Non credo sia evidente per tutti allo stesso modo, la maniera profonda, ed innegabile, in cui Internet ha cambiato il nostro modo di viaggiare. Per la maniera in cui si cerca freneticamente, al momento stesso in cui si arriva in hotel, il modo per connettersi ai nostri siti social più utilizzati, onde iniziare subito a postare pubblicamente le nostre impressioni e le foto scattate dal momento stesso in cui siamo sbarcati in aeroporto: noi che camminiamo, noi che mangiamo, noi che facciamo il segno della pace di fronte ad un qualche monumento storicamente o naturalmente rilevante. Ma le conseguenze di un simile approccio all’esperienza di un luogo nuovo, in realtà, vanno persino più a fondo di così. Poiché riconoscendo un valore, al tempo stesso estemporaneo e duraturo, alla nostra immagine proiettata attraverso gli impulsi elettrici della comunicazione digitale, si modifica il tipo stesso di situazioni in cui si fa tutto il possibile per trovarsi. Così che il viaggiatore non cerca più l’occasione di sperimentare degli attimi che gli permettano di trasformare la sua conoscenza del mondo e dei suoi abitanti, quanto piuttosto quelle determinate circostanze adatte ad accrescere la considerazione di se stessi che hanno amici, parenti e colleghi. Ed è proprio qui che entra in gioco la quadratura del cerchio, ovvero quello strumento multifunzione che portiamo oramai ovunque: lo smartphone. Uno scatto dopo l’altro, possibilmente un video o due. Ed è scontato che, quando il vero soggetto dell’intera faccenda siamo noi stessi, cosa vuoi che importi tentare di essere originali? Così determinate mode percorrono, come onde provenienti dal bel mezzo dell’Oceano Atlantico, specifici recessi di quel contesto multiforme che è Internet, diventando un “mai più senza” di chiunque sia alla perenne ricerca di partecipazioni impersonali o un sufficiente numero di likes. Per non parlare, in determinati casi, degli introiti pubblicitari. È successo con specifici gesti (planking, owling, ice bucket challenge…) così come destinazioni memetiche (i luoghi del Codice da Vinci, le strade riprodotte in maniera fotografica negli anime giapponesi) oppure determinati animali, possibilmente in contesti dall’alto grado di specificità.
Qualcuno ricorderà, ad esempio, il periodo in cui Instagram era invaso da una quantità spropositata di testimonianze raccolte presso la “spiaggia dei maiali” alle Bahamas, dove i simpatici suini vivono liberi, facendo il bagno assieme ai turisti. Prima ancora c’erano state le scimmie della foresta sacra thailandese di Ubud, o se vogliamo risalire ancor più nel tempo, i leoni fotografati da lontano nel corso di un qualche safari nelle terre più profonde dell’Africa nera. E qualcuno ricorderà certamente, la scorsa estate, il gran successo riscosso da una particolare destinazione caraibica dove mostrarsi a guisa di grandi amanti degli uccelli: la spiaggia dei fenicotteri presso l’isola di Aruba. In prossimità della capitale, Oranjestad, dalla quale è possibile scorgere, a meridione e nelle giornate di cielo particolarmente terso l’ombra distante della terra ferma venezuelana. Che si staglia all’orizzonte, dietro ad una sottile striscia emersa, nota con il nome di Renaissance Island. Tecnicamente a sua volta una cay, o isola corallina, attorno alla quale si trovano le uniche spiagge private di questo piccolo paese, riservate ai clienti del particolare ed omonimo albergo, oltre a tutti coloro che dovessero accettare, per il solo privilegio di vistare un simile luogo, di investire la cifra non propriamente insignificante di 100 dollari a persona. Per poter accedere alle sdraio, i luoghi di ristoro, i campi da tennis, ma soprattutto trovarsi a pochi centimetri di distanza da svariati esemplari di uno degli uccelli più riconoscibili, e al tempo stesso bizzarri, di tutti gli habitat costieri terrestri. Esistono sei specie facenti parte della famiglia Phoenicopteridae, un nome derivante dal greco che significa “[dalle] piume rosso sangue”. E tra tutte è in dubbio che quello americano (Phoenicopterus ruber) sia certamente uno di quelli dall’aspetto maggiormente intrigante: 120/140 cm di animale, dalle zampe lunghe e sottili, il collo che si ripiega su se stesso, l’inconfondibile becco nero che pare essere stato montato al contrario. Per non parlare dell’incredibile colore, frutto della maniera in cui il suo metabolismo incamera il beta-carotene contenuto nei crostacei, i cianobatteri e le alghe che costituiscono la sua dieta. Alieno come un visitatore proveniente dal pianeta Venere, il fenicottero costituisce in se stesso un enigma evolutivo degno di essere analizzato. Ma forse la questione più significativa di tutte, in questo specifico caso, è un’altra: come mai gli animali che si trovano sull’isola di Renaissance, a differenza dei loro simili di Aruba e nell’intero territorio dei Caraibi, non scelgono mai di volare via?
