Il paesaggio ultramondano di un diverso golfo della California

È una tipica sequenza cardine di ogni racconto di fantascienza che si rispetti, quella in cui l’esploratore cosmico sbarcato dalla sua astronave mette piede sul suolo alieno di un distante pianeta, poco prima di guardare verso l’alto e… Segue descrizione di un diverso cielo: spesse volte, caratterizzato dalla presenza di astri multipli, come una pluralità di lune o soli. In casi estremi impreziosito dall’inesplicabile presenza di macigni o veri e propri monti fluttuanti, come quelli del film Avatar da cui decollavano creature simili ad uccelli o draghi. E poi ogni volta, inevitabilmente, connotato da una tonalità atmosferica supremamente insolita, col che intendo una colorazione dalle tinte elettriche o pastello, tendente ad un qualsiasi punto dello spettro che sia sufficientemente diverso dall’azzurro che ci è maggiormente familiare. Un cielo viola, verde, color rosso scuro. Qualche volta, un cielo rosa? E quali gas potrebbero comporre una così insolita miscela? Metano. Lo sappiamo molto bene, in quanto ciò succede, a quanto ci è permesso di sapere oggi, almeno in un particolare luogo sulla Terra. O forse sarebbe più corretto dire, sotto la superficie degli oceani che circondano le nazioni…
Esistono essenzialmente due tipi distinti di spedizioni scientifiche: quelle che partono con una meta già conosciuta, al fine di analizzarla in maniera più approfondita e tramite l’impiego di strumenti migliori. E poi c’è il caso messo ulteriormente in pratica dalla nave RV Falkor a partire dalla fine di febbraio del 2019, vascello facente parte della dotazione dell’Istituto oceanografico californiano Schmidt, di un intero team di biologi, geologi e altre figure interdisciplinari con il fine di dirigere lo scafo verso particolari sezioni del territorio che nessuno, prima di allora, si sarebbe mai sognato di analizzare. Perché è proprio quello il caso in cui si scopre, indipendentemente dalle aspettative precedentemente acquisite, che i paesaggi descritti da Arthur C. Clarke ed Isaac Asimov non erano poi così lontani dalla verità. Soltanto, avevano sbagliato nel puntare i telescopi della loro fervida fantasia verso l’alto, piuttosto che in direzione delle occulte profondità marine. Immaginate dunque la sorpresa della Dott.sa
Mandy Joye dell’Università della Georgia, una delle figure in capo all’operazione, quando accendendo gli schermi connessi alle telecamere in alta definizione del ROV (sottomarino a controllo remoto) SuBastian presso un particolare hotspot vulcanico del Mare di Cortez, segnato sulle mappe in via meramente preliminare, vide la cabina della nave illuminarsi del colore dei fiori di ciliegio, mentre veniva a patti con una serie di sagome vagamente riconoscibili a pagode giapponesi. Ed è proprio questo il luogo, rimasto senza nome e una collocazione geografica precisa probabilmente al fine di prevenire (o almeno ritardare) l’inevitabile assalto da parte dei turisti, che compare in alcuni video di supporto pubblicati sul canale ufficiale dell’Istituto, dimostratosi nelle scorse settimane in grado di stimolare più di una descrizione poetica con tanto di metafore sui razionali blog e testate di argomento scientifico. A tal punto, quei colori e quelle forme sembravano fuoriuscire dalle usuali aspettative del caso…

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Dighe: due passi nello scarico più suggestivo d’Inghilterra

