“Mostra e racconta” è l’occasionale tipo di lezione scolastica, particolarmente rappresentativa di un certo stile d’insegnamento anglosassone e nord-europeo, in cui ciascun alunno viene invitato a portare un oggetto particolare, antico o in qualche modo interessante, su cui prodursi in una presentazione esplicativa nei confronti dell’insegnante e dei propri compagni. Gesto particolarmente funzionale a uno stile di studio tangibile ed apparente, per cui la storia dev’essere considerata in funzione di quanto è ancora possibile osservare coi propri stessi occhi e discutere attorno ad un metaforico cerchio attorno al falò del mondo contemporaneo. Ma potenzialmente poco conduttivo, nei confronti dell’astrazione accademica dei fatti trascorsi, modalità più versatile per approcciarsi agli eventi vissuti dai nostri predecessori. Eppure c’è stato almeno un caso, nel 2014 in Svezia, in cui l’effettivo svolgersi di un tale incontro ha saputo generare un effetto a cascata inversa, tale da cambiare sensibilmente la percezione a noi accessibile di un particolare personaggio storico, le sue gesta e il potenziale luogo esatto della sua morte. Individuo del calibro di Harald Bluetooth, re di Danimarca e Norvegia, deceduto poco più di mille anni prima dell’invenzione nel 1999 dello standard di comunicazione wireless che porta il suo nome, per via di un vezzo dell’ingegnere informatico suo creatore, Frans G. Bengtsson. Così come scritto e profetizzato dalla cosiddetta moneta (o disco) di Curmsun, ritrovata da una bambina svedese all’interno di una scatola di bottoni ed altra chincaglieria appartenuta a suo nonno, di cui nessuno sembrava conoscere l’effettiva provenienza finché non la vide, quasi per caso, il suo professore di storia.
Una laconica scritta in alfabeto runico, recante la dicitura latina: “ARALD CVRMSVN + REX AD TANER+ SCON + JVMN + CIV ALDIN” e sull’altra faccia una croce circondata da un ottagono e quattro puntini, potenzialmente corrispondenti ai quattro apostoli del vangelo. Il tutto inciso su una piccola medaglia di 4,5 cm di diametro, ricavata da un materiale ormai opacizzato che a causa del tempo trascorso, tutto poteva sembrare tranne che vero oro. Se non per il suo peso di 25 grammi, subito notato dal docente in questione, e l’assoluta coerenza logica dei fatti implicati dal reperto. A partire dalla parola Curmsun stessa, in realtà la riconoscibile quanto imprecisa traslitterazione runica della dicitura Gormson – figlio di Gorm (il Vecchio) riferito ad uno dei più importanti re della Danimarca. Quell’uomo con dente artificiale, o forse i molari scuriti dalla sua passione per un qualche tipo di bacca o potenzialmente il betel (Piper betle) antesignano lievemente psicotropico e proveniente dall’assai dell’assai successivo tabacco, così da essere soprannominato Dente Blu, che scelse di sottoporsi all’autorità spirituale del papato, convertendo nominalmente se stesso e il regno alla venerazione di Cristo mediante i metodi della tradizione medievale. Il che aveva incluso un battesimo, senz’altro, ma anche l’erezione di un’alta stele nota come pietra runica di Jelling (assieme ad un’altra che viene comunemente attribuita al padre) con un’incisione mirata a commemorare proprio tale importantissima conversione di stato, così come per inferenza la strana moneta ricomparsa quasi per caso dai magazzini polverosi della storia. Il cui strumento d’interpretazione più importante è proprio il luogo esatto della sua provenienza, ricostruito a partire dall’articolata storia del manufatto, che fu originariamente portato in quel paese dai due fratelli Sielski, combattenti della resistenza polacca che avevano trafugato alcuni artefatti antichi dalle sale di una chiesa in Pomerania Occidentale, per finanziare e tentare un qualche tipo di fuga dalla Wermacht tedesca. Iniziativa non del tutto riuscita, se è vero che uno di loro avrebbe finito per trascorrere il resto della guerra all’interno del campo di Auschwitz (da cui sarebbe tuttavia uscito vivo, riuscendo poi a ricongiungersi alla famiglia) ma che avrebbe permesso all’oggetto di raggiungere, assieme ad altri apparentemente di poco valore, la soffitta dove senza nessun tipo di attenzione pregressa sarebbe improvvisamente ricomparso sulla cattedra di una scuola. Portando al coinvolgimento di studiosi esperti, e di lì a poco, alla pubblicazione di un certo numero di articoli su testate di fama internazionale…
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La somma dei cateti sull’ipotenusa di un palazzo che definì New York
