Se i vermi della fragola hai mangiato, la vespa su quel frutto non ha ronzato. L’unica speranza? È l’aceto

Considerato in certi ambienti come l’apice concettuale della decadenza gastronomica americana, il piatto di carne dal nome di turducken nasce dal bisogno di adattare sensibilità remote al gusto dell’odierno essere carnivoro per l’eccellenza: l’uomo. Così un tenero tacchino, attentamente disossato, viene usato con funzione di custodia atta a contenere le spoglie mortali di un’anatra intera, a sua volta attentamente svuotata, per nascondere al suo interno l’intero pollo delle straordinarie circostanze. Come in un banchetto principesco dell’Antica Roma, o il piatto di un ricevimento medievale, trasformati nell’odierno trionfo delle proteine vastamente superiori all’apporto massimo degli eminenti convitati. Prendete d’altra parte, come termine di paragone, il frutto rosso della fragola, falso frutto nato dall’ibridazione artificiale delle bacche forestali Fragaria, consumato generosamente in ogni civilizzazione parte del contesto globalizzato moderno. La cui dolcezza è nota quanto l’innocenza e la purezza delle parti costituenti, tale da renderla ideale per buddhisti, vegetariani, fruttariani, vegani ed ogni altro tipo di categoria incline ad escludere taluni tipi di alimenti dallo schema strategico della propria dieta. E se adesso vi dicessi che costoro sbagliano, come abbiamo sostanzialmente anche sbagliato lungamente noi stessi, nel pensare che tale dolcezza non abbia un costo fondamentale del tutto imprescindibile al momento della nostra stessa dolcissima soddisfazione nutrizionale? L’orrore trasparente che tranquillamente striscia, non visto e non visibile, ignorando totalmente il rischio di finire nella bocca di un titanico divoratore umano. Ed il secondo di questi ospiti che giunto nel momento ideale, ha messo il proprio figlio sopra ogni possibile considerazione morale. Iniettandolo, con ottima soddisfazione, dentro e sotto pelle di colui che già pensava di esser nato con la camicia, ovvero ben nascosto dallo sguardo attento dei predatori…
Il discorso è al tempo stesso l’ultimo capitolo dei nostri incubi e un semplice esempio dei processi naturali. Così come ne parla l’ottimo canale scientifico Deep Look, raccontando la tragica storia della mosca Drosophila Suzukii e l’intera categoria delle vespe parassitoidi, in questo caso rappresentata da una Ganaspis brasiliensis proveniente a dire il vero dall’altro capo del nostro pianeta. Ma perché formalizzarsi, nel dare continuità tematica ad un tale tipo di confronto biologicamente privo di quartiere… Quando la posta in gioco è molto più che il semplice successo o fallimento del processo messo in atto dalla “creatura”. Bensì l’opportuna decisione, del destino e delle circostanze collateralmente operative, in merito al diritto di noialtri di poter ancora vendere, e gioiosamente consumare ciò che abbiamo tanto faticosamente creato. Ed idealmente ci appartiene, così come l’utile terreno del frutteto, e tutto quello che risplende lietamente di un lucido color vermiglio tra i legittimi confini della sua estensione…

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L’avventura dei sei wurstel che pattugliano da 90 anni le autostrade americane

Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende, Sette ai Principi dei Nani nelle lor rocche di pietra, Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende. Che la triste morte attende, ma non la fine… Così l’Oscuro Signore di Mordor, dall’alto della propria torre, poté scrutare le manovre millenarie delle civiltà della Terra di Mezzo non soltanto grazie al potere del suo Occhio Senza Palpebre ma anche e soprattutto grazie all’assistenza di quei nove sovrani, trasformati dal potere dell’Unico Anello in servitori evanescenti, noti alla storia della Seconda e Terza Era come spettri o Nazgûl. Se d’altra parte volessimo tentare di spostare una simile vicenda all’interno del mondo moderno, nel contesto e le dinamiche del capitalismo, non sarebbe troppo complicato ritrovarne i princìpi fondamentali nelle scelte promozionali compiute attraverso quasi un secolo dalla compagnia dell’Illinois che porta il nome di Oscar Mayer, l’immigrato tedesco “amante delle salsicce” che a partire dagli anni ’30, accettando i termini di un patto, aveva trasformato l’effige del maiale cotto ed insaccato in un qualcosa di capace di spostarsi e trasportare le persone. Per portare in alto, per quanto possibile, i presupposti promozionali della propria antica compagnia, tra i più riconoscibili marchi della città di Chicago. D’altra molti grandi e conosciuti brand raccontano, nella loro storia pregressa, un momento in cui il fondatore girava per il paese o la metropoli di appartenenza come unico rappresentante commerciale, tentando di convincere i rivenditori e il pubblico dei meriti inerenti della propria proposta. Compito poi assunto dai propri sottoposti, ma non prima di essere passato temporaneamente sotto il controllo di amici e parenti. Così fu proprio durante tale fase all’inizio del 1936, che l’eponimo capo d’azienda ebbe un lungo e significativo colloquio col nipote Carl G. Mayer, il quale gli presentò entusiasticamente un nuovo metodo per fare breccia nella fantasia e fiducia delle persone: costruire un’automobile, diversa da qualsiasi altra avesse mai circolato su strada. Si trattava di un approccio, in realtà, piuttosto scaltro, consistente nell’impiego di un telaio fatto in casa dalla forma ben presto destinata a diventare iconica di un panino su ruote, sormontato dal curvaceo wurstel che costituiva il più celebre prodotto della compagnia. Incoronato, naturalmente, dalla “fascia gialla” che costituiva il suo principale segno di riconoscimento, assieme all’esortazione di cercarla assiduamente ogni qualvolta si varcava l’aurea porta del supermercato. Un veicolo funzionale ma poco sicuro, in cui l’autista si trovava situato con la testa sporgente verso l’alto, in maniera analoga a quanto avveniva nelle vetture da corsa di quegli anni lontani. D’altra parte con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, proprio quando cominciava ad essere famosa, la vettura andò incontro alla necessità di essere parcheggiata in garage per la mancanza di benzina, e secondo alcuni venne addirittura riciclata come materia prima per le armi utilizzate al fronte. Verso l’inizio degli anni ’50, tuttavia, Oscar e il nipote ricordarono il successo avuto in quella decade distante, decidendo di tentare nuovamente la sublime strada dell’autopromozione veicolare. Così contattando prima l’officina Gerstenslager di Wooster, Ohio, quindi il celebre carrozziere Brooks Stevens del Wisconsin, giunsero per gradi a quell’aspetto riconoscibile che l’ormai leggendaria Wienermobile, in certo senso, possiede tutt’ora…

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Cogliendo fili verdi in mezzo al fango, per conoscere il sapore dell’oceano coreano

Astroturf è il marchio e nome per antonomasia di un tipo di erba artificiale, riconoscibile dall’irrealistico colore verde acceso, utilizzata per la prima volta negli anni ’60 al fine di ricoprire il terreno di gioco dell’Astrodome in Houston, Texas. Troppo perfetto e resistente per assomigliare a un vero vegetale, il materiale si è trasformato con il correre degli anni in una sorta di metafora, riferita a tecniche di marketing mirante alla creazione di un consenso ad ampio spettro, capace di “coprire” le possibili impressioni negative dei propri clienti. Sulla costa occidentale della Corea del Sud esiste tuttavia un luogo, o per essere maggiormente specifici un tratto di costa, in cui l’iconica tonalità di questa superficie pare estendersi per svariati chilometri in ciascuna direzione, soprattutto all’apice dell’inverno, quando ogni altro colore svanisce dalla linea dell’orizzonte. Sto parlando della baia di Garorim, famosa per le ostriche ed il granchio azzurro marinato in salsa di soia (kkochgejang – 꽃게장) ma anche per un tipo assai notevole di “verdura” in realtà frutto dell’oceano quasi come il tonno, la sogliola, la triglia. Con l’appunto rilevante di essere, di contro, assai più raro ed in effetti proveniente da una quantità limitata di località geografiche d’Oriente. Il che sorprende, da un certo punto di vista, poiché quella che i coreani chiamano gamtae (감태) parrebbe essere una semplice forma locale di ciò che la scienza chiama Ulva prolifera, alga verde di distribuzione cosmopolita più comunemente detta la lattuga di mare, sebbene nelle tipiche riprese rilevanti manchino del tutto quelle ampie foglie che dovrebbero caratterizzarla, simili al tallio delle erbe commestibili generalmente coltivate sulla terra emersa. Forse per le caratteristiche della vasta pianura fangosa in cui cresce, oppure le condizioni climatiche accoglienti dell’estremità meridionale della penisola, che porta ad un intreccio senza fine di contorti fili erbosi, assai complicati da gestire e seccare adeguatamente, in aggiunta alla loro crescita spiccatamente stagionale e la sostanziale impossibilità di coltivarli artificialmente. Una serie di fattori sufficiente a mantenere per parecchi anni la condizione per lo più sconosciuta di un simile ingrediente, benché molto apprezzato, rimasto puro appannaggio dei soli abitanti della circostante regione di Seosan, per la semplice impossibilità collaudata di trasformarlo in una vera e propria pietanza da banco. Questo, almeno, fino all’ingresso sulla scena della compagnia Badasoop, che a partire dagli anni ’80 sotto la guida del patriarca e fondatore Cheolsoo Song ha messo in opera un più efficace e funzionale filiera produttiva, capace di trasformare la forma originale di una tale pietanza in fogli impacchettati e compatti, pronti alla spedizione nei quattro angoli del paese. Ed anche al di là di questi, per la recente riscoperta del valore gastronomico della cucina coreana, grazie al successo di rinomati ristoranti e perché no, serie televisive stranamente rilevanti, sull’onda della celebre epopea cruenta, Squid Game…

