Come prendere le vongole-rasoio americane

Long Beach Clams

Nascere come mollusco bivalve può sembrare la peggiore delle reincarnazioni punitive, ma la realtà è che la vita, persino come un semplice organismo privo di cervello propriamente detto, può riservare innumerevoli soddisfazioni. Simili creature, nascoste sotto la sabbia,  davvero conoscono il significato del termine RELAX. Sostanzialmente immote per definizione, allo scopo di nutrirsi non devono far altro che filtrare l’acqua, usando le loro branchie lamellari per intrappolare, e lentamente digerire, ogni sorta di pregevole micro-organismo. Impervie a tutti i predatori naturali, proprio in funzione della loro residenza prevalentemente sotterranea, sono dotate di un mantello (il “corpo” dei molluschi) lungo e flessibile, usato come un periscopio per sperimentare il mondo. Con esso scavano, fino alla superficie, praticando il foro di cui hanno bisogno per l’ossigeno ed il nutrimento. E se pure un gabbiano, con la bassa marea, oppure un pesce dei fondali bassi, nelle ore di totale copertura acquatica, dovesse ghermirne la preziosa estremità, poco importa: tutto quel che serve è un paio d’ore, affinché il suo padrone da guscio sottile e tagliente la rigeneri al 100%. Ben pochi sono i rischi che competono a vongole, ostriche o cozze, quella vasta classe di animali (oltre 9.200 specie) a cui gli americani attribuiscono il nome generico di clams. Anzi, essenzialmente ne permane solo uno, quello per così dire endemico di ogni cosa che tutt’ora abbia la superbia di camminare, strisciare o nuotare su questo pianeta. È il pericolo del buon sapore.
E chiunque abbia mai avuto la fortuna di assaggiare quel gusto unico, etereo e pungente, che tuttavia non ha nulla dell’acredine del pesce, ma piuttosto pare quasi un fungo morbido, con il sale aggiunto che deriva da generazioni di tranquilla permanenza nell’Oceano, può ben comprendere l’impresa del qui presente capitano Milt Gudgell, uomo di mare complete and thorough, che si avventura la mattina presto sulle coste della penisola di Long Beach. Non quella sicuramente più celebre, presso la città di New York, né l’altra sita in California, ma l’omonima striscia di terra sita nello stato di Washington, subito sotto il freddo Canada e non troppo distante da Portland, la città più popolosa dell’Oregon. Vedere l’esperto all’opera è davvero affascinante: l’abile pescatore di mitili, armato di un attrezzo poco visto fuori dagli Stati Uniti, percorre la spiaggia in lungo e in largo, in cerca di quello che viene definito normalmente un “tell” ovvero un qualche indizio, il segno dell’adorabile presenza sotterranea. Due sono i sensi coinvolti, ovvero la vista, perché recandosi subito dopo l’alta marea, in genere, si evita il problema della terra smossa dagli altrui passi,  avendo quindi la possibilità d’individuare facilmente i tipici buchini, ed il tatto, la capacità di percepire, battendo forte con i piedi, l’esistenza di un vuoto sotterraneo, generalmente causato dai piccoli ma laboriosi scavatori. Individuata, quindi, la presenza di una vongola, si passa al punto critico dell’operazione. Una clam gun, sostanzialmente, è un dispositivo portatile di carotaggio, che può essere realizzato in plastica se si tratta di un modello economico, oppure, come in questo caso metallo. L’operatore dovrà piantarlo in corrispondenza del punto in cui si ritiene di aver individuato il mitile, quindi spingerlo in profondità. Per un effetto naturale di suzione, la sabbia così catturata verrà fuori assieme allo strumento e, almeno si spera, la propria preda di giornata. L’impiego di un simile attrezzo non è particolarmente semplice, innanzi tutto per la posizione in cui si deve lavorare e il peso della quantità di materiale rimosso ad ogni singola estrazione. Ma soprattutto, c’è il problema della precisione: più di una vongola è stata rovinata, dall’impatto con il bordo tagliente dell’attrezzo, ancora prima che fosse possibile condirla con il burro e metterla in padella. Proprio questa, forse, la più spiacevole ingiustizia che possa derivare dal suo sacrificio. Il capitano, proprio per evitare tale infausta conseguenza, risulta fornito del tradizionale tubo in PVC, comunemente inserito nel terreno prima dello scavatore, al fine di determinare la precisa collocazione del mollusco, benché dopo i primi tentativi riesca facilmente a farne a meno. A tal punto conosce la sua spiaggia, e le sue prede, da aver superato una simile ulteriore necessità. Mentre per ogni ottimo ritrovamento, risuona il suo empatico grido di soddisfazione: “AHA!”  Non per niente ad oggi, la cattura commerciale delle vongole-rasoio è consentita solo limitatamente a pochi esemplari per pescatore (Mint parla di 15 al giorno) e richiede una licenza speciale dal costo di qualche centinaio di dollari, concessa in numero rigorosamente limitato. Ma vi siete già chiesti l’origine di questo nome, per così dire, tagliente?

