La forza del collo che alza la moto

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Accurati studi empirici, assistiti dalla disinformazione e il senso comune, hanno dimostrato come l’uomo e la donna umani usino soltanto, in media, lo 0,0000001 del loro cervello! Lo spreco. Più terribile. Di questo mondo. Tutti quei costosissimi neuroni, sparpagliati nella guaina mielinica del cranio, lasciati a galleggiare come papere di gomma in un catino. Inevitabilmente, sorge la domanda: che COSA ci stiamo perdendo? Negli antichi templi dell’Oriente misterioso, sui picchi nebbiosi dei monti della Cina, i discendenti dei monaci ancestrali hanno ricevuto in eredità l’arte suprema del Qigong, che permette di potenziare il corpo tramite lunghi periodi di meditazione. E ogni volta che uno di loro, per lottare contro il male o fare colpo sui turisti, si concentra su una mano o un piede, quello diventa duro come l’acciaio, al punto da poter spezzare con un solo colpo il tronco del macigno di metallo o addirittura il ferro dell’albero di pietra. Se il combattente invece si concentra sui muscoli dello stomaco, potrebbe facilmente usarli al posto di uno schiaccianoci per gusci di tartaruga. Se incorpora la propria volontà all’interno della schiena, in un attimo si stende sul torrente, per fare da ponte a una pesante station wagon. Ma allo stesso modo in cui un bulbo oculare può vedere praticamente ogni cosa, tranne se stesso (come sa fin troppo bene chi ha provato a mettersi le lenti a contatto) la mente non può meditare su stessa. Sarebbe una contraddizione in termini, perché ciò richiede la suprema distrazione. Quindi se esiste a questo mondo una persona in grado di infondere il suo Qi dentro la testa, egli non può essere cinese. Né giapponese. A quanto sembra, potrebbe trattarsi di un indiano.
Ipotizziamo per un attimo il significato della scena. Voi siete viaggiatori col cappello coloniale, che per fare un’esperienza un po’ diversa, nonostante ciò che suggeriva l’agenzia, avete deciso di affittarvi un veicolo a Bangalore. E quel mezzo di trasporto su due ruote, il caso vuole sia una moto. Non del tipo che si può comprare, senza alcun problema, nei negozi della nostra parte di pianeta. Ovvio: niente Kawasaki, BMW, Ducati etc: questa qui, miei cari Dr. Livingstone, è una splendida Bajaj Pulsar dalla cilindrata di 150 cc, la preferita della gioventù ruggente del Kerala. Soprannominata “La regina della strada” (in realtà era il re, ma in Italia il sesso della moto è differente) che vanta sul marketing come sua caratteristica primaria 65 chilometri per litro e una potenza di 15 cavalli/Ps. per un peso contenuto di 144 Kg. Contenutissimo, direi. Ora nel momento del ritiro, nella nostra storia il ragazzo del motonoleggio vi ha fatto presente in un suo inglese tentennante “Signore! Questa moto è molto buona. La prenda e si diverta, ma ricordi: non percorra assolutamente la strada tortuosa che si estende tra Thiruvananthapuram e Chennai. Ci sono pericoli che uno straniero non potrebbe neanche immaginarsi.” Oh. Oh my, come direbbe George Takei, ovvero Hikaru Sulu di Star Trek. Sarà meglio trovare un metodo diverso di percorrere quel tratto ESSENZIALE per il mio viaggio. “La ringrazio del consiglio, buon uomo. Che ne dice se, invece, facessi caricare la moto su un secondo mezzo di trasporto, per poi scendere tranquillamente a Chennai? “Signore! Ottima idea. Le do il biglietto da visita di mio cugino, lui potrà senz’altro aiutarla.”
Il che ci porta a questa scena principe dell’argomento: una piazzola, una piazzetta o ancor più semplicemente un slargo nella strada, presso cui, con vostra somma sorpresa, trova posto una corriera parcheggiata. Di fronte alla quale c’è il cugino di cui sopra, con la sua maglietta bianca ed un contegno che basta a identificare il suo lavoro: quest’uomo è un coolie, ovvero, fa il facchino. C’è una scala reclinata contro il bus, dall’aspetto a dir la verità molto robusto. Due persone, gli agenti designati, vi accolgono con cordialità, ritirano la mancia da 2 dollari e fanno gesti ampi per farvi capire che è il momento di scendere dalla moto. Senza esitazione, tempo di guardare: in un attimo, il veicolo si stacca dal terreno. Per trovare un nuovo alloggiamento nel più capelluto dei luoghi…E poi su, su…

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Il mezzo in grado di spostare fino a 10.000 tonnellate

