“Buongiorno, umano. Io sono Genesis. I cani mi conoscono come Alfa. I gatti come Omega. Per la vostra razza sono un enigma. Ho guardato nell’abisso e l’abisso ha guardato me. Poi, ho perso interesse.” Poche altre sono le informazioni desumibili dalla sua sola ed unica pagina web ufficiale: si tratta, a quanto pare, di un essere appartenente alla Generazione 0. Ha un tempo di ri-attivazione dopo l’accoppiamento definito “rapido”. E il suo proprietario sarebbe un certo Simpson J. Cat. Il quale ha pagato 110.000 dollari per poter vantare un simile privilegio, nel trascorso mese di dicembre 2017. Per un valore che, oggi, è molto difficile da definire. Per una singola importante ragione: nulla di tutto questo, in realtà, esiste. Tranne per quella bizzarra illustrazione in bassa definizione, vagamente simile al gatto psichico Mewtwo, il Pokémon definitivo. Ma quando dico che non esiste, intendo che Genesis non è l’ingranaggio funzionale di alcun mondo interattivo, neppure la più rudimentale forma di videogioco. A meno che non si voglia definire tale il mero interscambio commerciale e l’accoppiamento fecondo di figurine a quattro zampe condotto sul portale di CryptoKitties, vagamente riconducibili al concetto di “gatto ermafrodito a cartoni animati”. Come ogni altro atomo dell’universo, Genesis esiste semplicemente, in un solo possibile luogo (o in questo caso, portafoglio) alla volta. Iniziamo ad usare termini tecnici: poiché ci troviamo, se non fosse ancora evidente, nel territorio delle criptovalute, dove wallet non indica tanto l’espressione più comune di un borsello per trasportare il denaro, bensì l’indirizzo anonimo, individuale, usato per custodire i propri asset guadagnati tramite il il codice condiviso della blockchain. Che possono avere molti nomi, benché il pubblico dei non-iniziati tenda ad associarli tutti allo stesso termine-ombrello di “pseudo”- Bitcoin. Sono in molti, oramai, ad avere familiarità con una simile idea: la liberazione dal potere delle banche tramite l’impiego della crittografia, secondo il metodo rivelato per la prima volta al mondo dal misterioso Satoshi Nakamoto, l’ingegnere informatico senza volto per una mera questione di autodifesa, temendo comprensibilmente di essere in qualche modo ricattato, rapito o fermato dai cyber-ninja o gladiatori dell’alta finanza internazionale. Ma i tempi cambiano e con essi la percezione, pubblica ed individuale, di un approccio tanto radicale al problema.
Così tra gli eredi più celebri di quel sistema, nel mondo cambiato dei cosiddetti Bitcoin 2.0, il russo-canadese Vitalik Buterin ha un nome e un cognome, nonché un’età (24 anni) e un volto, indissolubilmente associati all’invenzione di Etherium, un programma di calcolo distribuito utilizzato non più soltanto per la distribuzione controllata di somme variabili di denaro, ma anche la stipula di veri e propri contratti, attraverso l’impiego di una macchina Turing completa. Il che significa, tradotto in termini essenziali, che la sua valuta (l’Ether) è la prima di successo nello spazio virtuale ad essere non-fungible, ovvero quantificabile per ciascun singolo elemento (token) con un valore completamente arbitrario, che può corrispondere ad un servizio, una proprietà immobiliare, un bene fisico oppure… Non-fisico, non-tangibile, non-funzionale. I più ottimisti ad aver espresso un’opinione sul fenomeno memetico della fine dell’anno scorso lo definiscono una “prova di concetto” su quello che potrebbe rappresentare, in futuro, un mercato simile alla borsa sostenuto non più da pochi computer all’interno di caveaux blindati nei luoghi più protetti della Terra, ma un’infinita pluralità di questi, dislocati tra case private, server farm e le più remote dacie sperdute nel mezzo della Kamčatka, purché fornite di una valida antenna satellitare. Questo perché il santo Graal della crittografia, la succitata “catena di blocchi”, è un pacco infinitamente complesso che resiste (idealmente) a qualsiasi tentativo di manomissione, proprio perché tutti gli individui coinvolti e/o interessati possono vederlo, allo stesso tempo. In quest’ottica, il fenomeno CryptoKitties ha svolto a pieno la sua funzione di beta test, dimostrando le molte problematiche relative alla scalabilità del sistema: all’apice del suo successo verso l’inizio di quest’anno, vendere, acquistare o produrre (tramite l’accoppiamento) uno di questi gatti poteva richiedere molte ore se non giorni, con l’aumento conseguente delle tariffe accessorie, a causa della sproporzione tra il numero di transazioni e la quantità totale di persone disposte ad offrire la propria capacità di calcolo informatico alla codificazione della blockchain. Eppure è innegabile che l’attuale valore della valuta Ether (circa 250 dollari) nonché la sua posizione preminente nell’instabile mondo dei coins, sia largamente da imputare alla scintilla di possibilità infinite intraviste dal pubblico di settore in un “gioco” che, sebbene con gravi limitazioni, tanto illogicamente si è dimostrato capace di far cambiare di mano l’equivalente circa 40 milioni di dollari. Fin’ora.