Londra, Parigi, Amsterdam, Liverpool arrotolate in uno, allungate e proiettate verso il cielo: questo sembrava la città che un giorno avrebbe avuto il soprannome geometrico di Grande Mela, all’inizio di un secolo che più di qualsiasi altro in precedenza, iniziava a trarre benefici dal potente flusso tecnologico dei tempi moderni. Oltre i gremiti stabilimenti portuali sottoposti allo sguardo scrutatore della grande statua, nelle strade ove multiple culture, lingue ed etnie d’appartenenza collaboravano, nell’arduo tentativo di dare un senso alla letterale nuova città di Babele, arditi uomini del tutto privi di vertigini si arrampicavano sopra le impalcature, superando ripetutamente il record relativo alla struttura più svettante del mondo intero. Seguendo l’esempio di edifici come il Manhattan Life Insurance, col suo pinnacolo alto 106 metri al di sopra di un parallelepipedo di 18 piani del 1870, lo schema strutturale ancora ripreso dalla Singer Tower di 187, con la differenza che la torre assomigliava a un piccolo Big Ben da questo lato dell’Atlantico, posta in equilibrio su di un alveare quadrangolare d’appartamenti ed uffici. Mentre i luoghi più attraenti dell’agglomerato urbano lentamente iniziavano a prendere forma, con una focalizzazione particolarmente significativa nei dintorni di Madison Square. Così l’imprenditore immobiliare Amos Eno, che fin dal 1857 possedeva l’inusuale lotto occupato un tempo dal St. Germaine Hotel, si ritrovò successivamente alla demolizione del palazzo fatiscente ad un dilemma: come sfruttare al meglio uno spazio esattamente triangolare, definito dal passaggio di arterie inamovibili come la Quinta Avenue, la East 22° e Broadway? La sua risposta fu l’unica possibile con gli strumenti di allora, vertendo sulla costruzione di un edificio convenzionale da sette piani nel punto più largo, subito seguìto da tre palazzine che ne avevano soltanto tre, in quello che fu presto chiamato un cow-catcher (“acchiappa-mucche”) forse per la forma simile allo scudo metallico situato di fronte alle locomotive a vapore. In un impeto di creatività imprenditoriale, quindi, trovò il modo di proiettare con una lanterna magica pubblicità ed immagini interessanti sulla più alta parete, monopolizzando l’attenzione volubile dei newyorchesi che passavano di lì. E nonostante il valore del terreno continuasse ad aumentare esponenzialmente, fino alla sua morte nel 1899 rifiutò di venderlo, finché proprio tale evento portò alla liquidazione per pagare i debiti di famiglia, senza tuttavia impedire al figlio William di ricomprarlo per 690.000 dollari, scegliendo poi di rivenderlo ad 890.000 alla famiglia Newhouse. Entro il 1901 tuttavia, proprio questi ultimi ebbero la fortuna di riuscire a vendere l’assortito gruppo di palazzine per 2 milioni di dollari alla Fuller Company di Harry S. Black, la prima compagnia di costruzione della storia ad essere specializzata in modo specifico nell’edificazione di grattacieli: qualcosa di grande stava per succedere, sebbene nessuno allo stato corrente dei fatti potesse anche soltanto iniziare ad immaginarne la natura.
Black coinvolse quindi un celebre architetto di Chicago, Daniel Burnham, seguace della scuola estetica parigina delle Beaux-Arts, che tanto aveva fatto in quegli anni per rinnovare l’aspetto neoclassico delle città di mezza Europa. L’idea di costui, per sfruttare al massimo lo strano spazio disponibile, sarebbe stata dunque quella di edificare una sorta di “antica colonna” nel centro esatto di New York, che potesse apparire da particolari angolazioni come un letterale oggetto fuori dal contesto, qualcosa in grado di nutrire, e al tempo stesso sfidare, l’immaginazione dei suoi stessi utilizzatori. Per farlo fece in modo di sfruttare un cambiamento significativo nelle norme e regolamenti edilizi urbani, che per la prima volta a partire da quell’anno permetteva l’impiego di scheletri d’acciaio interno senza violazioni del codice antincendio, favorendo il mantenimento di forme architettonico sensibilmente più ambiziose, e strutturalmente impressionanti, che mai prima di quel fatidico momento. L’ispirazione possibile, per quanto ci è dato desumere, potrebbe essere stata quella del “ferro da stiro” di Atlanta, l’English-American Building del 1897 che costituisce un simil cuneo tra i viali principali di quella città, ma anche la Casa Saccabarozzi di Torino (soprannominata fetta di polenta) risalente al 1840, se non addirittura il tempio romano triangolare della città in rovina di Verulanium, nella Britannia del Mondo Antico. La scala, tuttavia, è del tutto priva di precedenti: crescendo alla velocità inimmaginabile di un piano a settimana, il