Per alti scranni, nobili sovrani. Entità insignite del dovere di rappresentare o custodire le caratteristiche fondamentali di un ambiente, un’ecologica inerente configurazione delle cose. Luogo e luoghi, mondi, singoli pianeti dove vige la fondamentale regola della natura, in base a cui nulla scompare ma ogni cosa si trasforma, evolvendosi per far ritorno allo stato mineralizzato da cui era aveva preso vita alle origini della sua storia. Ben sapendo come ogni altro camelide dell’area tra Argentina e Cile, Bolivia, Ecuador, Perù, grazie allo strumento dell’istinto, il rito che avrebbe avuto luogo alla sua morte. Quale psicopompo si sarebbe presentato, per aprire il suo cadavere e iniziare a divorarlo. Verso l’inizio di un mistico viaggio, spesso terminante all’interno di specifici e particolari recessi montani! Il primo a notarlo, tra gli umani cultori della scienza, è stato Matthew Duda della Queen’s University di Kingston, Canada, in trasferta presso la catena sudamericana per trovare nuovi spunti d’approfondimento nell’antica storia del Vultur gryphus, creatura più comunemente nota e celebrata come (il magnifico) condor andino. 3,3 metri di apertura alare e fino a 15 Kg di peso distribuiti nella sua elegante forma e bianca e nera, con dati sufficienti a farne il più imponente uccello volante della Terra, caratterizzato dall’abitudine di defecarsi addosso (uroidrosi) o in alternativa, sempre nei dintorni del proprio nido. Così come avvenuto, per un periodo di oltre due millenni, nella grotta del parco nazionale di Nahuel Huapi dove costui, assieme ad insigni colleghi, avrebbe riscontrato l’esistenza di un tesoro più prezioso di qualsiasi reliquia dei toltechi: un’intera, ponderosa, maleodorante montagna di guano. Defecata dalle incalcolabili generazioni di codesti uccelli, che si sono susseguite sotto il sole di un simile emisfero, raccogliendo alternativamente il plauso o l’antipatia delle vicine comunità civilizzate. Stratificando in modo totalmente incidentale, un secolo dopo l’altro, l’intera cronistoria pregressa delle proprie alterne tribolazioni. Come un libro utile a capire quando la popolazione ha prosperato e quando, invece, si è ridotta come nel lungo periodo tra 1650 e 650 anni fa, dal momento in cui una lunga serie d’eruzioni saturò l’aria di cenere, rendendo eccessivamente difficoltoso il volo. Per non parlare delle variazioni nella loro dieta e i minerali che ne entrarono a far parte, permettendo di comprendere le condizioni ambientali di ciascun periodo e tutto ciò che queste comportavano per lo stile di vita di questi uccelli. Le cui caratteristiche fondamentali, e doti tutt’altro che trascurabili, seppero dimostrarsi cionondimeno continuative nel tempo…
L’inventore di epoca vittoriana che avrebbe potuto mettere i piedi ai carri armati
La concezione una guerra infinita e che non sapeva immaginare alcun tipo di risoluzione, finché la tecnologia, a suo modo, non fornì una via possibile per giungere al risultato finale. Al problema mai considerato prima in quell’epoca di trincee perfettamente difendibili mediante l’uso di fucili semi-automatici, mitragliatrici e artiglieria. Sarebbe naturale credere che l’argomento sia la grande guerra, mentre in effetti siamo a una decade e mezza prima, durante il conflitto combattuto in Sudafrica tra le forze britanniche e discendenti olandesi delle originali colonie del Capo di Buona Speranza, che avevano nel frattempo scelto di riconoscersi nel nome collettivo di Boeri. Scatenando il tipo di conflitto coloniale destinato, tra le altre cose, ad ispirare diverse notevoli menti creative. Una di queste: H.G. Wells, considerato con buone ragioni il padre della fantascienza nonché autore, in quel fatidico anno 1903, del racconto intitolato The Land Ironclads o “Le corazzate terrestri”, la narrazione fittizia di qualcosa che doveva ancora rendersi concreto, ma di cui già in molti sospettavano l’incombenza. Descritta da un giovane corrispondente in territorio bellico, la narrazione riassume l’andamento pregresso di una serie di scontri inconcludenti tra due fazioni, l’una pragmatica, disciplinata, orgogliosa; l’altra impetuosa ed abile nell’uso