito della spiaggia di Ghost Trees in California, o ancora della massa d’acqua che si erge regolarmente sopra la scogliera sommersa di Teahupoo a Tahiti, per non parlare della semi-mitica Ours nel Nuovo Galles del Sud, che si affaccia all’altra estremità di questa estesa isola, la maggiore terra emersa d’Oceania. Soltanto che, fra queste citate e tutte le altre simili, questa è un’onda che ha una marcia in più; perché in effetti, piuttosto che correre sopra la superficie dell’oceano, fa lo stesso, ma nel cielo. È una massa d’acqua, volante!
Ma…Ma come? Uno potrebbe chiedersi…Com’è possibile che un qualcosa di comunemente più pesante dell’aria, nonché visibile ad occhio nudo, possa ergersi al di sopra delle cime montane che svettano all’orizzonte dei paesaggi? La spiegazione è in realtà più semplice di quanto potrebbe sembrare, quando si pensa alla fluida trasformazione tra i diversi stati della materia. E la grande onda di Burketown, probabilmente l’avrete già capito, è fatta di vapore umido che il Sole, con la sua costante pressione termica diurna, ha costretto spietatamente a salire, finendo per formare ciò che ha il nome comune di nuvola nel cielo. Un qualcosa di specifico, tuttavia, le cui somiglianze con il nostro quotidiano non tardano ad esaurirsi, vista la forma di un’essenza assai particolare: è come una grande corda, lunga fino a 1000 Km, dello spessore di 1 o 2, che si forma sopra l’acqua e corre rapida in direzione sud, fino a raggiungere la terra e quindi lentamente, molto gradualmente, scomparire. O per usare il nome comune locale, ormai adottato per antonomasia anche nel definire il raro verificarsi di questo stesso fenomeno in altri contesti geografici e meteorologici, una Morning Glory (letteralmente: gloria del mattino). Termine che viene in effetti mutuato dal mondo botanico, e che costituisce incidentalmente l’appellativo anglosassone di tutti quei fiori che sbocciano ed appassiscono in un tempo di sole 24 ore. Non che alle nubi tubolari, a conti fatti, riesca di durare altrettanto.
Ciò perché la tipica nube a forma di tubo, per come ci è dato di comprenderla e nei limitati studi compiuti sull’argomento, parrebbe trarre l’origine da una particolare serie di condizioni, tanto specifiche da essere ormai estremamente note agli abitanti di Burketown: quando l’erba si ricopre di rugiada, nella stagione più calda e che dovrebbe essere totalmente secca (nell’emisfero meridionale, attualmente è estate) quando i frigoriferi trasparenti dei supermercati e dei bar si appannano all’improvviso, e poi addirittura, nel momento in cui gli astanti del beneamato pub locale notano un leggero arricciamento degli angoli dei tavolini in legno compensato della sala principale, allora è l’usanza che si corra tutti fuori, con lo sguardo rivolto verso il cielo e anche possibilmente, telecamere o smartphone. Per tentar di catturare, quello che non può essere toccato con mano. Dargli vita eterna, per lo meno, nell’infallibile memoria di un blocchetto di silicio e bytes.

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La leggenda dei tremendi ponti siberiani

Siberian Bridges

Sarebbe particolarmente difficile, ritengo, negare il fascino estemporaneo che possiede per la nostra natura umana, il tema del viaggio. Quello spostarsi talvolta alla ricerca di un qualcosa, di eterno e imponderabile, che costituisce forse la natura e il senso stesso dell’esistenza. Ed è chiara e impressa nella mente quell’immagine, quasi allegorica nel suo puro ed assoluto simbolismo, della striscia percorribile, che corre a perdersi verso il punto di fuga all’orizzonte: asfalto, aiuole, aria di campagna. Tutto è splendido, nella presunta prefigurazione di una sconfinata pianura, dove esistono soltanto i punti d’interesse. Ma non c’è in effetti niente di più irrealistico, a questo mondo, che dare per scontata la continuativa persistenza di un contesto ideale. Quando il pianeta, frutto di sconvolgimenti vulcanici e derive pressoché spropositate, poggia sopra un mare di magma che frammenta, crepa e spacca il suolo. E sopra un tale susseguirsi di vertiginosi dislivelli, cosa fare…Se non costruire, tra l’alba e il tramonto dell’anélito e il bisogno, una struttura che è fondamentale alla sopravvivenza quanto l’edificio del granaio, il canale d’irrigazione, l’acquedotto della civitas; ovvero quella cosa, il ponte. Ed è lì, che si palesa la fondamentale distinzione della qualità.
Perché se pure tutti i ponti sono simili, almeno in potenza e nello scopo alla base della loro stessa messa in opera, è la condizione di contesto che immancabilmente può variare: e tutto pare accettabile, persino ragionevole, purché basti a continuare quel meraviglioso spostamento lungo l’asse orizzontale. Finché BAM, non giungi qui, per l’appunto, alla BAM – quel tratto di collegamento prevalentemente ferroviario, ma affiancato da una sorta di primitivo servizio per veicoli stradali, che prende il nome esteso di Baikal-Amur, dal nome rispettivamente del lago più profondo del mondo, presso la cui punta superiore il tratto ha la sua origine, e da quello del fiume Amur che sfocia nell’Oceano Pacifico, vicino al confine della Manciuria. 4.324 Km a partire dall’oblast di Irkutsk, confinante con la Mongolia e fino alla remota Sovetskaya Gavan, città portuale posta innanzi alle isole Sakhalin. La doppia strada, alternativamente ferrata, asfaltata o fangosa, misura dunque poco più della metà della mitica Transiberiana, ma con una significativa differenza: quei circa 4.200, tra attraversamenti pseudo-architettonici di fiumi, laghi, dirupi e fosse, in diversi stati di abbandono, principalmente a causa del poco utilizzo e delle condizioni climatiche spesso particolarmente proibitive. Perché quando fa freddo in Siberia, come probabilmente è cosa molto nota, non fanno “appena” zero o -10 gradi Celsius, ma un qualcosa di variabile tra i -20 e -30, sufficienti a mantenere uno strato quasi perenne di permafrost ghiacciato estremamente spesso, che nei suoi occasionali eventi di disgelo si spacca triturando, letteralmente, tutto quanto ciò che è stato costruito dalla mano degli umani. A ciò va pure aggiunto come la BAM, nonostante i grandi piani del premier Leonid Brezhnev (controllo del paese: 1964-1982) che l’aveva definito “il progetto d’ingegneria del secolo”, non venne completata nei tempi e modalità previste, con una progressiva quanto inesorabile caduta nel disuso, scivolando dalle 180 milioni di tonnellate annuali di merci previste in origine a solamente 8 per il binario occidentale, 5,5 per quello orientale. Per non parlare poi della rete stradale ombra, quel percorso parallelo costruito all’epoca per l’impiego da parte della forza lavoro e successivamente riconvertito ad arteria permanente, usata per collegare tra loro gli innumerevoli villaggi, paesi e cittadine sorte quasi spontaneamente lungo il suo tracciato a partire dal 1972, l’anno in cui circa 50.000 entusiastici giovani russi, definiti “gli eroici BAMovcy” partirono per le regioni più remote della taiga siberiana, convinti dalla propaganda di partito a legare il proprio nome e la propria opera alla costruzione di quella che sarebbe diventata un’importante risorsa strategica per i commerci verso il grande Oriente. Forse non sapendo, e come avrebbero potuto? Che molti di loro si sarebbero poi stabiliti in questi luoghi, per non farne ritorno mai più.

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