Fuller Building ne raggiunge ben presto i 21, vedendo la sua facciata progressivamente ricoperta di pannelli di terracotta. Senza raggiungere in alcun modo la stravagante imponenza dei disegni preparatori di Burnham, e guadagnando contrariamente alla sua idea d’origine lo spazio commerciale triangolare in corrispondenza della sua “prua”, inizialmente affittato alla catena di tabaccai della United Cigar Stores, su esplicita richiesta del direttore dei lavori Harry Black e contrariamente all’opinione dell’architetto, che credeva ne rovinasse l’effetto finale. Ma le ragioni del guadagno e recupero dell’investimento, da quel momento, avrebbero dovuto governare la storia di questa struttura…
La rara “pietra danzante” che si piega come fosse una piadina romagnola
In molti ricorderanno attraverso il corso delle proprie esperienze cinematografiche degli anni ’80 il personaggio del Mordiroccia, descritto dallo scrittore originale del romanzo Michael Ende come un gigante dalla pelle coriacea, capace di trarre sostentamento tramite il consumo di materia non organica, frantumata entusiasticamente tra i suoi denti simili a possenti mole. Ultimo della sua specie (come potrebbe essere altrimenti) l’essere descrive quindi all’eroe protagonista della narrazione il gusto posseduto dai diversi minerali: la spontanea dolcezza dello zinco, il sapore salato del rame, l’intenso umami posseduto dal ferro. E le consistenze tanto varie e sconosciute agli uomini, numerose quanto quelle di pietanze distribuite sulle nostre tavole dell’ora di cena. Ma se quel titano gentile, ci viene dato ad intendere, avesse mai voluto masticare, masticare qualche cosa per un tempo superiore al singolo minuto, si sarebbe ritrovato a fare i conti con un grave ostacolo procedurale: l’effettiva mancanza, a beneficio delle proprie proporzioni e preferenze alimentari, di un qualcosa che potesse fungere in maniera simile ad un chewing gum. Un gran peccato, per il regno di Fantàsia, quando si considera come la nostra prevedibile e familiare Terra ospiti tra i suoi depositi geologici qualcosa in grado di servire esattamente a tale scopo. Una cosa che parrebbe sfuggire alla definizione stesso del concetto espresso da tale parola, eppure per sua formazione, provenienza e composizione, giammai potrebbe essere null’altro di apprezzabile dall’esperienza sensibile di chi usa gli strumenti della ragione. “A-arenaria?” Pare quasi di sentire il rombo che riecheggia in mezzo alla palude, mentre mette in bocca il singolare dono proveniente dall’altro lato del portale: “Quanto dura il suo sapore, oh, quanto dura!”
Più che dura ed abbastanza, potremmo affermare con particolare presenza di spirito e d’intenti. Poiché qui di effettivamente durevole, c’è soltanto quello; mentre il pegno mineralogico del nostro affetto, con tanta magniloquenza offerta all’imponente ospite della serata, oscilla a trema, si piega e non mantiene la sua forma. Ovvero tutto quello che ti aspetteresti da un qualcosa di derivazione vivente, ovvero scheletro o residuo di esseri già fagocitati dal furioso Nulla delle circostanze. Niente di più sbagliato… Di questo! Griderebbe al nostro indirizzo il Marchese di Lavradio, vicerè di Rio de Janeiro, che per primo nel 1780 scoprì e descrisse le notevoli caratteristiche di un tale materiale ritrovato presso il monte Itacolumi, nella porzione meridionale della regione sudamericana di Minas Gerais. Mancando di assegnarli un nome ma annotando la presenza di una certa quantità di talco, clorite e mica, all’interno di un corpo mineralogico a base di arenaria fissile trovata nel sostrato coloniale. E soprattutto la capacità niente meno che sorprendente, da parte di un simile soggetto sperimentale, di piegarsi per l’effetto di una sollecitazione ragionevole, o persino sotto il suo stesso peso, una volta tagliata in strisce abbastanza sottili. Una dote per di più isotropica, ovvero indipendente da una singola direzione della grana, bensì in grado di verificarsi lungo l’estendersi dell’oggetto in qualsivoglia senso, proprio come si trattasse di un foglio di carta o tappetino per il bagno ammorbidito dall’acqua furiouscita da una vasca eccessivamente piena. Pur mancando dei moderni metodi d’analisi petrologica, e mancando di assegnargli un nome più specifico di quello di “arenaria flessibile” il Marchese avrebbe quindi trovato una conferma delle sue ricerche nei rapporti di Mr R.D. Oldham, direttore dell’Istituto Geologico dell’India, capace di trovare un tipo di pietra molto simile presso le pendici del monte Kaliana, vicino Dadri a Jhind. Con la sola significativa differenza di una grande quantità osservabile di quarzite nella sua composizione, tuttavia capace di accrescere, piuttosto che diminuire, le sue implicite capacità di flessione. Un effettivo appellativo utilizzabile per il concetto di tale misteriosa materia sarebbe quindi giunto dal mondo accademico europeo, alla consegna dei campioni in sede al geologo Von Eschwege, che scelse di chiamarla semplicemente itacolumite, dal suo luogo di provenienza originale in Brasile. Fu questo l’inizio, di un lungo periodo d’approfondimento ed introspezione…