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Incontri ravvicinati col cucciolo della foca elefante
Dopo aver raggiunto l’isola coi suoi genitori, che ben presto si erano diretti verso i luoghi d’intrattenimento da loro preferiti, si era ritrovato per lo più solo. Una situazione tutt’altro che ignota per uno che proveniva dal suo ambiente, dove il raggiungimento della “maggiore” età (6 anni) non era altro che una mera formalità, oltre la quale l’avrebbe atteso soltanto una vita di duri e significativi impegni: prendere il sole sulle spiagge dell’Antartide, difendere dagli altri maschi il territorio di accoppiamento, guadagnarsi la fiducia di un harem e immergersi nelle acque dell’Oceano Atlantico, fino alla profondità 2.000 metri, alla ricerca di guizzanti scampoli di cibo. Il più grande appartenente all’ordine dei carnivori! Il più forte dei pinnipedi! In grado d’immagazzinare nel suo organismo ossigeno sufficiente per fino a due ore di esplorazioni sottomarine. E adesso era lì, tra i fondali rocciosi, e in qualche maniera gli era difficile di stare provando un certo grado di noia. Agitando di qua e di là le dieci dita palmate che tutte assieme costituiscono la sua pinna posteriore, il giovane mammifero del peso appena di un paio di quintali (una volta adulto, avrebbe raggiunto anche le tre tonnellate) fece uscire la sommità della testa dalle gelide acque, subito seguìta dal più impressionante paio di occhi neri, simili a mirtilli della dimensione di una mela. Quindi, sorprendendo se stesso, si ritrovò a spalancare la capiente bocca di colore rosa: questo perché davanti a lui, campeggiava in piena evidenza una coppia di alieni! La pelle rossa tranne che per la sommità del capo, rosa in parte e per il resto nera. Anzi no: a uno sguardo più attento, le due entità sembravano ricoperte da una sorta di strato protettivo, come il pelo nel momento immediatamente successivo al periodo di muta. Il cucciolo di foca non sapeva spiegare la sua sensazione, ma in qualche maniera aveva compreso di trovarsi a due femmine, d’indole marcatamente amichevole. Questo fece scattare in lui una particolare linea di pensieri: “Strane persone non sono cattive. Loro non hanno figli che le accompagnano. Loro può fare me compagnia!” (Sintassi, grammatica, ortografia…?) Quindi molto lentamente, per non spaventarle, fece rotolare la sua massa già poderosa dalle ruvide circostanze del bagnasciuga. Lui non poteva infatti saperlo, non essendo evidentemente andato a scuola, ma questa era l’isola di Petermann, un luogo al largo della sinuosa piattaforma di ghiaccio Larsen, dal quale un essere sovrumano avrebbe quasi potuto scorgere la punta inferiore della Terra del Fuoco cilena. Ambiente in cui la sua particolare genìa, di alcuni degli animali più impressionanti di tutti e 7 i mari ed oltre, era in realtà un’occorrenza piuttosto rara. Assai più, in effetti, di quella dei semplici turisti umani, qui attratti ogni estate dalla presenza su queste terre dalla presenza un santuario per gli uccelli migratori rari, oltre a un’intera colonia di pinguini gentoo (Pygoscelis papua).
