La gigantessa che protegge lo spirito di Stalingrado

La pagina che compare all’inserimento della stringa “statue più alte del mondodentro la casella di ricerca di Google è una di quelle classifiche che inerentemente, sembrano nascondere una storia. Il secolare confronto tra i popoli, alla ricerca di un ideale personificato, la forma antropomorfa da onorare sopra ogni altra. E la dimostrazione che talvolta, ben poco ha a che vedere la fama internazionale con l’effettiva possenza del soggetto rappresentato, nonostante quello che saremmo portati a pensare. Così Lady Liberty, il pregiato simbolo della più celebre città statunitense, figura solamente al 27° posto, mentre l’intera top 10 appare dominata da figure della religione Buddhista, tra cui l’Illuminato stesso, a partire dall’assoluto detentore del record presso il tempo di Zhōngyuán, nella pianura centrale della provincia dello Henan. 128 metri sopra un basamento a forma di loto, benché gli osservatori più critici saranno pronti a notare la forma quasi monolitica della figura, raccolta con un braccio lungo il fianco e l’altro lievemente sollevato, ad esprimere il mudra (gesto) dell’insegnamento. E persino la tremenda statua dello zar Pietro il Grande a Mosca, primo contributo russo alla classifica, che raffigura il sovrano del XVII secolo al posto di Cristoforo Colombo (si dice che il designer Tsereteli, nel 1997, non fosse riuscito a trovare un cliente americano) sopra una torre di caravelle assolutamente fuori luogo, ha in comune con le costruzioni asiatiche la stessa caratteristica primaria: uno sviluppo, per sommi capi, quasi del tutto verticale. È perciò soltanto al punto 10 dell’elenco, tra le foto incasellate dalla principale enciclopedia del Web, che le regole del gioco sembrano variare. Ivi compare, infatti, una figura femminile, con le braccia aperte per esprimere un richiamo, il volto contorto dall’ira ed i capelli trasportati su dal vento. Una possente spada stretta in pugno, quasi a spaventare tutti gli affetti dalle condizioni dell’automato-megalo fobia (paura delle statue giganti) lasciando immaginare uno scenario possibile, ma non probabile, in cui tutte queste cose tornino a pensare, muoversi e combattere, per dimostrare la superiorità ingegneristica del proprio contesto di appartenenza. Che poi sarebbe, nel caso specifico, Volgograd. La città che potreste anche conoscere, grazie a dozzine di film storici ed articoli pregressi, con il suo nome all’epoca della Grande Guerra Patriottica: Stalingrado.
85 metri, la Madre Patria Chiama. Questo il titolo della creazione risalente al 1959, opera del sodalizio fortunato tra l’artista Yevgeny Vuchetich e l’ingegnere Nikolai Nikitin, colui che dopo aver costruito l’Università di Stato a Mosca e il Palazzo della Scienza di Varsavia, avrebbe ricevuto nel 1967 l’incarico di edificare la torre radio di Ostankino sul terreno della capitale, tutt’ora l’undicesima struttura più alta del mondo (540 metri). E benché questa particolare opera pregressa non presenti la stessa scala inusitata, ci sono diversi aspetti che la rendono particolare, persino nel variegato quanto eclettico catalogo delle statue ciclopiche di tutto il mondo. In primo luogo, il materiale: trattandosi di un progetto sorto dalle ceneri dell’immediato dopo guerra, la figura è stata costruita infatti usando principalmente il cemento, l’unica sostanza che avesse un costo sufficientemente basso, e una diffusione abbastanza ampia, da poter rispondere alle esigenze economiche del caso. Il tutto nel contesto del Mamayev Kurgan, l’alta  collina che sorge accanto al fiume Volga, al tempo stesso cimitero militare, altare della commemorazione e monumento al Milite Ignoto della singola più vasta e