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Hotelicottero, il più possente aeromobile a decollo verticale
I ricordi dei bambini degli anni ’80 sono letteralmente popolati d’improbabili cognizioni, relative all’uscita di presunti videogiochi, film o creazioni a fumetti, in qualche modo rivoluzionari o del tutto fuori dalla linea logica delle cause ed effetti coévi. Col trascorrere dei mesi, dunque, simili opere non riuscivano mai per prendere forma tangibile o materiale, lasciando uno strano senso d’incompiutezza e delusione… Unico punto in comune, la data in cui venivano annunciate simili notizie sulle riviste di settore, antenate dell’odierno mondo digitale informatizzato: sempre ed immancabilmente, l’inizio del mese di aprile. Così come nella catena del bullismo da caserma, questi scherzi, o veri e propri PESCI se vogliamo, erano destinati a lasciare una profonda impressione nella formazione caratteriale di un’intera generazione. Quella che oggi alimenta la propria stessa ragione d’esistenza a colpi formidabili di fake news. Ma c’è stato un fugace momento, quell’attimo ancora in bilico dalla parte stabile del burrone, in cui l’intenzione di sorprendere in maniera positiva era ancora l’obiettivo dei burloni, prima che finalità politiche o in qualche modo satiriche diventassero il motore alla base di ogni elaborazione, per così dire “creativa” della realtà. Già, era il 2009, quando hotelicottero prese per la prima volta il volo. L’apparente filmato pubblicitario, assai popolare verso la fine del primo quinquennio nell’esistenza di YouTube, in cui un’entusiastica voce fuori campo presentava l’incredibile visione di un albergo volante, allestito apparentemente a bordo di un gigantesco elicottero a due piani. In realtà presentazione completamente fittizia di un sito statunitense per prenotare in albergo, lo spot completo di rendering e fotografie dei lussuosi interni riuscì a convincere non poche persone, causando un’ondata di sdegno verso lo spreco a cui sapevano giungere i favolosamente ricchi, indifferenti alle ragioni dell’incipiente crisi. Mentre nel frattempo, un serpeggiante quesito serpeggiava nella mente dei più ragionevoli: un elicottero così grande non poteva esistere a questo mondo. Giusto?