Così ci è offerta l’occasione di conoscere Patrick Dickinson, esploratore urbano ed escursionista delle isole britanniche, mentre si affaccia dall’insolita balconata, simile a quella di un castello inesistente, posta a sorvegliare una delle due voragini a gradoni sul confine estremo di un grande lago, appartenente alla categoria architettonica degli stramazzi a campana. Poco prima che, dopo aver mandato la sua videocamera a indagare tramite l’impiego di una prudente canna da pesca, si diriga all’altro capo di quel foro che si piega in diagonale 25 metri più in basso, diventando infine un tunnel a due uscite reso scivoloso dal passaggio reiterato quanto occasionale delle migliaia di tonnellate d’acqua soprastante, come ultima misura preventiva nei confronti di un’eventuale tracimazione. In questo luogo dalle proporzioni totalmente inumane, dove il suono della voce rimbalza più volte riecheggiando tra le solide pareti del bivio simile alla prua di una nave, la sua esposizione si trasforma nell’ultimo appiglio alle nostre certezze acquisite, come tanto spesso avviene in luoghi che appartengono ad un’altro tempo e stato pragmatico dell’esistenza umana.
È un luogo ricco di testimonianze, l’erbosa valle dell’Upper Derwent nel Derbyshire, situata a poca distanza da Manchester, nel centro esatto d’Inghilterra. Luoghi come il cerchio preistorico di Hordron, composto da 11 pesanti macigni trasportati fin qui da qualche antica eppure non dimenticata civiltà. O la pietra miliare a forma di T che contrassegnava l’incrocio di una strada romana, recante chiare indicazioni verso le quattro destinazioni di Edale, Glossop, Hope e Sheffield. Per non parlare delle mura derelitte della vecchia fattoria abbandonata di Elmin Pitts, risalente assai probabilmente al XVIII secolo, quasi del tutto ricoperte dal muschio e dai rampicanti del vicino sottobosco. Ma forse i reperti maggiormente memorabili, per la maniera in cui compaiono in estate pronti a ritornare nell’oblio all’arrivo delle prime piogge, sono le rovine dei due villaggi di Ashopton e Derwent, affioranti tra l’acqua di uno dei più vasti bacini idrici del paese. Ladybower è il suo appellativo, dal cognome di un’abbiente famiglia di investitori agricoli nota praticamente a tutti da queste parti al volgere del secolo scorso. Più o meno quando, secondo il Comitato Speciale per l’Approvvigionamento Idrico istituito nel 1899 con un Atto del Parlamento, venne decretato che al quantità d’acqua naturalmente presente nella regione non era più sufficiente a supportare la rapida urbanizzazione dei dintorni. Ragione per cui ebbe inizio, a spron battuto, la messa in opera di non uno bensì tre laghi addizionali, tramite l’innalzamento di argini e la costruzione di altrettante dighe di muratura. Si trattava di un sistema topograficamente in grado di ricordare vagamente la lettera Y, con i due bacini a monte di Howden e Derwent già completi entro il 1916 mentre la costruzione terzo, più logisticamente complesso anche a causa del nucleo di terra argillosa e per l’impatto maggiore sul territorio, si sarebbe protratta fino agli anni ’40 e per l’intera durata della seconda guerra mondiale. Un’epoca in cui, per ovvie ragioni, i fondi scarseggiavano e l’impresa subì un’ulteriore serie di ritardi, mentre gli altri due laghi già ultimati venivano impeigati come ausilio per l’addestramento degli equipaggi dei bombardieri coinvolti nella rocambolesca operazione Chastise, per la distruzione della vitale diga nella valle di Ruhr in Germania. Finché il 25 settembre del 1945, al cospetto di re Giorgio VI e di sua figlia Elisabetta, l’impegnativa opera pubblica non venne finalmente inaugurata, tra le prevedibili quanto condivisibili proteste di una parte della popolazione locale. Dopo tutto, non fa mai piacere ricevere una nota del governo, in cui si fa presente che nel giro di alcuni mesi, la nostra casa sarà utilizzabile soltanto da pesci, granchi e altre creature dei fondali. E nessun compenso monetario può giustificare la perdita delle proprie radici…

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Sonda distante svela il colore di un caciocavallo spaziale

