Nelle oscure profondità dell’edificio di medicina, alcune delle più influenti personalità dell’Università di Heidelberg erano giunte per assistere all’esperimento. Il giovane ricercatore Gunter von Hagens, nel corso dell’intero 1977, aveva redatto testi, e pubblicato articoli, in merito a una sua speciale invenzione tecnica, capace di lasciare molti senza parole. Ma in quel giorno, in quel momento, era finalmente giunto il momento della verità. Spettatore silenzioso sopra la barella al centro del teatro anatomico, il corpo ormai privo di vita di uno dei molti senzatetto della Germania Est, volontariamente “donato” alla scienza nel momento estremo della sua dipartita. Ora il promettente anatomopatologo, già detentore di svariate pubblicazioni di fama internazionale, descriveva ancora una volta i passaggi successivi della sua invenzione, attraverso cui avrebbe creato il più impeccabile modello di studio del sistema venoso umano. Terminato il breve discorso, girando attorno alla pompa della resina, impugnò il pesante tubo a Y, che con procedette quindi ad inserire rispettivamente nell’esofago e nella trachea del paziente. Senza troppa gentilezza, né forza eccessiva, avendo fatto pratica per più e più volte, prima di procedere all’accensione così lungamente attesa del suo meccanismo. Tecnologia, magia, qual è la differenza? Pensò sommessamente tra se e se, mentre il processo di plastinazione raggiungeva l’apice di quel momento straordinariamente significativo. Ora sarebbero dovute trascorrere ore, o giorni, prima di poter procedere al passaggio successivo. Ma come in un programma di cucina per la Tv, Hagens aveva già preparato un secondo cadavere, posizionato su di una barella accanto al suo malcapitato collega. Con un gesto magniloquente, dunque, tirò la leva per attivare il sistema elevatore che l’avrebbe immerso all’interno di una grande bacinella in fibra di vetro. Ricolma, per l’occasione specifica, di una copiosa quantità della sua speciale miscela d’acetone. Ora i minuti trascorsero lunghi minuti e quasi un’ora, mentre il processo di corrosione chimica si svolgeva secondo il copione attentamente prefissato. Hagens utilizzò il tempo per spiegare nuovamente come fosse giunto a quel processo, finché non seppe che si era arrivati ormai al suo miracoloso compimento. Ecce homo, sussurrò trionfale, tirando su con estrema cautela il soggetto finale della procedura. Con la sua testa ormai priva di bulbi oculari (un paio di biglie di vetro sarebbero servite allo scopo) la muscolatura pienamente visibile, ma soprattutto, ogni singolo canale venoso ed arteria perfettamente messo in evidenza, grazie a una vera e propria ragnatela di colori scelti per il massimo contrasto visuale. Mentre i presenti osservano con attenzione il risultato, già un mormorio diffuso cominciò a diffondersi tra i capannelli di esperti al vertice dei rispettivi settori. Ma fu quando la prospettiva permise finalmente di scorgere il risultato ottenuto sui polmoni del cadavere, che un applauso si concretizzò spontaneamente tra gli spalti: esofago, bronchi e bronchioli, fino ai più infinitesimali capillari ed alveoli di quelle sacche d’aria, gloriosamente spalancate innanzi allo sguardo indagatore dei viventi. Qualcosa di straordinariamente ordinario come la morte, oggi, aveva finalmente dato i suoi frutti eccezionali, che sarebbero durati per lungo, lunghissimo tempo.