delle armi, ma priva di alcun margine di superiorità tecnologica. Così il paese del narratore, liberamente ispirato alla cultura inglese, viene mostrato al lettore concepire un metodo per superare l’impasse di quella che avrebbe iniziato ad essere chiamata, un decennio e mezzo dopo, come l’invalicabile terra di nessuno. Dei veicoli corazzati, lunghi e stretti, dotati di cannoni orientabili e gestite da un equipaggio di decine di soldati, con un singolo comandante situate nella torretta centrale. Come delle navi, essenzialmente, ma dotate di “otto paia di ruote pedrail” capaci di varcare qualsivoglia ostacolo, incluse le fortificazioni scavate dal nemico nella terra friabile della linea del fronte. Una manciata dei quali sarebbe semplicemente bastata ai britannici della situazione per vincere il conflitto, a discapito di un avversario che non aveva mai tentato di replicare gli Ironclads, contrapponendogli piuttosto strategie sempre più sofisticate ma, in ultima analisi, inconcludenti. Molti di coloro che tentarono d’illustrare questa storia, già all’epoca, avevano interpretato il meccanismo rilevante come una sorta d’antesignano dei cingoli, con cui d’altra parte erano già stati compiuti diversi esperimenti preliminari in campo agricolo, che avrebbero portato soltanto due anni dopo alla fabbricazione del trattore Caterpillar del californiano Benjamin Holt. Mentre la realtà è che Wells si era dichiaratamente ispirato, come avrebbe in seguito ribadito anche nella prefazione della seconda edizione de “La macchina del tempo” all’invenzione specifica di un suo connazionale britannico, l’intraprendente ed eclettico Bramah Joseph Diplock (1857-1918). Priva di educazione formale nel campo dell’ingegneria ma detentore a quel punto della sua carriera di già oltre 200 brevetti, tra cui quello che aveva portato, nel 1899, alla costruzione del primo veicolo fuoristrada della storia. Il cui nome era per l’appunto, quello di locomotiva a vapore Pedrail da pes/pedes (latino) il termine comunemente riferito all’estremità inferiore degli arti deambulatori umani. Ma che in questo caso intendeva evocare l’immagine, decisamente più utile allo scopo, di un ponderoso elefante…
Studio svela come la puntura di una formica può minare il sistema nervoso umano
Un dolore assoluto, che ottenebra la mente e paralizza i movimenti. La sofferenza totale che permette, per lo meno nell’idea del popolo che continua a praticare un tale rituale, di affrontare in seguito qualsiasi prova fisica ignorando la sofferenza. E c’è qualcosa di fondamentalmente primitivo, persino barbarico, nel rito di passaggio degli indigeni Sateré-Mawé della giungla brasiliana, secondo cui l’arrivo presso l’età adulta necessita di esser celebrato tramite puntura indotta e reiterata ad opera del più atroce degli insetti mai classificati dalla scienza umana. Quella stessa Paraponera clavata o formica proiettile di oltre 2 cm di lunghezza, il cui morso è stato alternativamente paragonato a un colpo d’arma fuoco o nelle parole dell’esauriente Justin O. Schmidt, entomologo dal comprovato grado di masochismo, “Camminare sui carboni ardenti con un chiodo arrugginito conficcato in un piede”. Tutto questo benché resti fondamentale specificare come prendere decine di questi animali e intrappolarli nella versione fatta in casa di un guanto da forno, per poi renderle nervose con il fumo ed infilarci dentro le mani del soggetto designato per qualche eterna decina di minuti, più volte nel corso di settimane o mesi, non costituisca un effettivo pericolo per la vita di quest’ultimo, né abbia altre conseguenze in genere che tremori, nausea, capogiri, paralisi temporanea e qualche trascurabile convulsione. Questo perché contrariamente al veleno utilizzato da taluni serpenti, razze marine, vespe o calabroni, la piccola mistura di sostanze inoculate dagli imenotteri in questione non ha effetti deleteri alla sopravvivenza di un organismo, pur restando responsabile di una percezione del dolore che pare superare i limiti dell’immaginazione corrente. Questo principalmente grazie alla presenza, già nota verso la fine degli ’90 del peptide neurotossico della poneratossina, una sostanza