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Il buon vecchio sistema usato per edificare un qualcosa, che prevede la disposizione di un mattone sopra l’altro, sopra l’altro, sopra l’altro: superato, lento, inefficace, anacronistico, obsoleto. Soggetto ad infinite problematiche complicazioni. Che succede se il luogo prescelto manca di infrastrutture? E se ci si trova in un paese con regolamenti particolarmente onerosi, oppure si è ricevuta la direttiva d’intervenire con il minimo impatto ambientale? È mai possibile trasportare fino al luogo deputato centinaia di operai specializzati? Che non parlano la lingua e quindi non interagiscono con le maestranze… Senza contare i costi vivi di una tale metodologia. In un mondo in cui  tutto deve muoversi velocemente, incluso il tempo stesso, e ci si prefigura di vedere pronto in poche settimane ciò che è stato appena concepito, persino l’architettura è diventata una questione di catena di montaggio. Mettere in posizione un ponte, una piattaforma offshore, un serbatoio, un trasformatore elettrico: tutto può essere fatto, ovunque. Ma è tanto più efficiente, sia dal punto di vista dei costi che dell’organizzazione, affidarsi all’ambiente controllato della fabbrica, ovvero gli strumenti tecnologici della metallurgia. Immaginate i componenti che prendono forma con immediatezza sostanziale, mediante la trasformazione idonea dei preziosi materiali primi. E quindi, previo l’esercizio della volontà umana, iniziano a spostarsi con estremo ordine, lungo l’autostrada e fino al distante molo d’imbarco. Poi da lì, fino ai porti di terre lontane. È come se gli oggetti grossi come una montagna avessero messo zampe invisibili, prese in prestito dal ragno Universale. O più nello specifico, molte (potenzialmente Infinite!) Paia di ruote.
Il primo punto alla base del concetto degli SPMT (Self Propelled Modular Transporter) non è tanto il Self, riferito alla loro capacità di spingere se stessi innanzi, mediante l’impiego di un certo numero di potenti motori, ma il Modular, ovvero l’innata e superiore capacità di cooperazione. Anzi è proprio questo, in definitiva, a renderli più forti di qualsiasi altro veicolo su questa Terra. Considerate, come termine di paragone, il rapporto tra un orso e le formiche: il primo sarà in grado di spostare facilmente il tronco di un albero, grazie ai suoi muscoli davvero impressionanti. Ma le seconde, a parità di peso, potrebbero smontare una foresta. Ed è proprio di questo, se vogliamo usare una similitudine, che riesce ad occuparsi la Mammoet, azienda olandese che opera, in diverse fin forme, ormai da ben due secoli disseminati di successi. Benché l’invenzione del suo mezzo simbolo, questo incredibile prodotto della moderna tecnologia, non risalga che al 1984, grazie ad una fortunata collaborazione con il gruppo Scheuerle di Pfedelbach, in Germania. Alcuni affermano, con sicurezza estrema, che veicoli appartenenti a questa singolare classe fossero in realtà esistenti da diversi anni, nell’interpretazione che aveva dato la compagnia inglese Econofreight. Questo non è facile da verificare; ciò che resta certo, tuttavia, è che gli eredi di Jan Goedkoop, l’imprenditore che aveva iniziato a trasportare carichi via mare tra la prima e la seconda Rivoluzione Industriale, furono i primi a dotare la loro piattaforma su ruote della capacità di ruotare su se stessa, e inoltre ad avere la geniale idea di farla larga esattamente 2,43 metri e lunga un massimo di 8,4, permettendogli di essere caricata all’interno di un container dai portuali. Il che gli ha permesso, nel corso delle ultime generazioni, di seguire il carico attraverso le onde dell’Oceano, per trovarsi pronta, caso per caso, a portarlo fino all’ultima destinazione.

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Giù nel varco tra le rocce, la valanga umana

Line of the Year

Ciò che sale, sale a un certo punto scende. E quando scende apriti cielo, per non ostacolare il suo passaggio. Guardalo e giustifica l’impresa. Giganti sconfinati vanno in giro per la Matanuska-Susitna e la penisola del Kenai, nel gelo dell’Alaska, e fanno pratica con il karate. O almeno, così pare a giudicare da certe particolari formazioni rocciose delle Tordrillo Mountains, dette chutes (o scivoli) del tutto simili ad un taglio netto, dato con il bordo della mano, da qualcuno che non teme il peso della pietra dura e combattiva. E se le avete viste, ammirando tali e tanti canaloni, il passo successivo è chiaro: occorre dominarli, dimostrare finalmente chi comanda. Ovverosia, la neve, che determina l’approccio dell’esploratore. Più comunemente detto, lo sciatore.
In questo video rilasciato l’altro ieri dalla Matchstick Productions con l’irrinunciabile patrocinio di Red Bull, si può ammirare cos’ha fatto Cody Townsend, nell’ottica della realizzazione del suo nuovo film, DAYS OF MY YOUTH, poi rilasciandolo, generosamente, come trailer dell’idea. È magnifico. È probabilmente, senza precedenti? Tutt’al più, ci va vicino. Esistono cose, nel profondo e bianco Nord…Veri e propri fiumi di neve, che vengono a valle, senza posa, dalla cima di quei picchi. Così nasce, per l’effetto di quell’insistenza, un tale miracolo d’erosione, un canalone degno, niente meno, che di Luke Skywalker, appena ritornato all’apogeo. Ce ne sono almeno dieci simili nei dintorni, stando al sito ufficiale dello ski resort rilevante, tra cui il più famoso viene definito con l’appellativo amichevole di Manhattan, misura oltre 300 metri di lunghezza e circa 15, d’ampiezza. Un’esperienza sciistica, quella, che se pure non adatta ai principianti, può costituire l’attimo di adrenalina per chiunque, tra noi mortali, si decida per percorrere le strade mediamente/estreme della vita. Ma di certo niente a che vedere con quest’altro buco, l’alta e oscura fessura, senza altro nome o un senso ultimo, che quello di metterti alla prova. Nella precisione o nel coraggio di rischiare per…
Uno scarico del lavandino: così sembrava, quello spazio verticale, nel momento d’apertura della scena madre, quando in un dì assolato Townsend, con la sua troupe, si apprestava ad aprire, come si dice in gergo, la “Discesa più folle dell’anno” Non che fossimo tutti lì pronti, per venirgli dietro! Perché fino a quel punto i temerari ci erano giunti, a quanto ci viene fatto capire, grazie alle pratiche pale di un elicottero, che già si alza e vola via. A quel punto, cosa fare? Se non raccomandarsi al dio del tuono, al dio Vulcano (che tanti millenni fa, questi rilievi li aveva creati) e ad altri innumerevoli volti Divini, prima di sporgersi quel tanto, appena necessario, perché la gravità facesse il resto. Dev’esser stata un’esperienza…

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