Con ricurvi artigli sopra l’albero, si era arrampicato. Quello sguardo attento aveva concentrato. Ed il suo muso aguzzo, le orecchie a punta in mezzo a quel disegno ben riconoscibile sul volto, aveva ben posizionato. Prima di piombare, come un barracuda, per ghermire la ranocchia in mezzo alle ninfee segrete. Normalmente placido, può anche muoversi velocemente. Quando c’è bisogno di raggiungere uno scopo preciso…
La convergenza evolutiva è una tendenza insita nella natura che porta determinate caratteristiche a ricorrere attraverso specie tassonomicamente distanti, in parte perché esiste in questo mondo una corrispondenza tra “bellezza” (intesa come canone del tutto umano di riferimento) e funzione, ovvero la capacità di condurre con successo un particolare stile di vita. Ma anche a causa dell’esistenza di un numero finito di espressione dei fenotipi, per quanto combinabili tra loro, ragion per cui creature senza connessioni genetiche particolari tendono talvolta ad assomigliarsi. Da questo punto di vista, la parola Yòu huān (鼬獾) può essere letteralmente tradotta come “furetto-tasso” pur riferendosi a un animale che non è un furetto né un tasso, bensì un piccolo carnivoro con adattamenti comparabili, ma configurati alle necessità di un ambiente sostanzialmente diverso da entrambi. Il Melogale moschata, come viene scientificamente definito dal 1831, presenta dimensioni raramente superiori ai 40 cm di lunghezza, denti piccoli e un’agilità limitata, traendo nutrimento principalmente da insetti, vermi ed anfibi, nonché l’occasionale frutto caduto a terra nel suo ampio territorio di appartenenza. Che lo vede sussistere dalle foreste tropicali dell’India alla Cina meridionale, passando per Hong Kong e l’Indocina, possedendo inoltre cinque specie imparentate nel suo genere monotipico, la sotto-famiglia Helictidinae. Famosi abitatori ai margini della civiltà urbana, questi mammiferi relativamente mansueti sono tradizionalmente oggetto di una considerazione positiva, data la loro tendenza all’eliminazione dei parassiti agricoli senza arrecare danni superiori allo cavo di una singola buca dove mettere al mondo e custodire, per appena un paio di mesi, la prole. Ciò detto ed a seguito di una lunga serie di casi acclarati di rabbia trasmessi all’uomo, per non parlare della caccia al colpevole di zoonosi dei duri anni del virus Covid-19, l’intera collettività dei piccoli mammiferi sembrerebbe aver subìto un duro colpo alla reputazione nel contesto culturale del Sud dell’Asia…
specie
“Guardate!” dissi: “Zattere d’iguane a strisce, alla deriva nel Pacifico Meridionale”
La percezione non così diffusa, in senso opposto a ciò che si potrebbe prevedere, che questo particolare genere di rettili non più lunghi di un metro costituisca uno dei principali misteri biogeografici mai affrontati dall’uomo. Verdi erbivori dotati di un codice genetico non del tutto compatibile con quello delle iguane del Nuovo Mondo. Ma dimostratisi capaci, da un periodo stimato di non più di 35 milioni di anni, di prosperare in uno dei luoghi più remoti della Terra; l’arcipelago all’estremità dei luoghi emersi abitabili, che si proietta come un avamposto nel più grande e azzurro oceano terrestre. Brachylophus, dal greco “corta cresta” è l’appellativo scelto al tempo della prima classificazione nel XIX secolo, di un gruppo di creature in grado di sfidare al tempo stesso ragionevolezza ed immaginazione. Poiché per raggiungere le Fiji oltre l’Australia avrebbero dovuto attraversare dalla patria iguanide americana, circa 100 milioni dopo l’avvenuta separazione dei continenti, acque inesplorate per un tratto di 7000-9000 miglia. Come? Proprio questa è la domanda.