Così come lui, piuttosto amichevole ma cionondimeno smarrito e perplesso, si era trovato dinnanzi effettivamente a persone che mai, quel giorno, si sarebbero sognate di fare una tale esperienza. In simili situazioni, da che mondo è mondo, dev’essere sempre l’animale a fare il primo passo. O come nel presente caso, l’ultimo balzello. Valido a far emergere la vera e propria supposta vivente dall’acqua, iniziando il laborioso spostamento sulla poco scorrevole terra ferma. Fu allora che il cucciolo, con sua somma sorpresa, percepì qualcosa di totalmente inaspettato. Sempre più basito, fece aprire del tutto le sue narici più volte, in grado di flettersi durante le immersioni in profondità, e sentì un’odore indefinibile. La cui provenienza sembrava essere, misteriosamente, quella dei “sassi morbidi” che le due entità si erano trascinate dietro, qualcosa che i suoi genitori sarebbero forse riusciti a riconoscere come delle borse. Affini alle reti da pesca che talvolta incontravano, e da cui erano soliti sottrarre una certa quantità di pesce. “Cibo, uhmm, cibo.” Pensò tuttavia lui, mentre d’un tratto, la distanza pareva accorciarsi esponenzialmente. E poi d’un tratto, era lì. Aprendo di nuovo la bocca per annunciare la sua presenza, emise un breve suono acuto. “Le loro facce, così piccole. Non hanno peli.” Muovendosi con cautela, si avvicinò il più possibile, fino al punto di sentire il calore del loro corpo. O almeno, provarci. La loro scorza esterna era fredda come il ghiaccio! Che delusione. Infilando il suo muso tra le borse, quindi, continuò ad annusare…
La stella più inaspettata della guida Michelin
Ci sono diversi luoghi affascinanti che un visitatore di Singapore, l’ultima città stato al mondo, non può assolutamente fare a meno d’includere nel suo carnet: gli sfolgoranti orti botanici dei Gardens by the Bay, con i loro enormi alberi artificiali. Il tempio con la reliquia del dente di Buddha nel distretto di Chinatown, notevole esempio di architettura risalente all’epoca Tang. Il parco giochi degli Universal Studios sull’isola di Sentosa, con abbinato acquario dotato di oltre 100.000 animali marini provenienti da tutto il mondo. E il banco del “Pollo brasato alla soia nello stile di Hong Kong, riso e noodles” dello chef Chan Hon Meng, almeno secondo la prestigiosa guida Michelin, che l’anno scorso l’ha insignito, assieme ad un altra location gastronomica di strada, come luogo assolutamente degno di essere sperimentato almeno una volta nella vita. Ma persino rispetto al suo concorrente e co-premiato “Noodles con carne di maiale (da oltre 30 anni) su Hill Street” di Tai Hwa, questo hawker (ambulante) colpisce per la sua modestia, semplicità ed aspetto contestuale del tutto ordinario, qualità tradotte in un prezzo di ammissione che è semplicemente il più basso ad essere mai stato incluso tra i ristoranti degni di questo premio: esattamente un dollaro e cinquanta, praticamente un terzo di quanto costi un panino di McDonalds nella sua città. Detto questo, non c’è assolutamente nulla di comune nella sua sfolgorante attività commerciale. In grado di attirare, già la mattina presto, file di persone talmente lunghe da uscir fuori dall’hawker center in cui opera soltanto dal 2009, pur avendo oltre 35 anni di esperienza nel suo settore. Già soltanto l’insegna del Chinatown Complex, questo luogo gremito di gente in cui è possibile gustare cibi ai massimi livelli della categoria, era un’attrazione in grado di attrarre egualmente visitatori locali e provenienti da fuori. Da quando però gli ispettori, presumibilmente in borghese, dell’istituzione di valutazione dei ristoranti più famosa al mondo, si sono seduti ad uno di questi tavoli ed hanno deciso che meritava l’entry level della loro desiderabile ricompensa (considerate che persino i più importanti chef iniziano con una singola stella) la situazione è nei primi tempi letteralmente sfuggita di mano. Hawker Chan, come hanno iniziato a chiamarlo i suoi clienti più affezionati, aiutato unicamente dai suoi due impiegati, è arrivato a servire anche 180 polli in un giorno, lavorando 17 ore abbondanti e trovandosi costretto, all’ora di tornarsene a casa, a mandare via chi non è riuscito a servire. Finché lo scorso inverno, associandosi con la catena di franchising Hersing, non ha aperto un vero e proprio ristorante di appoggio, dotato anche di aria condizionata, ad affiancare la sua celebre bancarella. Gli estimatori di vecchia data del suo pollo, tuttavia, affermano che il gusto di quello preparato da lui personalmente sia tutta un’altra cosa.