capace di saturare i canali del sodio nelle fibre nocicettorie, inviando in buona sostanza un segnale intenso e ininterrotto fino alle zone rilevanti del cervello stesso. Ora d’altra parte un simile spunto di approfondimento, nonostante la sua rilevanza per lo studio del dolore ed eventuali metodologie utili a moderarlo, è stato successivamente accantonato dalla scienza per l’oggettiva difficoltà nel prelevare quantità sufficienti di veleno da una creatura piccola come un formica, per quanto appartenente alle genìe ipertrofiche del territorio sudamericano. Almeno fino all’articolo recentemente pubblicato nel numero di maggio della rivista scientifica Nature Communications, in cui Samuel D. Robinson dell’università del Queensland e colleghi affrontano per la prima volta in modo sistematico la questione. Ritrovando tracce di tossine simili anche all’interno di altri rappresentanti della famiglia Formicidae, tra cui le più piccole ma non meno aggressive Tetramorium africanum e le affascinanti formiche dalla testa verde o Rhytidoponera metallica endemiche del continente d’Oceania, capaci d’indurre uno stato di sofferenza forse meno intenso ma persistente almeno quanto quello della tristemente celebre Paraponera. Un viaggio di scoperta che potrebbe essere, in effetti, ancora agli albori…
Piccolo catalogo dei modi per tornare sui binari dopo che la giusta via era smarrita
Un colpo, un salto, un grido dei presenti. Martellate di rettifica, colpi che pretendono di dare forme alternative al metallo. Traversine infrante ed il pietrisco fatto scorrere, come palline in una sala del pachinko dopo il giorno di stipendio. Cosa c’è di giallo e triangolare sotto quell’ammasso che monopolizza i loro compiti assegnati dall’esperienza? Che stanno facendo, esattamente, i circa dieci uomini vestiti come ferrovieri dai trascorsi eminenti? Una definizione che riesce a profilarsi con chiarezza nel momento in cui si guarda il grande boa di ferro e vetro e ruote e fischi di segnalazione. La creatura che nei fatti corre, ma non striscia. Ma che adesso giace, in apparenza ferma per i saecula saeculorum. Finché qualcuno non riesce in tale arduo posizionamento. La misura e la ragione della salvezza…
Non veloce come un aereo, non capiente come una nave, non versatile come un autoveicolo. Eppure sotto multipli punti di vista, il mezzo di trasporto definitivo: affidabile, pratico, funzionale. L’applicazione maggiormente responsabile di aver esteso, oltre ogni più rosea previsione, i vantaggi offerti dall’invenzione della macchina a vapore. Grazie alla caldaia collocata come parte imprescindibile della sua precipua locomotiva. Il Treno che risolve, il Treno che riesce dove ogni altro fallisce, che se trova ostacoli sul suo cammino, può tentare nondimeno di portare a compimento l’importante tragitto. Tranne che in un caso, irrisolvibile! Poiché è natura stessa di colui o colei che ha fatto dei binari la sua intera esistenza, non poter lasciare questi ultimi, senza costose nonché problematiche conseguenze. Le cui derivazioni, ahimè, al giorno d’oggi conosciamo molto bene. In tragici incidenti ed anche devastanti danni ambientali, qualora il carico fosse costituito da sostanze chimiche versate nel sostrato come il contenuto di una longilinea petroliera. E di cause ce ne possono essere diverse, tra cui l’errore umano nel persistere di un metodo di guida imprudente; oppure l’attraversamento di animali, o autisti umani che cionondimeno mancano di leggere i segnali, non capendo i passaggi a livello; o ancora la presenza d’ostruzioni sui binari, tra cui il treno stesso oggetto di un recente deragliamento, dimostratosi incapace o inascoltato nel segnalare l’occorrenza per tempo. Così che al suono del temuto allarme, tutto ciò che i soccorsi possono affrettarsi a fare è correre sul luogo del disastro, per tentare di rimettere i vagoni in condizione di spostarsi nel più breve tempo possibile. Ma voi forse non sapete che nei fatti, un treno può rimettere se stesso sui binari. Se la situazione non è troppo grave e ci troviamo nel giusto paese al mondo, ovvero uno di quelli in cui le norme e regolamenti permettono di usare QUELLA cosa…