sanguinosa battaglia nella storia dei conflitti umani. Oltre due milioni di persone, appartenenti ad entrambi gli schieramenti, persero la vita attorno a questo luogo nel 1942-43, per i raid aerei, i confronti corazzati e le operazioni di fanteria da casa a casa. 35.000 delle quali, tutte di nazionalità rigorosamente russa, trovano collocazione sotto il piedistallo della stessa statua, che viene per questo definito in lingua “Tumulo di Mamai”. Ben presto dopo tali eventi, mentre quello che gli storici hanno definito come un vero e proprio culto della vittoria prendeva piede tra la popolazione, con forti pressioni da parte del governo fu deciso che qui avrebbe preso posto uno dei più vasti complessi monumentali che il mondo avesse mai conosciuto, pieno d’imponenti gruppi statuari, un cenotafio e un mausoleo, raffigurante i nomi di tutti coloro che erano caduti per proteggere il mondo dal morbo dell’ideologia nazista. Recita il grande stendardo nella piazza degli Eroi: “Con un vento di ferro contro il volto, essi marciavano lo stesso innanzi, mentre la paura s’impossessava del nemico: erano ancora persone coloro che attaccavano? Potevano ancora definirsi dei semplici mortali!?” Che cosa, esattamente, avrebbe trovato posto in cima ai 200 scalini (uno per ogni giorno di combattimenti) verso la sommità della collina non fu facile da definire, almeno all’inizio…

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L’asino Brighty, eroe celebrato dalla Frontiera

So cosa state pensando: “Ecco la storia del solito animale idealizzato, in funzione di chi l’ha posseduto e qualcosa che costui ha fatto, con una semplice, patetica statua disposta in un luogo pubblico, affinché la gente del posto possa ricordarsi del suo passato.” Ebbene Brighty, il piccolo burro (particolare razza iberica d’equino) dal momento in cui le cronache acquisiscono il suo nome, non fu proprietà di nessuno, né ebbe modo di compiere alcuna spettacolare impresa. Diamine, spesso rifiutava persino di compiere il suo “dovere” di bestia da soma, strofinandosi contro gli alberi per far cadere a terra il carico, come sua prerogativa di bestia, fondamentalmente, ritornata alla vita selvaggia del West. No, questo personaggio peloso, rimasto famoso grazie alla testimonianza di molti, ebbe modo di diventare un simbolo dell’Arizona per gradi, attraverso coloro che seppero comprendere, interpretare ed analizzare la sua vicenda, così straordinariamente rappresentativa di quella della sua intera specie. Nonché del coraggio, e dello spirito d’intraprendenza, che ha sempre amato riconoscersi il variegato popolo americano.
Il suo viaggio verso la fama inizia, precisamente, nel 1893, quando il direttore di una società ferroviaria di nome Frank Brown, per ragioni largamente ignote, annega nel tratto più famoso del Colorado River: il Grand Canyon, gigantesco crepaccio nella pianura. Così che sua moglie, lungi dal rassegnarsi, andò a chiedere aiuto per cercare la persona scomparsa al pioniere ed allevatore John Fuller, che con un amico discende per trovare una qualsiasi traccia, anche postuma, del facoltoso turista. Una missione che sarebbe andata incontro all’assoluto nulla di fatto, tranne che per un ritrovamento del tutto inaspettato: una tenda per due abbandonata proprio nel mezzo della zona nota come Bright Angel Canyon, con un asino fuori in attesa del ritorno dei suoi padroni. Gli esploratori, a questo punto, fanno il loro ingresso scoprendo alcune lettere, un orologio ormai scarico e i bagagli di individui di provenienza incerta, la cui identità non sarebbe mai stata accertata. Dopo una breve meditazione, Fuller conclude che anche loro dovevano essere annegati, quindi slega l’asino e fa il suo ritorno in città.