Che la Terra sia essenzialmente condannata a deperire, scolorendosi fino alla sua imperterrita ed inevitabile dipartita, è un concetto largamente dato per inevitabile dalla cultura della nostra epoca post-moderna. Mentre rassegnati a un simile destino, sfruttiamo fino all’ultima risorsa di cui possiamo ancora disporre, nella speranza di riuscire un giorno a sviluppare il viaggio interstellare. Il che del resto non preclude, a questa umanità così drammaticamente simile a un’infezione virale, di compiacersi di ciò che ancora riesce a possedere, tramite l’inquadratura di una telecamera lanciata a molti metri al secondo, molte migliaia di chilometri sopra la linea dell’orizzonte. Landsat 8, questo il nome dell’artista, se tale può essere davvero definito uno strumento senza nessun tipo di cervello come la scatola lanciata dalla Nasa, nel corso di un’utile missione, a unirsi alla moltitudine di oggetti in orbita terrestre asincrona, con la finalità di realizzare il più alto numero possibile di panorami utili a commemorare la già sofferente natura. E farlo questa volta, rispetto all’opera dei suoi sette predecessori (non tutti altrettanto destinati al successo) tramite l’impiego dello speciale sensore Operational Land Imager (OLI) dotato di 7.000 sensori per ciascuna banda dello spettro cromatico, anche al di là della parte osservabile dell’occhio umano. Qualcosa che permette di mettere in evidenza, volta per volta, immagini capaci di mettere in evidenza la Vera Realtà, senza passare per il filtro spesso soggettivista del cosiddetto senso comune. In casi come quello sperimentato lo scorso maggio, quando l’apparecchio venne puntato, in una serie di passaggi successivi, presso il maggiore e più importante delta dell’intera America settentrionale. Nonché uno dei più vasti, ed atipici, dell’intero pianeta…
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La lunga ricerca del più grande nido mai costruito da un uccello terrestre
Vedere per credere, toccare con mano per sperimentare la sensazione. Sedersi dentro per trasformarsi nell’approssimazione antropomorfa di un gigantesco pulcino implume, fatta eccezione per il cappello da ranger e la giacca color verde militare. La vita del ranger è piena di sorprese ed una delle più piacevoli può essere collocata di questi tempi, grazie a una foto che sta ottenendo un significativo successo su Internet, presso lo Hueston Woods State Park di Preble County, Ohio. Dove qualcosa di sovradimensionato sembrerebbe essersi posata a terra, armata di becco, rametti ed il coraggio di usarli, mettendo assieme la più sfolgorante abitazione per volatili. Ben 2,5 metri di diametro per almeno uno e mezzo di profondità, tali da permettere a chiunque ne provi il desiderio di sedersi all’interno, per ponderare la propria condizione assieme al sogno di prendere il volo che un tempo fu, per Leonardo da Vinci, una ricerca programmatica dei propri codici più interessanti. Ciò detto, pubblicare l’immagine in questione sul sito del parco naturale sembrerebbe aver sollevato, a suo tempo nel 2017, non poche critiche accese da parte di chi non si prese la briga di leggere la didascalia; dopotutto, gli americani possono tollerare molte cose. Ma NON sottrarre per studio la nursery a un uccello simbolo della nazione, la Haliaeetus leucocephalus o splendida aquila di mare testabianca, costringendola presumibilmente in una sorta di semplice attrazione per turisti. Mentre un’analisi più approfondita, o la semplice voglia di usare la logica avrebbe aperto gli occhi dei detrattori verso alcune significative incongruenze. Prima tra tutte, la presenza di una rete metallica all’interno del nido, per poter tollerare meglio il peso e l’ingombro di una figura umana. Per non parlare dei giganteschi “rami” fin troppo perfetti, apparentemente usciti dal tipico diorama museale di un’epoca preistorica ormai perduta. Quello che urge sapere per giungere ad un’interpretazione realmente corretta della faccenda, tuttavia, è il modo in cui l’intera costruzione risulti essere assolutamente in scala reale, piuttosto che ampliata per valorizzare i più minimi dettagli. Volendo rappresentare nient’altro che un una dimensione possibilmente media, per l’essere che costituisce il costruttore di nidi arboricoli più alti nell’intero corso della storia evolutiva terrestre.
