Langfoss, l’immensa massa d’acqua che si tuffa ogni giorno nel fiordo norreno

Itinerari: vie di transito tra un punto estremo ed un altro, agli estremi divergenti di uno spazio fatto di paesaggi, momenti e situazioni. Passaggi come quello di una strada, asfaltata o filosofica, percorsa da veicoli con l’interesse di portare a termine uno spostamento. Oppure archi gravitazionali disegnati dal fondamentale fluido trasparente (più o meno potabile) che definisce e calibra la progressione della vita su questa Terra… Acqua, che riesce a condensarsi tra le nubi; acqua, che si scioglie gradualmente dai ghiacciai; acqua che agogna a ritornare nel punto più basso tra gli spazi che gli spettano nell’Universo. Ed è in questo modo che può realizzarsi tale convergenza, di un incrocio imprevedibile tra simili tracciati, fino alla convergenza dei fattori e la realizzazione di un qualcosa d’unico, che mai la percezione umana aveva avuto il merito di assimilare. Vedi il golfo norvegese di Åkrafjord, con le sue propaggini tra irte montagne e il punto fragoroso, in cui un’impressionante concentrazione d’acqua dolce compie il salto irreversibile, andando a mescolar se stessa con gli abissi salmastri del vasto mare. Presso un punto che prende il nome di Langfos(sen) ovvero letteralmente nella lingua dei locali: la Lunga Cascata. Che riesce ad estendersi per 612 metri dalla cima al fragoroso punto d’impatto, sufficienti a farne il quarto salto più alto del suo paese, nonché uno dei maggiori in Europa e nel mondo. Ma se fossimo esclusivamente interessati a tale misura, nel prendere atto di una simile bellezza naturale del paesaggio, staremmo analizzando la questione da una parte minima degli spunti a nostra disposizione. Poiché il nesso al centro della questione, nel caso specifico e come facilmente desumibile da qualsivoglia foto o video in merito all’argomento, è l’eccezionale quadro estetico risultante, paragonabile all’illustrazione di un romanzo epico, o il paesaggio fantastico di un videogame. Nella maniera in cui riempie lo sguardo mentre si procede lungo la Strada Europea E134, che costeggia l’intera insenatura, scorgendo il movimento ancora prima di riuscire a sentirlo: limpido, splendente, come una valanga che non ha mai fine. La cui base giunge straordinariamente vicino allo stesso sottile nastro asfaltato, tanto da lasciar sospettare un possibile pericolo per gli autisti; finché non si nota, previo un paio di respiri e mani salde sul volante, la maniera in cui il suddetto scroscio avviene poco sotto un solido viadotto. Tanto che l’unico rischio possibile, a quanto riportano i commenti su Internet, è quello del formarsi di una nebbia fitta e impenetrabile durante i giorni in cui il clima risulta essere particolarmente inclemente. Non che ciò possa essere, in effetti, del tutto trascurato.
Ma la cosa a cui prestare maggiormente attenzione, di fronte al corso di un simile costrutto del paesaggio, è come possiamo facilmente desumere la strada stessa, mentre una quantità fin troppo rilevante di automobilisti alzano lo sguardo, o persino l’obiettivo del telefono, per testimoniare innanzi al mondo digitalizzato quel qualcosa che già in molti conoscono eccezionalmente bene. Lasciando al puro caso o la fortuna l’effettiva percorrenza di un simile tratto di strada, la cui relativa strettezza e l’andamento curvilineo bastano per presentarsi in modo tutt’altro che elementare. Problemi assai specifici, di un paese come la Norvegia dove il viaggio stesso fa parte a pieno titolo dell’esperienza, e chi non passa per l’affitto rituale di un autoveicolo, sostanzialmente, perde l’occasione di vivere un’esperienza unica e memorabile. Tra strade atlantiche, strade montane e strade… Che si sottraggono per poco ad un lavaggio senza fine. Sotto il flusso in egual parte della doccia e di un destino dalle circostanze particolarmente antiche.