Leggi tutto

Scolpisce un gambero da una cannuccia

Straw Shrimp

Perché se un gamberetto vero e incommestibile, preso singolarmente, costerebbe neanche un euro con un buco in mezzo, tutt’altra storia è quella della sua versione artificiale.  Non per “quello che è” (un po’ di plastica passata in uno stampo) ma per ciò che riesce a fare. Ovvero, procurarti la cena? Se almeno il giusto, ci sai fare. Se invece sei estremamente bravo, può bastarti quell’oggetto che è davvero poco nobile, perché serve per succhiare, ma si presta a strane manipolazioni…O sculture.
La vita dei tempi d’oggi qualche volta è strana. Una cannuccia: quasi spazzatura. E si fa presto a svalutare il candido regalo messo nella gabbia dei pappagallini, oggetto lungo e piatto, frutto organico per affilare i becchi piccoli e pungenti. A cosa serve, dopo tutto, l’osso della seppia, quotidianamente? Uno scarto inutile e insensato. Tranne che per lei, la seppia. Che è disposta a preservarlo con la vita – non che abbia una grande scelta, questo è chiaro. Ma la seppia non è stupida. Ma la seppia non è semplice o sbadata. Non puoi prenderla come un semplice pescetto d’acqua dolce, usando qualche nocciolina e una mollica, due piombini, tre ami ed una canna rigida o flessuosa. Pensa che la seppia, nella sua stagione degli amori, come i cervi ed i canguri, deve combattere con gli altri maschi per riuscire a conquistare ciò che serve a procreare: la di lei-seppia-ella. Talvolta così capita, sotto gli occhi spalancati della bella, che due di questi cefalopodi prendano a spingersi l’un l’altro freneticamente, finché fine non sopraggiunga una paralisi dovute per l’ingestione eccessiva di veleno (c’è una tossina, nella bocca della bestia, che funziona pure coi suoi simili, d’altronde). Dura lex della natura. Gli appartenenti all’ordine Sepiida crescono a dismisura, ininterrottamente, per l’intero corso della vita ed ecologia vuole, crudelmente, che ci sia soltanto una femmina per quattro, cinque, qualche volta addirittura 10 nuotatori della metà marziana dello stesso cielo. Quindi, ecco adesso che succede. Se c’è un maschio piccolino, ma con molto da dare, lui non sfrutta mai la forza, ma l’ingegno. Muta il suo colore grazie ai cromatofori di cui dispone, simili a quelli di un camaleonte, quindi nasconde due dei suoi tentacoli e cambia il modo di nuotare. Così sotto l’occhio di un possibile concorrente, meraviglia! Passerà per una femmina a sua volta (che per l’appunto avrebbe due “braccia” in meno). E giunto nel sommerso gineceo, potrà colpire. Una tattica pericolosa dalle strane conseguenze, indubbiamente.
Tutto ciò per dire che: A – la seppia è alquanto intelligente, come Ulisse il viaggiatore. I cefalopodi, in genere, lo sono. Altrimenti come farebbero a raccapezzarsi con tutte quelle splendide appendici? B – Queste creature ci vedono davvero molto bene. I loro occhi sono infatti grandi e rosso sangue, con vistose pupille dalla forma a W. Organi estremamente complessi e parzialmente affini a quelli degli umani, anche se non vedono i colori, possono distinguere la polarizzazione della luce e dunque riescono a cogliere perfettamente i minimi contorni delle cose. Non è facile convincere una seppia di qualcosa che non è. A meno di chiamarsi Jong Chool Do, dalla Corea.