Non lo pterodattilo (che lasciava i suoi piccoli a schiudersi all’interno di una buca nel terreno) e probabilmente neppure le mega-colonie del passero tessitore, sebbene talvolta l’agglomerato dei loro nidi possa raggiungere le proporzioni accidentali di una vera e propria piccola città pigolante. Laddove parrebbe esserci qualcosa di estremamente speciale nel concetto stesso di un grande uccello il quale, mantenendosi monogamo per tutta la vita, fa ritorno per 20, 30 anni nello stesso luogo, ogni volta ampliando e restaurando il suo sopraelevato grattacielo. Vi sono, tuttavia, casi estremi in cui gli stessi eredi di una coppia hanno continuato ad utilizzare l’abitazione dei propri genitori, come nella celebre osservazione del nido fotografato per la prima volta nel 1805 presso un’isola del fiume Missouri, da J.C. Cowles. E che 55 anni dopo, il capitano ed esploratore William F. Raynolds ritrovò perfettamente invariato, nello stesso identico luogo. Struttura di cui non fu mai misurata l’ampiezza, benché possiamo presumere, nonostante tutto, che avesse mancato di raggiungere anche soltanto il record ufficiale registrato nel libro d’oro dei Guinness contemporanei, tale da far impallidire lo stesso costrutto artificiale dello Hueston Woods State Park.
La distruttiva fame arboricola del porcospino nordamericano
Nella nebbia di un’alba umida e fredda, il giovane melo sorgeva stolido nel mezzo del giardino pubblico recintato sul confine esterno della città di Albuquerque. Appariva chiaro, tuttavia, la natura per lo più finale di una tale condizione tutt’altro che duratura nel tempo. La corteccia dello snello arbusto se osservato a partire dalla chioma superiore appariva infatti frastagliata a mezz’altezza, prima di cessare in maniera pressoché completa verso i due metri dal suolo. Stretti canali trasversali, in un susseguirsi di linee accuratamente intagliate, ricoprivano il legno rimasto nudo di un color marrone chiaro, ricoperto di uno stretto strato di linfa simile al sangue di una vittima innocente, già contribuendo ad attrarre gli insetti ed i microrganismi che avrebbero sancito l’ora del botanico tramonto. Piccole mezzelune legnose, scure tra le foglie autunnali, costellavano l’area circostante il povero tronco già condannato a un lento processo di disfacimento. “Ca…Castoro? A queste latitudini?” Fece il primo dei due custodi colpito dall’inconcepibile scena di vandalismo. Fu in quel momento, tuttavia, che un un lieve movimento tra le siepi tradì la silenziosa controparte. Una schiena vistosamente irsuta spuntò dondolando tra i radi cespugli del sottobosco. Preceduta da un muso tozzo e baffuto, non del tutto dissimile da quello di una comune cavia domestica nella sua gabbietta situata sul tavolo della cucina. Se non che il roditore in questione, considerati i vasti spazi della natura statunitense, doveva pesare un minimo di 15-20 Kg. La strana bestia emise un sommesso richiamo, simile al suono di un kazoo, per poi voltarsi ed avanzare lentamente di lato. Ben sapendo per l’esperienza che nessuno, proprio NESSUNO si sarebbe sognato di avvicinarsi.
Con una strategia difensiva sostanzialmente simile a quella della puzzola (chi tocca muore, non sto scherzando) uno dei più rappresentativi mammiferi degli inverni nordamericani, dagli Stati Uniti al Canada e nell’intero territorio dell’Alaska è famoso per la sua insolita abitudine di saltare completamente il letargo, potendo fare affidamento su una dieta a base vegetale piuttosto variegata se gli è concesso dal clima (frutta, bacche, radici, germogli, erba particolarmente nutriente) per quanto diviene piuttosto concentrata su un’unica pietanza quando uno spesso strato di neve comincia a ricoprire ogni possibile alternativa. A quella pietanza, in genere giudicata poco saporita, che è l’interfaccia legnosa tra la corteccia e l’interno del tronco, chiamata scientificamente lo strato del “cambio”. Ed è così che il fenomeno si ripete, fin da tempo immemore, di alberi dalla perfetta in salute che si ritrovano improvvisamente scartati come una confezione di patatine per l’intero vasto areale di questa bestia dalle abitudini notturne, senza che nessuno possa essenzialmente fare alcunché per prevenirlo. Benché l’impiego di recinzioni e trappole possa dimostrarsi variabilmente valido a seconda dei casi, non è semplicemente possibile difendere tutti gli alberi di una foresta. Ed è così che le frondose vittime verticali, una dopo l’altra, continuano a cadere sotto l’insistente masticazione dell’Erethizon dorsatum, più comunemente e graziosamente detto in lingua italiana, l’ursone…