La rosata torre in Scozia che potrebbe aver ispirato Cenerentola nell’alto castello
Strisce orizzontali segmentate, sotto aguzzi triangoli a forma di freccia, sormontati da altrettante piccole bandierine perpendicolari al terreno. Sopra il tetto un semi-cerchio, mirato a rappresentare possibilmente la volta celeste. Un grande portone ad arco nel centro e di fronte ad esso, la scritta calligrafica riportante il celebrato nome: Walt Disney, proprietario della più rinomata e significativa compagnia d’intrattenimento al mondo. Il cui logo non è soltanto un castello, bensì l’unione di questa popolare immagine con scintille sfolgoranti e una particolare melodia. Eppure, guarda caso, è sempre quella costruzione architettonica a restare maggiormente impressa agli spettatori, al punto che vagando per la campagna della Scozia settentrionale nei pressi di Alford nella contea di Aberdeen, finiscono per restare all’improvviso come folgorati, da un’insistente, inevitabile senso di déjà vu. Nel momento preciso in cui si ritrovano a scorgere, a lato della vecchia A980, una replica ragionevolmente fedele della forma classica, e innegabilmente tipica, di quanto visto tante volte al cinema o in videocassetta fin dai tempi dell’infanzia e quella dei propri stessi eredi. Una forma cromaticamente contrastante in mezzo alla vegetazione, quella del riconoscibile castello di Craigievar, vista la particolare tonalità delle sue svettanti mura: 26 metri per sette piani di mura di un surreale, caratteristico colore rosa. Perfettamente uniforme lungo l’intero estendersi del suo contorno fortificato, fino alla serie mensole architettonicamente decorative poste a due terzi della sua altezza e fino all’intrigante serie di balconi, piattaforme e torrette multipiano che occupano la svettante sommità fortificata. Ponendo le basi per una capacità di attirare i visitatori da lontano meglio di qualsiasi cartellone pubblicitario, ben nota fin da quando nel 1879 la regina Vittoria in persona, durante una scampagnata con il marito Alberto si ritrovò a scorgerlo da lontano, non potendo resistere al richiamo della sua strana ed interessante forma. Finendo per andare a visitarlo incuriosita ed in assenza di alcun occupante, un episodio rimasto tra quelli di maggior prestigio nella storia dell’edificio. Le cui origini possiamo far risalire, nelle cronache storiografiche, ad almeno due secoli prima…
Era dunque l’inizio del XVII secolo quando Patrick Forbes, vescovo di Aberdeen e proprietario di Corse Castle, ricevette per l’ennesima volta suo fratello minore William, famoso per le strane iniziative d’affari e le ingenti fortune sperperate dietro irrealizzabili idee. Eppure ciononostante, viste le spropositate fortune della sua famiglia, gli accordava l’ulteriore prestito, nella quieta speranza che stavolta avrebbe ottenuto un metodo efficace per uscire dall’indigenza. Il giovane Willie dunque, come erano soliti chiamarlo a quel tempo, usò i fondi per acquistare una nave e dirigersi, senza particolari esitazioni, fino alle coste della Polonia, dove riempì le proprie stive di legna da costruzione a buon mercato. Che una volta ritornato nella patria Scozia, riuscì a vendere con importante nonché significativo guadagno. Era l’inizio di un nuovo processo commerciale e ben presto, i vascelli sotto il suo comando si moltiplicarono, permettendogli di disporre di una considerevole somma da investire in qualsiasi progetto potesse prender forma nella sua mente. Così nel 1625, egli scorse il terreno e la svettante costruzione posta parzialmente in opera dal clan impoverito dei Mortimer, che avendo ormai esaurito i fondi cercavano di vendere per andare a trasferirsi in città. Rimasto colpito dalle potenzialità di un tale luogo, scelse quindi di acquistarlo e portarne a termine la costruzione, realizzando l’idea spesso ripetuta da suo padre William Forbes of Corse, di vivere in una residenza in cui “I ladri dovranno bussare se mai dovessero voler mettere piede all’interno.” Un’ambizione che potremmo a pieno titolo affermare che sia stata centrata in pieno…