Ora dovete sapere che i burros, come particolare tipologia d’animale, sono un prodotto sostanziale dell’allevamento umano. Creato per poter disporre di un trasportatore animale che sia sufficientemente docile, mangi poco e possa affrontare di buona lena una lunga giornata di lavoro. Importati nel Nuovo Mondo dai coloni spagnoli e portoghesi, simili creature diventarono quindi il vero e proprio simbolo dei cercatori d’oro del XVII e XIII secolo, che gli affidavano i propri picconi, la pala e i setacci nella speranza di riuscire a fare fortuna. Una volta raggiunto l’obiettivo prefissato, o abbandonato il sentiero della ricchezza potenziale, succedeva essenzialmente sempre la stessa cosa: l’uomo abbandonava il suo fedele compagno, nel preciso istante in cui non ne aveva più bisogno. Questi asini, tuttavia, lungi dal soccombere a causa delle avversità, si spostavano nelle zone più fertili, brucando l’erba che gli permetteva di sopravvivere e addirittura, prosperare. Si stima che all’inizio del ‘900, nel solo Grand Canyon vivessero parecchie centinaia di burros, per un numero destinato a superare i 3.000 entro soli 20 anni da quella data. Tra tutti quanti, tuttavia, Brighty era diverso. Nonostante il suo nome associato alla località topografica che aveva abitato (immagino che se fosse stato una femmina, l’avrebbero chiamato Angel) l’asinello iniziò spontaneamente a vagare, spostandosi al sopraggiungere dell’estate verso l’Orlo Nord, sito del primo hotel dedicato ai visitatori di questa zona impareggiabile nel panorama nordamericano. E fu qui, entro breve tempo, che iniziò il periodo più felice della sua vita.

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Il pilastro che fluttua nel tempio dei giganti

Ci sono luoghi, dall’antica e importante vicenda storica, presso i quali la principale attrazione turistica finisce per essere un singolo gesto, eternamente ripetuto dai visitatori curiosi, secondo un rituale che di ben poco è cambiato attraverso i secoli. Così come i fotografi della torre di Pisa, che cercano d’inquadrare i propri compagni di viaggi mentre ne falsano la prospettiva sulla pubblica piazza, nel territorio d’India dello stato dell’Andhra Pradesh, ben pochi varcherebbero queste sacre mura senza portare con se una tovaglia, un canovaccio, oppure qualcosa di oblungo da far penetrare al di SOTTO. Del blocco granitico da svariate tonnellate, che costituisce una delle molte colonne riccamente ornate del sancta sanctorum del tempio dedicato all’Avatar di Shiva Veerabhadra, presso la cittadina di Lepakshi, non troppo distante da Bangalore. Il quale, in maniera piuttosto insolita, non sembrerebbe poggiare sul pavimento. O almeno non completamente, come ci spiega con precisione l’autore di questo video Dong Trieu, che sembra aver dedicato alla questione una lunga sequenza di pensieri, giungendo infine alla conclusione che nonostante l’esistenza di un “trucco” (la pietra poggia in corrispondenza di un angolo) esso costituisca cionondimeno una delle meraviglie architettoniche della sua intera nazione. Eventualità condivisa, a quanto sembrerebbe, dai precedenti funzionari del governo coloniale inglese, che tentarono di svelarne il funzionamento danneggiandolo e lasciandolo in posizione parzialmente inclinata: un altro punto di contatto, se vogliamo, con il campanile della cattedrale di Santa Maria. L’epoca di completamento per una mera coincidenza poi, non è così distante, visto come le possenti mura di un simile luogo di culto furono messe assieme, con una tecnica delle pietre cesellate ed incastrate fra di loro non dissimile da quella dei edifici Maya di Machu Picchu, durante la dinastia coéva dei re Vijayanagara (1336-1646) per volere dei due governatori e fratelli Virupanna Nayaka e Viranna, affinché al suo interno abitasse in totale ascesi il saggio vedico Agastya. Benché esistano leggende locali che fanno risalire, almeno alcuni degli elementi, ad un’epoca molto più antica. E alla situazione che venne a crearsi per l’amore smodato nei confronti di due donne.