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La razza perduta del cane girarrosto, assistente dei cuochi nel Seicento

E fu così che quando il vescovo di Gloucester pronunciò per la prima volta quella PAROLA, tra il suo pubblico iniziò a serpeggiare una sorta di brivido, come lieve e inevitabile tremore. “Allora Ezechiele vide la RUOTA…” Le candele negli absidi continuavano a levarsi verso il soffitto della chiesa di Bath, apparentemente indisturbate. Ma per 36 dei presenti, rigorosamente non appartenenti alla specie umana, qualcosa era cambiato radicalmente nell’atmosfera delle circostanze. “Egli scrisse: mentre mi trovavo tra gli esuli del fiume Kebor, mi furono inviate visioni di Dio. Esseri con quattro volti, ciascuno dei quali sormontava una RUOTA. E le RUOTE stesse erano coperte di gioielli, e punteggiate da un susseguirsi d’occhi scrutatori. Non soltanto questo: erano doppie RUOTE. Una RUOTA dentro un’altra RUOTA!” Grrr… Bark, bark! Si udì da un angolo della navata. Un suono che sembrava provenire da sotto la gonna di una distinta locandiera, che come si usava fare si era portata il cane di casa al fine di mantenere al caldo i suoi piedi. Fu come una sorta di segnale: agendo all’unisono, le tre dozzine di piccoli quadrupedi dal corpo ispido si sollevarono dai piedi dei loro padroni, che iniziarono a chiamarli inorriditi; come una singola creatura, i cani cominciarono a correre in giro per la chiesa; era il pandemonio, tra guaiti, abbai e saltelli da ogni parte! Il vescovo tentò di mantenere un’espressione impassibile, per quanto ci riusciva. Dopo tutto, una cosa simile era già successa ad almeno un paio di occasioni, ed egli aveva già capito (troppo tardi) la portata del proprio errore. Questi erano i tempi, per i cani, e per i padroni…
Attorno al 1600 ed a seguire, avreste potuto scegliere una qualsiasi chiassosa ed affollata osteria o taverna, al termine di un lungo viaggio per la campagna inglese. Per sentir provenire da un’angolo del soffitto, in prossimità del camino principale, un suono sferragliante accompagnato da un lieve ansimare, di qualcuno impegnato a dare fino all’ultimo residuo della propria energia vitale per svolgere una mansione apparentemente priva di soddisfazioni, eppur così dannatamente importante: trasformare l’energia muscolare in energia meccanica, del tipo veicolato tramite una resistente catena o corda fino all’attrezzo appuntito situato a ridosso del fuoco stesso. Nel quale il cuoco aveva preventivamente inserito un grande pezzo di bovino, suino o un intero uccello vendutogli dal cacciatore locale. Poiché all’epoca i forni di cottura erano implementi costosi ed ingombranti, che difficilmente avrebbero potuto trovare collocazione all’interno di un simile luogo d’accoglienza. E l’unica maniera facilmente disponibile per cuocere le cose era il fuoco vivo, del tipo che tendeva tanto spesso a bruciare un lato del cibo, lasciando quello opposto essenzialmente intonso e quasi del tutto privo di cambiamenti. Dal che il lavoro in genere assegnato al più umile della famiglia o i lavoranti della sala comune, consistente nel girare laboriosamente il suddetto apparato, per ore ed ore, versando quantità copiose del proprio sudore. Questo almeno finché a un individuo rimasto senza nome, ma a suo modo certamente geniale, non venne in mente d’impiegare il proprio migliore amico in una maniera che oggi chiameremmo simile a quella del criceto. Affinché potesse, col continuo movimento delle sue zampette, far muovere a suo modo il Sole e l’altre Stelle…

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