Ovviamente le opinioni possono divergere. E quando il promotore di una simile idea si trova si trova a capo del più grande e funzionale dipartimento di progettazione elicotteristica nazionale al mondo, tutto può accadere. Persino l’incredibile materializzarsi di quello che appena un terzetto di decadi dopo, sarebbe stato giudicato materia da pesce d’aprile. Quel qualcuno era Mikhail Leontyevich Mil e l’epoca, gli anni ’60, quando la Russia sovietica aveva un importante problema: come trasportare, in alcune delle località più remote della Siberia e gli altri recessi dell’Asia sub-artica settentrionale, i materiali necessari a costruire un certo numero di installazioni sotterranee, all’interno delle quali dispiegare una certa quantità del proprio arsenale nucleare. Come potreste in effetti sapere, stiamo parlando di territori straordinariamente remoti in cui la costruzione e il mantenimento di strade moderne avrebbe un costo proibitivo, soprattutto in proporzione alla bassissima densità di popolazione. Tutte le strade fatta eccezione per quella che resta pur sempre, inerentemente, a disposizione: la via del cielo. Fu così che nacque il quadrimotore Antonov An-22, tutt’ora detentore del record di aereo ad eliche più grande del mondo, costruito in 68 esemplari dal peso a vuoto di 114 tonnellate. Ma il bureau non era soddisfatto ed alquanto incredibilmente, voleva di più. Pretendeva in effetti di poter spostare i propri missili senza dover fare riferimento alla posizione di alcuna pista di atterraggio, in altri termini, voleva metterci delle pale su quella cosa, e vederla partire su verticalmente per atterrare, possiamo soltanto presumerlo, nello stesso identico modo. E fu allora che entrò in gioco la Mil, compagnia a partecipazioni pubbliche di proprietà dell’omonimo scienziato-ingegnere con il quartier generale a Tomilino, iscritta all’elenco di sussidiarie della Вертолеты России (“elicotteri russi”) gigantesco fornitore dell’esercito con svariate decine di migliaia di dipendenti. Tra i quali tuttavia, Mikhail Leontyevich con e sua equipe spiccavano per la creatività e l’inclinazione a creare le più enormi e potenti tra tutte le gru volanti, con un’estrema propensione a raggiungere l’effettiva catena di montaggio. Così mentre il rivale professionale ed ex-collega Nikolai Ilyich Kamov diventava famoso per i suoi elicotteri coassiali, design progettuale controverso in cui una coppia di rotori sovrapposti ruotano in direzioni opposte, lui aveva già ottenuto l’approvazione del Mi-1 e il Mi-8, due dei più affidabili e riusciti elicotteri da trasporto a rotore singolo che fossero mai stati costruiti. La scia di successi alquanto prevedibilmente, non poteva continuare per sempre. E fu così che il rinomato progettista, rispondendo alle richieste dei generali, iniziò a dedicarsi a quello che sarebbe stato nel contempo il suo capolavoro e il più notevole fallimento della sua carriera. Nome in codice: Mil V-12, benché sarebbe passato alla storia con la denominazione convenzionale dei paesi NATO: elicottero Homer. Strane suggestioni retroattive dall’universo dei cartoni animati…
Lo strano quartiere in Via dello Stadio da Baseball 1
È una questione piuttosto nota, anche se raramente discussa, quella per cui le città giapponesi, il più delle volte, non seguono l’usanza di dare un nome alle strade. Disponendo, piuttosto, all’ingresso di ciascuna zona, delle mappe simili a quelle del centro commerciale o lo zoo, ciascuna delle quali riporta la disposizione, completa di numero assegnato a ciascun edificio, degli abitanti presso cui sono dirette comunicazioni via posta, pacchi o visitatori dell’ultima ora. Va da se che si tratti, ad ogni modo, di un sistema che si affida in modo considerevole alla disponibilità delle persone, nonché dell’essenziale poliziotto di quartiere, che dalla sua caratteristica micro-stazione (la “kōban”) può fornire indicazioni a chiunque si senta momentaneamente, o irrimediabilmente smarrito. L’eccezione che conferma la regola? A giudicare da una foto particolarmente famosa su Internet da un periodo di almeno 10 anni, c’è stata un’epoca lunga 10 anni in cui un’intero vicinato della vasta metropoli di Osaka avrebbe potuto beneficiare di un agevole punto di riferimento: il principale, e più amato, tra tutti gli stadi urbani, trasformato per ragioni misteriose in ben più di un semplice arredo urbano, bensì lo stesso muro di contenimento, ovvero l’anfiteatro, in cui edificare una tripla fila di graziose villette a schiera, con tanto di vasto parcheggio per gli abitanti e qualche albero decorativo, trasferito per l’occasione continuativa sull’ex terreno di gioco. L’illusione, per chi avesse osservato la scena dall’alto (i droni ad uso privato, all’epoca, erano per lo più una creazione immaginifica degli autori di fantascienza) sarebbe stata perfetta sotto ogni punto di vista, con tanto di lampioni accesi e luci sfavillanti dall’interno delle finestre posizionate in parallelo. Gli spalti, pronti a riempirsi di nuovo in qualsiasi momento, avrebbero fatto pensare all’inquietante vicenda cinematografica del Truman Show.