Sita era la diretta discendente della dea della Terra Bhūmi, che scelse di vivere tra gli umani come figlia adottiva del re Janaka di Videha. Riuscendo ad affascinare, con la sua naturale bellezza e l’aura straordinaria, niente meno che il principe Rama, il settimo avatar del dio Vishnu. Se non che i due, scelto di vivere in esilio assieme al fratello di lui nel territorio di Lakshmana, finirono per attrarre l’attenzione del potente Ravana, il sovrano demoniaco del regno di Lanka, che senza la benché minima esitazione, la portò via con la forza. Questa vicenda, alla base della principale guerra del lungo poema epico Mahābhārata, fu alla base d’innumerevoli battaglie, gesta eroiche e sacrifici, tra cui il primo fu quello di Jatayu, l’uccello magico simile ad un’aquila che faceva parte del vasto seguito di Vishnu. Il quale, assistendo dall’alto all’efferato rapimento, si lanciò subito all’inseguimento del re, se non che questi, proprio nel mezzo delle lande desolate, non rivelò il suo vero e possente aspetto. Allora Ravana, nella sua guisa di vero appartenente alla schiatta dei demoni Rakshasa, si sollevò in piedi sul suo carro, con dieci teste e centinaia di braccia, ciascuna delle quali impugnava un’arma terrificante, il ventre rigonfio per effetto del nettare dell’immortalità. I due combatterono nei cieli del mondo, finché inevitabilmente, l’imprudente Jatayu si vide strappare le ali e precipitò rovinosamente al suolo. Mentre il malvagio riprendeva la sua fuga, quindi, Rama giunse sulla scena, trovando l’amico volatile morente. Così dandogli l’estremo saluto pronunciò le famose parole “Le, Pakshi” ovvero in lingua telugu: “Alzati, uccello”. Gli umani, che avevano sentito il suo grido di dolore, decisero quindi di scegliere questo nome per l’intera città, e il luogo di culto che sarebbero sorti sulla scena di un simile tragico evento. Ma il tempio di Lepakshi, che come dicevamo è anche associato al nome di Veerabhadra, ospita al suo interno una statua in pieno armamento bellico di uno spaventoso guerriero, che aveva amato, anch’egli, una leggiadra fanciulla e che se l’era vista sottrarre per un crudele scherzo del fato. Si trattava di una delle personificazioni terrene più terribili del dio Shiva, che dopo un lungo periodo d’impegno spirituale da parte di lei, aveva scelto di lasciarsi conquistare da Sati, la figlia del re che era figlio di Brahma, Daksha. Se non che quest’ultimo, circondato dai maggiori lussi terreni, provava disprezzo per la vita condotta dal genero, che abitava tra i poveri, portava la barba lunga e ricopriva la sua pelle di cenere come i guru itineranti, circondato dall’ordine dei suoi devoti Bhutagana. Così che un giorno, invitata sua figlia a palazzo con la scusa di uno yajna (sacrificio) a Brahma, prese a criticarla di fronte a tutta la corte, ricoprendola di insulti così terribili che la spinse a suicidarsi, gettandosi nel fuoco. Questo fu un terribile errore. Quando Shiva venne a conoscenza della notizia, subito si tagliò un capello e lo divise in due. Da tali frammenti, quindi, scaturirono i due avatara Veerabhadra e Bhadrakali, tra i più pericolosi guerrieri che fossero mai vissuti. Questi si posero alla guida dell’armata dei Bhutagana, e presero d’assalto il palazzo di Daksha.