Osservando d’altra parte una di queste creature, appartenenti a quattro specie distinte attualmente riconosciute, lo scienziato nota talune caratteristiche idealmente idonee a compiere l’impresa: un metabolismo lento, la capacità di trarre idratazione dal cibo, la presenza di ghiandole adatte a filtrare il sale dall’acqua all’interno delle strette narici. Il che rende l’ipotesi di un attraversamento a bordo di grovigli di vegetazione, possibilmente spinti a largo da un qualche tipo di catastrofica inondazione, plausibile sebbene non ancora probabile. Come anche affermato in uno studio del 2009 di Brice P. Nolan e colleghi, mirato ad affermare l’ipotesi alternativa che la presenza dei lucertoloni sulle isole abbia seguìto semplicemente la prima colonizzazione umana. E che la datazione pregressa di tale presenza tassonomica sia stata lungamente sopravvalutata dagli scienziati. Il che non entra, se vogliamo, nell’effettivo nocciolo della questione; per il modo in cui le iguane delle Fiji risultano come la conseguenza di un processo evolutivo ben preciso. Che le ha viste, almeno fino all’introduzione in epoca recente di capre, gatti e topi dalle navi del colonialismo moderno, come assolute dominatrici mansuete del proprio ambiente. Perfettamente erbivore in natura, capaci di arrampicarsi sugli alberi e mimetizzarsi tra le fronde, senza nemici naturali degni nota mentre abitano le alture aride dell’entroterra. Dove le diverse specie, paradossalmente, trovarono attraverso il trascorrere di lunghi millenni l’opportunità di differenziarsi. Per sfuggire all’approfondimento della scienza in misura e con capacità tale, che ancora nel 1980, all’uscita nelle sale del film Laguna Blu, taluni membri della produzione restarono colpiti dall’avvistamento di un’iguana svelta tra l’erba. La cui natura, successivamente, sarebbe stata associata all’appellativo B. vitiensis, di una varietà formalmente sconosciuta al mondo accademico fino a quel fatidico momento…
Così trilla il chiurlo dagli occhiali, minuto dinosauro della dannazione
Secondo una storia degli Aborigeni Australiani che può essere paragonata al mito cristiano di Adamo ed Eva, nell’antica epoca del sogno una sola donna cieca era nata dal fango primordiale del regno della Creazione. Il suo nome era Mudungkala ed ella ebbe un solo figlio, il cui nome era Purrukapali. Successivamente alla nascita spontanea degli altri esseri umani, costui scelse una moglie di nome Bima, ed i due ebbero a loro volta una creatura di nome Jinani. Ma nell’accampamento era presente un giovane senza moglie, Japara, che seducendo la consorte di Purrukapali era solito persuaderla ad appartarsi assieme a lui nella foresta. In un tragico giorno, mentre i due compivano l’ennesimo adulterio, il piccolo Jinani era stato abbandonato per alcune ore, e sotto i raggi crudeli del sole australe, morì. Non appena il padre Purrukapali lo venne a sapere, si adirò in modo terribile, e prendendo in braccio il bambino, giurò che si sarebbe tolto la vita gettandosi in mare, condannando al tempo stesso l’intera umanità. Così dove s’immerse per il suo viaggio di non ritorno, tre gorghi terribili presero forma a largo dell’odierna isola di Melville, tanto potenti da poter inghiottire l’intero continente. Ma Japara, nel tentativo di placare l’ira di Purrukapali, usò la sua magia per trasformarsi nella Luna, e dalla volta celeste intraprese una battaglia contro il suo rivale che continua tutt’ora. Per questo la Luna è ricoperta di cicatrici, ed ogni mese “muore” per tre giorni, causando il sempiterno fenomeno delle maree. Ma per la madre sconsolata Bima, sconvolta dal senso di colpa, rimaneva un unico destino: vagando senza posa nella notte, ella vide crescere sul proprio corpo un manto di piume. Ed il suo lamento diventò un suono ritmico e ripetitivo, che gli abitanti delle isole avrebbero associato in seguito al volatile dal nome onomatopeico di Weeloo, o Willaroo. Temendolo come la morte stessa perché invero, tale annuncio naturale altro non è che un messaggio dell’ora della fine, latore di condanna al pari del verso della civetta nei contesti boreali, collegato a storie folkloristiche di mille streghe o esseri mannari mangiatori di carne umana.