L’impressionante linea bianca, precario cimento dei ciclisti dell’Arizona
Pedalando verso ulteriori destinazioni, il gesto ripetuto che prolunga il momento e definisce il senso finale dell’escursione; manubrio mantenuto perpendicolare al suolo, strada che scorre ai lati del campo visivo. Ed è allora che l’attrito al contatto del suolo, all’improvviso, diminuisce in maniera esponenziale. Cosa è successo? Entrambe le ruote si trovano perfettamente in linea, un po’ come se si trattasse di un binario, con la candida linea al centro del sottile nastro asfaltato. Vernice acrilica bianca, continua o tratteggiata, segnaletica orizzontale trasformata in canale privilegiato verso l’ottenimento di un sentiero dall’efficienza superiore. Ed è questo un po’ lo stesso concetto, dell’insolito strato geologico situato in prossimità della cittadina turistica di Sedona, contea di Coconino. Seguito dai suoi maggiori estimatori fino alle più estreme conseguenze. Che potrà un giorno anche includere, a seconda delle circostanze ipotetiche, la morte.
Siamo a Chicken Point (Il Punto del Pollo) una collina rocciosa di tipo butte, ragionevolmente simile a quelle che in Sardegna prendono il nome di “tacco”, non fosse per l’alta concentrazione mineralogica di ematite, il riconoscibile ossido polverizzato capace di tingere l’intera zona di un color rosso intenso simile alla ruggine del ferro. Fatta eccezione, s’intende, per l’eponima sezione del panorama indimenticabile, situata ad almeno 40 metri da terra e che partendo da una cornice relativamente accessibile gira tutto attorno al precipizio, in maniera analoga a quanto potrebbe fare un volontario segno di riconoscimento prodotto dalla mano umana. Effetto stratigrafico delle antiche maree in realtà, che un tempo caratterizzavano questi luoghi coperti da uno scomparso mare. E che oggi diventa pista d’atterraggio, o decollo che dir si voglia, per i sogni più sfrenati di un particolare tipo di amante della mountain bike. Persone come il coraggioso Michal Kollbek, che nel video di apertura ripreso via drone possiamo ammirare mentre spinge il suo veicolo velocipede fino al punto più distante prima che un simile passaggio si faccia eccessivamente scosceso. Quindi, mentre il pubblico maggiormente empatico trattiene spaventosamente il fiato, rivolge il manubrio direttamente verso le profondità del baratro, in una manovra delicata della durata di pochi istanti, che lo porta a discendere per circa 8 metri e come se niente fosse, voltarsi e tornare al punto di partenza. Nessun dubbio rimane in tali circostanze agli spettatori, che se soltanto avesse sbagliato leggermente i tempi, se un sassolino si fosse trovato in posizione inappropriata, se la pressione degli pneumatici avesse avuto un valore eccessivamente basso, se i freni non fossero stati in condizione ottimale… Questi avrebbero potuto essere gli ultimi secondi della sua esistenza. Ed è ciò il motivo per cui l’esatta posizione di Chicken Point, Google Earth permettendo, resta un segreto preferibilmente ben custodito dagli abitanti del posto. Anche se bastano poche decine di dollari per partecipare al tour geologico a bordo di riconoscibili Jeep color rosa fuchsia, occasionalmente ed accidentalmente completo di spettacolo adrenalinico gentilmente offerto dal ciclista privo di senso del pericolo o dubbi in merito alla sua preparazione tecnica pre-esistente.
Perché intendiamoci, l’effettiva manovra richiesta per fare ritorno integri dalla linea bianca non è in se particolarmente difficile, almeno dal punto di vista di praticanti ragionevolmente esperti. Con l’effettivo elemento limitante individuabile, più che altro, nella posta in gioco sottintesa da un eventuale errore. Frutto innegabile di una circostanza paesaggistica che, nel frattempo, meriterebbe almeno un breve approfondimento…