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L’oscuro messaggio delle statue inuit nell’aeroporto

Quanto a lungo può restare un’opera d’arte in luogo pubblico prima che qualcuno, finalmente, capisca il suo reale significato? 10, 20, 30 anni? Nel caso dei tre uomini di pietra del Toronto Pearson, aeroporto internazionale della più popolosa città del Canada, ne sono trascorsi ben 54. E sarebbero stati ancor di più, probabilmente, se la pagina Facebook del notiziario CBC Nunavut, rivolta agli abitanti di una delle regioni più settentrionali abitate dall’uomo, non ne avesse pubblicato per caso l’ennesima foto, accompagnata dall’enigmatica domanda: “Che cosa ne pensate?” Strano, in effetti, che non si trattasse di un semplice post mirato a sollevare un collettivo orgoglio verso l’evidente apprezzamento rivolto all’identità culturale di un’etnia ormai agli sgoccioli, che faticosamente mantiene il suo legame con le antiche tradizioni, bensì un’oggettiva richiesta d’interpretazione. Che puntualmente arrivata, da parte di un’utente che ha fatto notare con tono assolutamente neutro: “Quel tipo di inukshuk indica l’orribile presagio di un luogo di morte.” Perfetto, direi, per un aeroporto. Se si ha paura di volare. Ma è altamente probabile che in effetti, tale implicazione non fosse in alcun modo desiderata in origine, per quelle che dovevano costituire semplicemente tre decorazioni etniche e un modo per onorare il “patrimonio culturale” del Canada intero. Come potrete facilmente immaginare, in patria si tratta di un tema controverso: gli Inuit furono all’epoca, e per certi versi lo sono tutt’ora, una di quelle popolazioni native a cui vennero tolte le terre dai primi coloni, in cambio di pagamenti simbolici o mere promesse, benché su una scala decisamente minore rispetto alle tribù che presero il nome inesatto di indiani. Questo per il semplice fatto che molti dei luoghi di proprietà degli Inuit si trovavano talmente a Settentrione, nel più costante gelo ed assenza di facili risorse, che l’uomo bianco semplicemente non avrebbe potuto abitarle. Resta comunque un fatto che all’epoca delle Olimpiadi Invernali di Vancouver del 2010, l’insolita mascotte Ilanaaq dalla forma visibilmente pietrosa sia stata fortemente criticata da alcune associazioni, come appropriazione indebita di un tratto culturale che non è, non potrà mai essere canadese.
La definizione di inukshuk (pronuncia inuksuk, plurale inuksuit) è in senso letterale “[Ciò che] fa le veci di un uomo” essenzialmente assolvendo ad un ventaglio di mansioni molto ampio. Questa classe di costrutti di pietre accatastate, per una metà opere d’arte e l’altra strumenti utili alla vita di tutti i giorni nella tundra glaciale dell’Artico, hanno uno scopo diverso in base alla forma scelta dal loro costruttore. Ve ne sono di dedicati a segnare il passaggio di un sentiero sicuro, oppure in luoghi da evitare a tutti i costi, mentre altri indicano l’inizio di un terreno occupato da una particolare tribù. Nella caccia alle renne, tipici ungulati della regione, gli inuksuit hanno un ruolo importante: come unica presenza che sporge dalla distesa innevata, essi spaventano gli animali, i quali per sicurezza evitano di avvicinarsi, finendo dritti nella trappola degli umani. A partire dal primo aprile 1999, quindi, uno di questi punti di riferimento è comparso sulla bandiera ufficiale del nuovo Territorio a Maggioranza Inuit del Nunavut, in rosso su campo bianco e giallo. La sua particolare e riconoscibile forma, molto diversa da quella di un tipico cairn (cumulo segnavia) degli escursionisti occidentali, è quindi diventata famosa in tutto il Canada, che ha trovato in essa un tratto distintivo, ed unico, appartenente geograficamente al suo territorio. Un importante approccio all’arduo e sempre sentito problema di differenziarsi dall’altro paese di origine europea presente nel Nordamerica, gli ingombranti Stati Uniti. E da lì è iniziato, inevitabilmente, il problema: perché per una questione apparentemente semplice, come disporre le pietre in un cumulo vagamente antropomorfo, si nascondevano in realtà i diversi significati, trasmessi per lo più attraverso la via orale, e per questo inaccessibili ai non nativi. Molti, ad esempio, hanno lamentato la stessa definizione della mascotte delle Olimpiadi con il termine di inukshuk, quando in realtà si trattava di un inunnguaq, ovvero cumulo con testa e braccia spalancate, a esprimere un messaggio di qualche tipo. Un “piccolo” dettaglio, sfuggito in qualche modo alla designer canadese Elena Rivera MacGregor. O forse l’intento commerciale di semplificare le cose. La questione dei tre innunguat (pl.) dell’aeroporto di Toronto, tuttavia, è notevolmente più ricca di possibili interpretazioni.

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