Molti anni dopo, quando gli Europei fondarono la propria colonia penale di Botany Bay, i numerosi naturalisti che avevano accompagnato le prime spedizioni nell’entroterra scelsero un’associazione decisamente meno preoccupante per gli esponenti locali di questa genìa volatile, parte della grande famiglia cosmopolita dei Burhinidae: ribattezzandolo così stone curlews o “chiurlo della pietra” benché fossero decisamente pochi i punti di contatto con l’uccello trampoliere degli scolopacidi, vista comune mentre pesca su talune spiagge del Vecchio Mondo. Laddove questi pennuti d’Australia, anche detti occhioni per la grandezza ed efficienza dei propri organi oculari, sono cacciatori per lo più notturni d’insetti e piccoli vertebrati come roditori, anfibi o rettili, benché non disdegnino l’occasionale cattura di un granchio ghermito sotto le acque limpide, che quindi procedono a sbattere ripetutamente sul suolo ghiaioso, nel tentativo di porre rapidamente fine alle sue sofferenze. Del tutto inconsapevoli del preistorico bagaglio che accompagna, come un terribile presentimento, l’occasionale suono ripetuto della loro “mistica” presenza…
Malkoha: il sommesso verso e la sgargiante maschera del cuculo gentile
Camminare dall’albergo fino a quel particolare tratto di foresta, giorno dopo giorno, con la pioggia o con il sole, con il chiasso o col silenzio. La natura può essere stancante: soprattutto quando si possiede l’obiettivo di riuscire a catturare quel particolare scatto fotografico. Di creature più elusive di un fantasma o di una ninfa dei boschi! Dalla Malesia al Borneo, dal Sulawesi allo Sri Lanka, e fino alle Filippine, una cosa soprattutto accomuna i variegati generi del gruppo informale dei malkoha, cuculiformi che quasi ricordano, per colori e fogge del piumaggio, l’estetica magnifica dei pappagalli. E tale cosa è la difficoltà che condiziona i loro avvistamenti; di uccelli schivi, agili, relativamente silenziosi quando non capaci d’imitare il verso di altri pennuti. E che tanto spesso, visti dal basso, non rivelano lo sprazzo di colori che caratterizza le loro sembianze. Ma una volta che si riesce a individuarli, diventano dei portatori di buone notizie. In quanto indicatori di uno stato di salubrità biologica del proprio ambiente, al pari dei più grandi e delicati mammiferi delle aree tropicali del mondo. A partire dalla varietà più conosciuta, benché poco studiata scientificamente, del Phaenicophaeus pyrrhocephalus lungo 45 cm che fornisce il nome comune anche ai propri cugini, il cui significato in lingua cingalese risulta essere “cuculo-fiore”. Dall’aspetto altamente caratteristico del piumaggio della testa, dotata di una maschera rosso vermiglio attorno agli occhi ed un collare di penne puntinate, bianche e nere alla maniera del contrasto dominante tra il petto e le sue ali. Con ben pochi propositi di mimetizzazione, quasi la natura avesse reputato secondario il tentativo di difenderlo dai predatori. Che possono includere rapaci, serpenti e l’occasionale dhole, cane o gatto nel caso delle specie che foraggiano a terra. In qualità di creature onnivore, primariamente in grado di nutrirsi di bacche, semi e germogli ma anche insetti e qualche lucertola, catturate tramite l’impiego degli affilati artigli. Utilizzati anche, in almeno un paio di casi attestati, al fine di difendere il territorio da possibili rivali. Il che risulta ad ogni modo piuttosto raro, trovandoci di fronte a una tipologia di uccelli piuttosto pacifici, e soprattutto inclini a costruirsi da soli il nido. Proprio così: nonostante la qualifica, i principali cuculi dell’Asia meridionale non praticano il parassitismo dei nidi. Non depongono le proprie uova accanto a quelle di madri inconsapevoli. E non si aspettano che i propri piccoli gettino fuori altre piccole vite dal nido, potendo fare affidamento sull’ingenuità dell’innato istinto materno degli animali…