Leggi tutto

La cosa peggiore da trovare tra il pescato

Sea Lion fishermen

L’equipaggio russo di un’imbarcazione sta per fare un’orrida scoperta, anzi due. Che ogni pesce scheletrato ha le sue spine. E che i pinnipedi con la criniera non dormono quando hanno fame. Come diceva Esopo, l’antico narratore. La zuppa di mare è quel piatto tipico della tradizione povera, che traeva la genesi, originariamente, delle indesiderate rimanenze di giornata. Il rude navigante, tolto il cappello e l’impermeabile, dopo una mattina fra le onde e un pomeriggio tra la gente, qualche volta ritornava a casa, stanco, dalla sua famiglia. Con vongole, seppie, gallinelle nella sacca intelata. Con rombi e scampi e qualche coda di rospo nel taschino, tanto per far da truce ciliegina. Cosa fare, dunque, se non mettere tutto in padella, assieme all’olio e al condimento vegetale… Per un’altra serata semplice, soddisfacente, nutritiva (sebbene alquanto ripetitiva, nei periodi sfortunati!) E c’era un po’ di tutto: il buono, col cattivo, separato solamente all’occorrenza, dalla moglie o dai figlioli sempre attenti, con forchette, con bacchette, con le mani. Un “fare” universale. Oggi, tale tradizione è stata trasformata, come molte altre, nella precisa scelta di chi va al supermercato, compra bestie surgelate, già domate, provenienti, addirittura, da ordinati allevamenti posti sulle coste del Mediterraneo. È ormai difficile trovare, dentro a un piatto di una tale zuppa, occhi galleggianti, pezzi di mandibola o tenere interiora incommestibili, pezzi di coriacee pinne e aculei velenosi. Se capita, sarà un errore. La tragedia che rovina l’occasione. Eppure il mare resta, come sempre lo era stato, imprevedibile. E nel primo contatto, inconoscibile!
Dove si svolga esattamente questa scena, non è chiaro. Il video si è materializzato su YouTube, verso la metà di ieri, in quindici copie parallele, titolate in russo, inglese ed altre lingue. Una cosa è certa: siamo tra le genti di quel paese, il più vasto della Terra, che si estende dall’Europa Orientale fino alle propaggini costiere di Nippon, terra di kanji e samurai. Quelli che dal canto loro le balene, vittime innocenti, le arpionavano da una distanza di sicurezza. Ma la Russia è differente: sul ponte del natante tanto incauto, si ode un grido all’improvviso: “Allarme!” Nella rete a strascico, faticosamente riportata a bordo, non c’è un tonno, né un cetaceo. Non c’è neanche, meno male, un povero delfino sfortunato. Ma…Qualcosa di..Selvaggio. Come se i pesci, stanchi di soffrire, si fossero riuniti sotto il segno del destino. Per evocare, sotto il segno della fine, una creatura che li possa vendicare, liberare dall’occulta schiavitù: “Troll di mare a bordo, salvatevi se potete!”