Leggi tutto

Molto prima della fibra di carbonio: il singolare caso della macchina intrecciata con il vimini o rattan

Un interessante e piccolo veicolo si trova ormai da qualche tempo immobile tra le auree sale del museo dell’automobilismo di Gostyń, nell’omonimo distretto all’interno del Grande Voivodato della Polonia. Con la tipica carrozzeria a forma di sigaro delle vecchie automobili da corsa, ruote non troppo più grandi di quelle di una bicicletta e l’improbabile faro simile all’occhio singolo di Polifemo, esso rivela infatti tutto il suo reale fascino soltanto quando ci si riesce ad avvicinare a pochi metri di distanza. Poiché è allora che si riesce a comprendere la maniera in cui tale forma ragionevolmente familiare si trova realizzata, proprio come un mezzo di trasporto del cartoon dei Flintstones, con un tipo di sostanza particolarmente fuori dal contesto: la stessa che avremmo normalmente immaginato saldamente stretta tra le mani di un raccoglitore agricolo, mentre si occupa di far cadere giù le mele dagli alberi, mentre percorre in modo sistematico il suo frutteto!
Tra i più antichi approcci civilizzati alla creazione di manufatti, la realizzazione di cestini o recipienti costruiti di legno intrecciato alias “vimini” trova attestazioni fin dall’epoca dell’antico Egitto, avendo costituito attraverso i secoli la reiterata conferma dell’ingegno di chi sa come riuscire a mettere a frutto le cose naturali. Ingegnoso materiale, economico, versatile, capace di costituire un caposaldo per l’intero estendersi del mondo antico (oggetti di quel tipo furono trovati, perfettamente intatti, in mezzo alle rovine cristallizzate della città di Pompei) esso raggiunse forse il suo più inaspettato utilizzo nella creazione dei caratteristici scudi usati dall’impero Achemenide, capaci di arrestare più d’un colpo vibrato di taglio da parte delle affilate lame costruite in Occidente. Verso l’affermazione di quel tipo di solidità che sarebbe stato in grado di portarlo di nuovo al centro del palcoscenico della storia verso l’inizio del XIX secolo, quando l’Inghilterra Vittoriana diventò il più celebre importatore dei fini rametti o simili viticci, abilmente utilizzati al fine di costituire un’ampia varietà di mobili a partire dalle foglie di palma usate come zavorra delle navi di ritorno dall’Asia, tra cui sedie, letti e tavoli di considerevole pregio. Ma il paese maggiormente destinato, nell’intero secolo successivo, a trovarsi maggiormente caratterizzato da una simile corrente manifatturiera sarebbe stato proprio la Polonia, soprattutto nella regione dell’entroterra nei dintorni di Rudnik-on-San, dove grazie all’intraprendenza del conte austriaco Ferdinand Hompesch, un gruppo di persone fu inviato a Vienna attorno al 1870, con l’esplicita missione d’imparare ogni segreto possibile nell’intreccio di tali fibre, dando l’inizio a una fiorente industria capace di fornire l’impiego a circa 10.000 persone tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tanto che ancora oggi, il numero pro-capite d’industrie nazionali dedicate a questo specifico tipo di produzione risulta di gran lunga il maggiore d’Europa, ed uno dei più significativi al mondo. Ciò detto, persino in questi luoghi, soluzioni come queste sono sempre sembrate notevolmente rare; dopo tutto, chi potrebbe immaginare, in linea di principio, un materiale più inadatto alla creazione di un’automobile di tipo convenzionale? Relativamente fragile in caso d’urti, resistente alle intemperie ma soltanto entro determinati parametri e soprattutto, drammaticamente infiammabile nel caso in cui qualcosa dovesse andare per il verso sbagliato, il vimini risulta sotto numerosi punti di vista sensibilmente inferiore anche al più mondano approccio metallurgico degli albori. Fatta eccezione per un aspetto specifico: il peso. Ed il contesto prototipico che ne consegue: ogni declinazione di un qualsiasi sport motoristico in cui contino il ritmo, l’accelerazione e la guidabilità in curva. Soprattutto nel caso di vetture come questa, non molto più lunga di 2,7 metri e dotata di appena 10 cavalli di potenza, per cui ogni Kg risparmiato poteva essere immediatamente tradotto nei chilometri raggiungibili entro il termine di una singola ora. Per la prevedibile intuizione di un originale costruttore ignoto ad Internet, sebbene la didascalia fornita dal museo non mostri alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una fedele ricostruzione di una macchina effettivamente costruita ai tempi, con la probabile finalità di partecipare a una o più gare sul territorio europeo. Così come già fatto in precedenza dalla piattaforma di partenza di un simile bolide elaborato, la Hanomag 2/10 PS dell’omonimo produttore tedesco (sede presso la città di Hannover) che aveva costituito, a partire dal 1925 della sua introduzione commerciale, la prima auto nazionalpopolare del Centro Europa. Ovvero in altri termini, l’approssimazione locale dell’avveniristica Ford Model T statunitense, il cui ruolo sociale poteva essere riassunto nell’accattivante slogan commerciale “Un chilo di lamiera, un chilo di vernice. E l’Hanomag è pronta a partire…”