Sotto il sole accecante di un dì primaverile in provincia di Pescasseroli, l’erboso passaggio dell’antico tratturo, sul percorso della transumanza, risuonava dei campanacci e i sommessi muggiti della mandria. Un pastore a rispettosa distanza, con il lungo bastone simbolo della sua professione, produce un fischio acuto all’indirizzo del suo cane di accompagnamento, che udendolo comprende l’arrivo del tradizionale momento. In cui alla mucca Carolina, esemplare da concorso di splendida e maculata frisona, verrà concesso di divergere dal tradizionale programma, per andare a brucare l’erba ribelle del promontorio in direzione opposta al borgo. “Chi jè pahure dell’acque, ne jesse ‘nu mare.” Questa era la frase, o proverbio che dir si voglia, che suo padre e il padre ancor prima usavano pronunciare in tali frangenti, ben sapendo che il miglior formaggio artigianale del mondo poteva essere prodotto soltanto da un animale che avesse sperimentato almeno occasionalmente la libertà. Per la legge della gravitazione bovina, d’altra parte, egli sapeva bene Carolina avrebbe disegnato un ampio arco dal suo punto di partenza. Per poi tornare, senza esitazioni di nessun tipo, presso la corretta destinazione del suo recinto.
Caciocavallo, una parola che implica quella forma: prima si prende uno sferoide, estratto come la lama di Excalibur dal più pregiato caglio; quindi un secondo, più piccolo. E infine si uniscono le due cose, nella creazione del caratteristico “sacchetto” che sembrerebbe una scamorza, se non fosse per il colore tendenzialmente più chiaro. Più o meno come fatto dall’ipotetico demiurgo, che 4,6 miliardi di anni fa si occupò di approntare la più distante, ed emblematica, di tutte le pietre miliari raggiunte dall’uomo. In occasione di questo appena trascorso capodanno 2018 (anzi a dire il vero, esattamente 20 minuti dopo) quando la sonda americana New Horizons come pianificato dall’ormai remoto 2014, sorpassato il familiare ex-pianeta Plutone ha raggiunto la sua “meta d’occasione” con appena un paio di cambi di rotta, passandogli a 137.000 chilometri di distanza (un’inezia in termini spaziali) per scattare una foto destinata a fare il giro del mondo. L’oggetto simile a una cometa (486958) 2014 MU69 presenta un nome simbolico, trovato grazie al più classico contest del Web: Ultima Thule era l’isola leggendaria citata più volte dal popolo dei Latini, luogo remoto talvolta identificato con l’Islanda o la Nuova Zelanda. Mentre la forma, come lasciato intendere poco sopra, risulta indubbiamente carica di sottintesi: questa roccia dalla superficie di circa 30 Km quadrati è stata chiamata pupazzo di neve, nocciolina, fagiolo o jelly bean, una caratteristica caramella zuccherosa degli Stati Uniti. Ma poiché siamo italiani, ed abbiamo buon gusto, perché non identificare in esso il profilo di quello che potrebbe anche costituire il più iconico formaggio dell’Italia meridionale? Dopo tutto, questo è un luogo che si discosta in maniera sensibile dal concetto tradizionale di un cosiddetto “cubewano” (KBO) o Kuiper Belt Object, ovvero uno di quella letterale miriade di corpi con orbite centenarie attorno al nostro Sole, anche definiti trans-neptuniani poiché più inaccessibili persino dal più distante pianeta del Sistema, in quanto formato da un ammasso principale di probabile ghiaccio ed altre sostanze simili (soprannome “Ultima”) che si è scontrato con uno più piccolo (“Thule”) senza tuttavia andare in frantumi. Bensì restando, miracolosamente, saldato ad esso, nella formazione di quanto ha graziato le nostre telecamere in alta definizione in occasione di questo memorabile cambio d’anno. Quanto meno, dal punto di vista di chi capisce e riesce ad apprezzare le implicazioni dell’esplorazione spaziale…

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Scoperta in Canada caverna degna de “Il ritorno dello Jedi”