Leggi tutto

La forca e la feluca, la spada e il mare

Messina spada

Sopra l’onde turbolente gridano i gabbiani mentre sotto, silenziosamente, si agita la pinna di un temibile guerriero. Le conchiglie giacciono dimenticate, filtrando l’acque di quel dolce plankton che le nutre. Tutto scorre fin dall’epoca delle quadrate vele, strumento degli antichi marinai. Così facevano i Fenici. Ne cantò l’insigne Omero. E i nonni dei nostri trisavoli, allo stesso modo, muovevano quei lunghi remi. Solo il motore nautico poteva cambiarla e l’ha cambiata, la caccia messinese al pesce spada. Una praxis che si rimescola e dà nuove genesi dal brodo cosmico del tempo: Panta Rei, dicevano i filosofi, osservando la tendenza divergente delle opposte cose, perennemente sottoposte ad infinite mutazioni. Questo non significa che il vasto mare sia del tutto privo di strettoie, angoli ciechi, passaggi dalle insidie occulte, intramontabili e perverse. Dove convergono le anime perdute.
Ogni anno, tra maggio ed agosto, decine di migliaia di creature argentate si avventurano tra Scilla e Cariddi, in cerca di una valida compagna. Sono costoro gli Xiphias gladius, imponenti abitatori di ogni mare temperato del pianeta, con la coda a mezzaluna, la pinna in forma di falce e il naso lungo, aculeato, non dissimile ad un’arma penetrante. Come una lancia, il fioretto degli abissi. Uno strumento che li nobilita e caratterizza, ma che allo stesso tempo, fin dall’alba delle umane civiltà, li rende magnifici e desiderati. Condizione rara per una bestia, nonché di sicuro, tutt’altro che vantaggiosa. Giacché non è per niente insolito, nel corso della loro spedizione, d’incontrare una maestosa ombra, udendo in lontananza un rombo e le parole in greco di un’antico incantesimo di mistiche poesie. Finché d’un tratto, al solenne grido “Viva San Marco” non appare innanzi ai loro grandi occhi il simbolo supremo della Fine: un’asta lunga, con tre più corte nell’estremità anteriore. Il ferro del piscatore, approssimazione ragionevole della fiocina del baleniere. Se pure di Achab ce n’è solo uno, questo non significa che la balena bianca sia insostituibile, nei nostri piatti. Anzi! Già Archestrato di Gela, poeta siceliota del IV secolo, definiva questa carne come cibo degli Dei. Cartesio affermava, raccomandandola agli stomaci delicati, che “[…] Si squaglia in bocca come un’alga e suscita pensieri sia casti che d’amore allo stesso tempo”. E se ancora oggi abbiamo il privilegio di gustarla, in tanti piatti tradizionali ed altre specialità della Sicilia, il merito anche di questa tecnica ereditata dai nostri avi. Basata soprattutto sulla calma e l’abbandono, un apparente tipo di disinteresse che conduce alla vittoria.
Oggi, la caccia si svolge a questo modo: la barca veloce, della tipologia snella ed elegante che viene definita feluca, viene bardata di due interessanti, quanto originali strutture. La prima è un’antenna metallica, alta anche 25 metri, sopra la quale trova posto una vedetta. La seconda è una lunga passerella, leggera e rastremata, al termine della quale sta in agguato un coraggioso cacciatore. Il ragionamento è molto semplice: se tu vedi il pesce, puoi colpirlo. Se lui non ti vede, resta fermo. Che l’uomo possa precedere la propria barca di una distanza equivalente allo scafo stesso, alla natura non potrà essere mai chiaro; a questo modo, dunque, egli scaglia la sua lancia triforcuta verso il basso. E colpisce, molto spesso, proprio quello che voleva. Il seguito è fin troppo chiaro. Trapassato dalle punte a senso unico, da cui è impossibile fuggire, il pesce tenta invano di salvarsi. Più e più volte si inabissa, venendo per ciascuna ritirato in alto. Finché alla fine, con un ultimo colpo di coda, soccombe. Tratto al di fuori del suo ambiente con gli onori normalmente riservati ad un eroe sconfitto, lo spada viene adagiato sopra il ponte dell’imbarcazione. Qui, almeno secondo l’antica usanza, i suoi catturatori tracceranno in prossimità della branchia destra il doppio segno perpendicolare della “caddata dà cruci”, prima di coprire il pesce con un telo, per proteggerlo dal sole. O dagli sguardi lucubranti. Questa antica tecnica di pesca, così lontana dal sentire pratico dei nostri tempi, viene considerata preferibile all’uso delle reti a strascico e degli altri metodi moderni. Prima di tutto, perché non danneggia i preziosi fondali sopra cui si svolge, gemme inestimabili del Mediterraneo. E secondariamente, in quanto lascia alla vittima un piccolo barlume di speranza. Che gli possa in qualche modo, nel momento della verità, scansarsi un po’ di lato. Evitare il proiettile, per nuotare innanzi verso l’orizzonte.

Leggi tutto