E c’è un’ottima ragione per questo: persino brasare la carne è un’operazione che può nascondere trappole, o vie d’accesso segrete verso l’assoluta eccellenza procedurale. Anni, ed anni nell’uso dello stesso equipaggiamento, con persone che ormai seguono le tue istruzioni in maniera istintiva… Fuori dal Chinatown Complex campeggia una sagoma dell’attore Bruce Lee, che notoriamente disse: “Preferirei affrontare un nemico che conosce 10.000 calci diversi, piuttosto di uno che ha dato lo stesso calcio 10.000 volte” e questo è un motto che potrebbero facilmente adottare anche i proprietari di alcuni dei ristoranti più pregiati di tale zona. Le stelle Michelin, anche nella loro versione più esclusiva a gruppi di tre, sono notoriamente un premio per l’eccellenza gastronomica che non sempre si traduce nella facilità di apprezzamento da parte del pubblico. Essa è anzi un traguardo tra i più difficili, per istituzioni come i ristornati più blasonati che si preoccupano più che altro di servire “un certo tipo” di clientela. Eppure ci sono scuole di pensiero diverse, su quale debba essere il traguardo ultimo di un vero cuoco. Ed è indubbio che Hawker Chan, con il suo capolavoro ripetuto nel quotidiano, sia riuscito a rapire una considerevole percentuale della popolazione di Singapore…
Lo Zen dei monaci con il cestino sulla testa
Li chiamavano komusō. Eleganti nella loro enigmatica stranezza, compunti e al tempo stesso passionali, perfettamente immobili mentre soffiano con tutto il proprio fiato dentro al mistico cilindro di bambù. Questi monaci del vuoto, gli esponenti di una setta che ebbe, al suo apice durante l’epoca Edo (1603-1868) oltre 100 templi disseminati in tutto il Giappone, sono una vista non del tutto infrequente nelle espressioni mediatiche moderne di quel paese. Spesso li abbiamo visti, per fare un esempio, nel cinema di arti marziali. Pronti a sfoderare il coltello nascosto nel flauto, oppure la corta spada indossata di traverso dietro la schiena. Eppure chi di noi può dire, veramente, di sapere chi fossero costoro? Portatori di un’oscura novella, o per meglio dire un kōan, (“paradosso”) praticanti di un muto proselitismo. Poiché credenza fondamentale della Fuke-shū, una derivazione mistica del Buddhismo Rinzai del monte Hiei, era che il segreto per raggiungere l’illuminazione non potesse essere in alcun modo compreso, e quindi tanto meno narrato al prossimo o trasmesso in una maniera semplice e diretta. Benché l’atmosfera in cui esso poteva verificarsi, in qualche maniera, potesse venire espressa attraverso un suono. Quello della musica, che in determinati ambienti veniva definita l’essenza della suizen, 吹禅 – meditazione soffiata; in netta contrapposizione con la zazen, 坐禅 – meditazione da seduti. Così nacque quella particolare figura di musico itinerante dotato di shakuhachi (尺八 – il flauto lungo 8/10 di un piede) e la testa coperta dal particolare copricapo in vimini, nominalmente concepito per annullare la percezione dell’Ego, in un’importante espressione esteriore del sentire buddhista. Ma che secondo il popolo serviva, invece, a nascondere la precisa maniera in cui veniva suonato il sofisticato strumento di bambù. E che invece alla fine dell’epoca del Bakufu, il governo dell’onnipotente Shōgun, finì per avere un terzo, ben più inaspettato scopo: nascondere l’identità delle sue spie.
Un curioso ed inaspettato binomio che trova la più chiara dimostrazione nell’aspetto tutt’altro che rustico di queste figure itineranti con l’abitudine di chiedere l’elemosina, le quali soprattutto nell’epoca tarda erano spesso dotate di kimono di seta nera e un rakusu, il vestimento simile a un grembiule indossato da tutti i monaci Zen, costruito anch’esso con strisce di stoffe pregiate. Non senza sollevare parecchie critiche da parte della popolazione. Tale opulenza perché, molto spesso, i komusō venivano ordinati tra la classe dei samurai rimasti senza lavoro o un signore feudale (i cosiddetti ronin) dopo il termine della guerra civile, con l’apocalittica ma risolutiva battaglia di Sekigahara (21 ottobre 1600). La nuova elite del clan trionfatore dei Tokugawa, dunque, pensò bene di acquietare questa potenziale massa di rivoltosi e dissidenti, offrendogli in concessione una serie di privilegi. E nel farlo, come molti prima di quel momento, usò il pretesto della religione. Sarebbe tuttavia un errore pensare che la cultura della scuola Fuke-shū abbia trovato la sua massima espressione in quell’epoca, con finalità di sfruttamento per lo più materialistiche. Quando essa trovò terreno fertile in Giappone per la prima volta nel 1254, con il ritorno dalla Cina del monaco viaggiatore Shinchi Kakushin, alias postumo Hottô Kokushi, che nel XIII secolo si era recato per incontrare il 17° discendente del semi-mitico fondatore Puhua. Questa figura monastica vissuta attorno all’800 d.C, facente parte degli allievi del celebre maestro Zen Linji Yixuan, che era famoso per il suo eclettismo e la capacità di comprendere la natura più effimera della disciplina Zen. Estremamente indicativa è ad esempio la storia dell’anziano maestro Panshan Baoji, che al momento in cui seppe che la morte stava per sopraggiungere, chiamò gli studenti affinché qualcuno potesse dipingere un suo ritratto per la posterità. E quando nessuno di loro ebbe il coraggio di dichiararsi all’altezza, Puhua accettò immediatamente, prima di fare una capriola e scappare via. Oppure quella del pranzo formale durante cui Yixuan gli disse “Un capello inghiotte il vasto oceano, un seme può contenere il monte Sumeru” al che l’allievo diede un calcio al tavolo, rovesciandolo. E quando il giorno dopo l’insegnante lo chiamò “rozzo individuo” rispose affermando: “Cieco signore, dove è possibile predicare la raffinatezza nel Dharma (insegnamento) del Buddha?”