Leggi tutto

L’uovo francese creato per anticipare le city car elettriche di 5 decadi e una balena

Nel museo Città dell’Automobile di Mulhouse, nell’Alsazia francese, si trova esposta una vettura tanto insolita che addirittura in un salone pieno di Bugatti di gran pregio, si è più volte dimostrata in grado di catalizzare l’attenzione dei visitatori. Lunga poco più di due metri e larga uno e mezzo, appena sufficienti a contenere il sedile del conduttore più quello di un singolo passeggero, il veicolo appare costruito primariamente in due materiali: un guscio bombato di metallo nella parte posteriore, e la grande bolla di plexiglass, priva di pilastri o altri elementi in grado di ridurre la visibilità stradale, concepita come interfaccia tra i due occupanti e l’universo scorrevole della città di Parigi. Concettualmente non dissimile da una macchina contemporanea come una Renault Twizy, Citroen Ami o la recente Smart versione EQ, in forza di un motore elettrico capace di farle raggiungere agevolmente i 70 Km orari, lo strano veicolo non manca mai di stupire per la targhetta di accompagnamento che evidenzia l’anno di produzione. Ovvero il 1942, all’apice non solo dei drammatici eventi della seconda guerra mondiale, ma dell’occupazione militare della Francia stessa ad opera delle forze militari tedesche. O forse sarebbe più opportuno dire “costruita” per l’iniziativa e l’opera di un singolo brillante progettista, destinato a diventare celebre nel suo paese di appartenenza grazie ai molti contributi dati al mondo dei trasporti stradali, ferroviari ed aerei. Tuttavia non sono molti, sfortunatamente, a conoscere in Europa l’opera di Paul Jean Arzens, vissuto tra il 1903 e il 1990, autore tra le altre cose del caratteristico aspetto di molte locomotive francesi della Alsthom ed SNCF tra gli anni ’60 e ’70, riconoscibili per la caratteristica parte frontale a nez cassés (letteralmente: naso rotto) con il profilo simile a quello di una lettera “Z” o nell’idea del suo creatore formatosi alla Scuola delle Belle Arti di Parigi, un corridore pronto ai blocchi di partenza di Olimpiadi ormai lontane. Con una passione per le soluzioni estetiche d’ispirazione naturalistica, o per usare un termine maggiormente specifico “bionica” che si riflette a pieno titolo nelle sue creazioni giovanili appartenenti al mondo dell’automobilismo fuoriserie, visto come nessuna casa automobilistica fosse effettivamente destinata, nel corso della sua lunga carriera, ad approvare la produzione in serie per una delle sue intriganti soluzioni veicolari. Un solo esemplare sarebbe stato messo al mondo, quindi, dell’appropriatamente denominato Œuf (uovo) électrique, così come della sua creazione antecedente ed altrettanto notevole della Baleine del 1938 (la Balena) un’impressionante roadster a due posti, se così possiamo ancora azzardarci a definirla, della lunghezza 7 metri e il peso complessivo tutto sommato contenuto di 1099 Kg, grazie a un copioso impiego di alluminio, per cui l’autore si era ispirato direttamente e dichiaratamente al mondo allora avveniristico dell’aviazione. Un veicolo dall’aspetto tanto distintivo da essere comparsa in almeno due fumetti francesi, la Menace diabolique del 1979 e l’eterno Spirou, in un recente album pubblicato successivamente agli anni 2010, con la sua linea dal riconoscibile stile Art Déco e la griglia frontale del radiatore in grado di alludere ai fanoni del più grande animale oceanico della Terra, con all’interno nascosta la forma normalmente invisibile dei fari. Una visione certamente in grado di stupire e sconvolgere chiunque la dovesse scorgere in arrivo nei propri specchietti retrovisori, ma concettualmente del tutto all’opposto del più famoso “Uovo” nato in un contesto d’utilizzo certamente diverso, risultando perfettamente complementare a tale Batmobile d’anteguerra. Non a caso, il costruttore di entrambe, partendo dal suo celebre studio col soffitto totalmente trasparente in rue de Vaugirard, avrebbe continuato a farne un frequente uso stradale fino alla veneranda età di 87 anni…