C’è un’intrigante storia, dietro a tutto questo o per meglio dire, ce ne sono diverse. Come facilmente desumibile dall’inserimento della curiosa testimonianza sul venerando portale Snopes, l’antesignano di qualsivoglia analisi digitale memetica, che amava presentarsi come “un catalogo di leggende metropolitane” il quale riporta, in apertura, l’interpretazione più famosa: il 17 gennaio del 1995, nell’area costiera di Kobe che dista soli 35 minuti dal centro di Osaka, si era verificato l’Hanshin Awaji daishinsai (grande terremoto di Hashin Awaji) un tremore di 6,9 della scala MMS, che causò danni devastanti e la perdita di 6.434 vite umane. Non appare del tutto inimmaginabile, né degno di biasimo, che un’amministrazione cittadina in cerca di un luogo per ospitare i numerosi profughi, avesse pensato di costruire un nuovo quartiere all’interno del proprio stadio, senza investire i fondi extra necessari per demolirlo. Senza considerare come esista, nel mondo antico occidentale, almeno un importante precedente: quello della città francese di Arles, che dopo la caduta dell’Impero Romano, si ritirò all’interno di una fortezza ricavata dallo stadio costruito sul modello del Colosseo. Niente di meglio per difendersi dagli zomb… Pardon, i barbari! Ad un’analisi più approfondita, tuttavia, questa interpretazione di seconda mano rivela subito i propri punti deboli: in primo luogo, perché mai una simile iniziativa avrebbe dovuto condurre a graziose villette a schiera, piuttosto che un più spazioso ed utile condominio? C’è poi la questione della stessa mentalità giapponese. Che nel momento in gli individui vengono colpiti dal verificarsi di un disastro inaspettato, raramente consente loro di affidarsi alle concessioni di terzi, affidandosi ai servizi offerti dalla società. Ma induce piuttosto in loro l’iniziativa immediata di porre rimedio e ricostruire, lavorando alacremente per edificare il nuovo mondo sulle macerie di quello vecchio.
Ma il vero colpo di grazia a una simile teoria viene da un’altra foto stavolta in bianco e nero, rappresentante la stessa scena, datata 1991: ben quattro anni prima della catastrofe geologica. Nessuna iniziativa d’emergenza, dunque, e nessun bislacco approccio alla soluzione abitativa prelevato direttamente da un disaster movie anni ’90 (per non parlare del recente videogame post-apocalittico Fallout 3) in cui lo stadio diventava un quartiere cittadino. Bensì una spiegazione che appare, per certi versi, ancor più improbabile e sorprendente…
L’unico cellulare che non occupa tasche ma le crea
Da bambini, prima che una sufficiente cultura motoristica penetrasse oltre lo spazio della nostra limitata conoscenza delle cose del mondo, molti di noi ricordano con delusione la dicitura di “automobile a tre sportelli”. Quando s’immaginavano, per divertimento, possibili vie d’ingresso nella macchina di famiglia, soltanto per rendersi conto che i punti ragionevolmente adeguati a farlo erano soltanto due. Mentre il terzo, ahimé, serviva preferibilmente per i bagagli, essendo in effetti disconnesso dalla zona in cui si trovavano i sedili. Ma almeno una volta, mentre i genitori erano momentaneamente distratti, non siamo forse riusciti a farlo? Entrare di soppiatto da dietro? Una volta raggiunta l’età della ragione, dunque, simili marachelle hanno smesso di avere una parte nell’organizzazione delle nostre giornate. Inviati in giro per la città dalle necessità del quotidiano, senza poter contare più sul pratico servizio taxi dei genitori, ci siamo ritrovati