Mentre il nostro piccolo pianeta va incontro alla lunga serie di trasformazioni note come riscaldamento globale, avvicinando l’ora in cui dovremo pagare pegno all’Universo, innumerevoli piccole mani si avvicinano alle porte che costituiscono le alternative statistiche del Fato. Chiudendone una larga parte e al tempo stesso, togliendo il chiavistello ad altri luoghi, precedentemente visibili soltanto dalla superficie. Sono strade, queste, che s’inoltrano in profondità della questione, discendendo come scale mobili infernali, al di sotto di ghiacci considerati ingiustamente eterni. Canada, un paese privo di segreti? Relativamente parlando, per un territorio tanto vasto da estendersi al di la del Circolo Polare Artico, potremmo anche rispondere con un perspicuo cenno di diniego: dopo tutto, per lunghi secoli qui hanno vissuto i popoli delle Prime Nazioni, seguiti in epoca recente dallo spirito d’intraprendenza ed il destino (presunto) manifesto dei coloni provenienti dalla distante Europa. Non stiamo, in altri termini, parlando di un deserto essenzialmente privo d’insediamenti umani. Ecco perché quando lo scorso aprile, nel momento in cui l’addetto al conteggio dei caribou (Rangifer tarandus) per conto del Ministero dello Sviluppo Rurale scorse un grande spazio vuoto al di sotto del suo elicottero d’ordinanza, in un primo momento pensò di aver interpretato male la realtà. Era semplicemente impossibile che sulla mappa personale di Bevan Ernst, per un qualche motivo difficile anche soltanto da ipotizzare, avessero dimenticato di segnare la presenza di una letterale voragine di 100 per 60 metri, capace d’incunearsi verticalmente attraverso le rocce del Wells Gally Provincial Park, in una parte assai battuta dai turisti più intraprendenti della Columbia Inglese. A meno che…
Permafrost dallo spessore di rilievo, solida testimonianza del potere che possiede il clima nel nascondere e far passare sotto silenzio il tipo più immanente di realtà. Quella del paesaggio. Almeno finché un susseguirsi d’inverni appena al di sotto della linea di conservazione, uno dopo l’altro, danneggiano il solido guscio soltanto in parte trasparente. Rivelando l’abisso imperscrutabile che trova posto poco la di sotto. Per il quale dopo tutto, qualcuno dovrà pur trovare un nome. E caso vuole che il Sig. Ernst, riportano l’episodio sul puntuale diario di bordo, fosse destinato a rivelare la propria statura come fan pluri-decennale della serie Star Wars. Scegliendo, per il nuovo abisso, l’appellativo in lingua inglese di Sarlacc’s Pit. Ora il Nord America, contrariamente allo stereotipo incline a metterlo in subordine rispetto alla meridionale Australia, è patria di numerose specie animali autoctone e piuttosto rappresentative. Eppure non vi è stato ancora individuato, per quanto ci è dato di sapere, il mostruoso ibrido tra un formicaleone ed una pianta mostrato nel terzo capitolo della serie di fantascienza più amata del mondo cinematografico, nella cui bocca venne destinato a scivolare il detestabile cacciatore di taglie Boba Fett, subendo le presumibili ed eterne conseguenze di una lunga quanto inesorabile digestione (ma questa è un’altra, assai variabile storia.) Perciò possiamo veramente biasimarlo, nel provare momentaneamente a sperare? D’altra parte, l’appellativo sarebbe stato in ogni caso, temporaneo. Trovandosi destinato a venire sostituito, come vuole la prassi, dopo una formale consultazione con i capi delle tribù ancestrali da sempre vissute in questi luoghi.
Col trascorrere dei mesi e l’avvicinarsi della fine dell’anno, tuttavia, la notizia è finalmente diventata pubblica. E il riferimento alla cultura Pop, come spesso avviene, è subito piaciuto alla stampa internazionale, che ha iniziato a ripeterlo una quantità spropositata di volte. In modo particolare nel narrare i risultati della spedizione preliminare compiuta con ragionevole successo, verso la fine del mese di settembre, presso l’imboccatura dell’abisso da un team di speleologi sotto la guida della geologa di larga fama Catherine Hickson, finalizzato a capire cosa, essenzialmente, ci fossimo trovati innanzi. E la risposta è (forse) quella che in molti avrebbero potuto aspettarsi: la potenziale caverna più profonda dell’intero territorio canadese.

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