Leggi tutto

L’elettrizzante corsa della prima macchina capace di superare i 100 Km orari

Le nubi iniziavano a addensarsi minacciose, sulla piana erbosa di Achères dove trovava posto il nuovo impianto per il trattamento delle acque reflue provenienti dal sottosuolo della vicina Parigi. Un luogo destinato a passare alla storia, in quel fatidico 29 aprile 1899, per un’ancor più notevole (e meno maleodorante) passaggio nella storia della tecnologia: la dimostrazione tanto a lungo meritata che le auto dotate di batterie, per loro implicita natura, erano superiori alle due alternative motoristiche più diffuse. Uno spalto improvvisato era stato montato dal sindaco del vicino comune omonimo, dove si affollavano i giornalisti e rappresentanti delle tre fazioni oggetto della contesa: vaporisti, petrolieri ed elettricisti. Ma soprattutto appartenenti a questa terza categoria, per il semplice fatto che i due partecipanti alla tenzone avrebbero guidato per l’appunto, durante quella semplice gara, auto incapaci di produrre alcun suono udibile in fase d’accelerazione, marcia e frenata. Il duca Gaston de Chasseloup-Laubat, con i folti baffi ed il cappello da corsa sopra l’elegante impermeabile, guardò ancora una volta in direzione del suo avversario. Il facoltoso figlio di commercianti di prodotti in gomma, proveniente dal Belgio, dalla folta barba rossa e una sfolgorante serie di successi nella registrazione di record di velocità pregressi. “Mio rivale, mio collega.” Pensò tra se e se il nobile della Charente (regione della Nuova Aquitania) che aveva iniziato con l’automobilismo facendo da autista a suo fratello, il marchese Samuel Prosper, discendente diretto del più importante geniere militare soltanto 30 anni prima al servizio dell’Imperatore Napoleone III. Così chiuse il cofano della sua famosa Jeantaud Duc, prodotta dall’omonimo e migliore fabbricante di Parigi, per scrutare ancora una volta il veicolo e l’uomo che avrebbe dovuto sfidare. Camille Jenatzy si trovava a bordo, ancora una volta, del suo strano sigaro dal numero di telaio 22 che la stampa aveva iniziato a chiamare La Jamais Contente, su suggerimento del suo stesso creatore e proprietario, forse alludendo all’aspirazione avventurosa di chi tenta di stabilire nuovi record. Forse con riferimento ai precedenti insuccessi riportati in occasioni del tutto simili a quella presente. Mancata partenza, problemi all’alimentazione, guasti di varia natura successivamente alla prima vittoria incontrastata nel 1898, in una gara in salita contro la Léon Bollée tri-car, lungo la collina del castello di Chanteloup alla vertiginosa velocità di circa 20 Km/h. “Ma quella, avrei potuto batterla facilmente anche con la mia Jeantaud” Pensò tra se e se il duca, che nel frattempo aveva superato di 9 secondi il ciclista che lui e il barbarossa belga si erano impegnati a superare, mentre l’auto della controparte cessava improvvisamente di funzionare. Battendolo di nuovo, a gennaio del 1899, con 69 Km/h contro 65 sul chilometro lanciato in territorio pianeggiante. Ed ancora 91 Km/h il 4 marzo dello stesso anno, superando di gran lunga qualsiasi altra velocità mai raggiunta da un autista veicolare fino a quel giorno. Perciò Gaston era piuttosto sicuro, ancora una volta, di poter riuscire a trionfare contro quell’uomo venuto da lontano.
Nessuno, d’altra parte, avrebbe potuto dare una grande fiducia alla Jamais Contente sulla base del suo bizzarro aspetto. La forma simmetrica per ragioni di aerodinamica, che la faceva assomigliare a una bombola per il gas. Ma la posizione del pilota sporgente vistosamente verso l’alto, come si trovasse a cavallo (naturalmente, senza nessun tipo di cintura di sicurezza) e soprattutto quelle ruote piccolissime, con pneumatici prodotte da una nuova e sconosciuta azienda che prendeva il nome di Michelin. Questo perché il suo creatore belga, nel creare la prima vettura della storia realizzata ad hoc per lo stabilimento di un nuovo record di velocità (essenzialmente, la prima “Formula 1”) aveva scelto di piazzare l’intero blocco del motore elettrico sopra il semiasse anteriore, eliminando in questo modo la perdita d’energia dovuto all’inefficienza degli antichi sistemi di trasmissione veicolare. Una scelta, assieme a molte altre fatte in quel particolare contesto, destinate a rivelarsi capaci di capovolgere le aspettative, fornendogli l’accesso ai magnifici allori della vittoria…

Leggi tutto

1 8 9 10 11 12 45