a prendere una volta o due l’autobus. Ed è proprio in quel momento, che le nostre aspettative sono andate di nuovo incontro ad un estremo senso di frustrazione. Perché non si era forse parlato, in origine, di “jeans a quattro tasche”? Laddove io, come immagino chiunque altro, dovrei ragionevolmente lasciare il territorio entro le mura domestiche armato di: 1 – chiavi 2 – portafogli 3 – cellulare. Ma il problema, a conti fatti, è il seguente: nessuno, assolutamente nessuno, si sognerebbe mai di dire che uno di questi tre importanti oggetti, durante una trasferta in un luogo affollato e stretto quale il più tipico vagone del trasporto pubblico, sia prudente metterlo nelle tasche di dietro. A meno di vivere nella città più onesta del mondo (um…Tokyo?) Ecco che allora, le quattro tasche promesse sono improvvisamente diventate due! Che fare, dunque… Mettere le chiavi col beneamato smartphone (orrore) oppure il portafogli con le chiavi (dling, dling, dling) o addirittura, il cellulare col portafogli (praticamente, un marsupio)? Ora, piuttosto che star qui ad elencarvi le possibili soluzioni, ve ne proporrò una del tutto alternativa. Avrete certamente notato, nei vostri pantaloni, la minuscola “tasca per gli spicci” talmente piccola che nella migliore delle giornate, non riuscireste ad infilarci neppure una metà del vostro pollice sinistro. E se i dicessi che oggi, grazie ai miracoli della tecnologia applicata, è dimenticato possibile usare un simile angusto pertugio per depositarvi il più familiare oggetto adibito alla comunicazione via etere satellitare…
La risposta: ZANCO. Che non è un’imprecazione in lingua kiswahili (a meno di una straordinaria coincidenza) bensì il nome della realtà aziendale creata nel 1995 dall’imprenditore britannico Shazad Talib, con il nome originario di Zini Mobiles, per creare un tipo di cellulare molto moderno, che privilegiasse il costo ridotto, la praticità e semplicità di utilizzo. Praticamente il perfetto dispositivo per l’India, il Sud dell’Asia e tutti gli altri paesi o regioni geografiche in via di sviluppo, con buona pace dei marchi a noi ben più familiari di Samsung, Sony o LG. Così nella crociata del cercare segmenti di mercato precedentemente inesplorati, la compagnia ha quindi creato il suddetto marchio alternativo, sotto la cui bandiera sono stati proposti al pubblico un tipo particolarmente interessante di telefonini: quelli accompagnati tutti egualmente dalla noméa di “cellulare più piccolo del mondo”. Con nomi come formica, ape, ragno, e misure che si aggirano in media tra i 17 e i 20 cm. Quindi compatti, addirittura minuscoli, eppure non ancora abbastanza affinché l’utilizzatore possa posizionarli nella nostra già citata mini-tasca dei jeans. Finché qualcuno, per sua e nostra fortuna, non sfidò Mr. Talib chiedendogli: “Se dovessi farlo per scommessa, quanto credi che potresti ridurre le dimensioni dei tuoi cellulari?” Ed è così che, dopo un anno di ricerca & sviluppo (che vuoi farci, gli imprenditori prendono gli scherzi con sincero puntiglio) dai laboratori della Zini è venuto fuori il prototipo del Zanco Tiny T1: 4,6 x 2,1 cm, ed un peso complessivo di 13 grammi. Qualcosa di talmente piccolo che prima di mettersi a produrlo in serie, il patròn si è sentito in dovere di fare un sondaggio su Internet relativo all’interesse che avrebbe suscitato sul grande pubblico. E quale miglior modo di farlo, che il sito di raccolta fondi Kickstarter, punto di partenza di 1.001 idee innovative e qualche manciata di validi videogames…