Chi ha messo il più grazioso dei canguri sopra i rami della Papua Nuova Guinea?

Attorno all’epoca del tardo Oligocene, all’incirca intorno a 20 milioni di anni fa, un’imponente creatura si aggirava tra gli alberi del continente d’Oceania. Già da tempo distaccatosi dalla massa principale della Pangea, ma cionondimeno compatto, ed occupato da una catena alimentare fortemente competitiva, nella quotidiana sfida per la sopravvivenza animale. Qui, l’imponente Nimbadon del peso di 70 Kg, paragonabile alla massa ed al comportamento dell’orso malese, sapeva difendersi dalla maggior parte dei predatori, utilizzando i propri denti e grossi artigli ricurvi, ugualmente utili a far presa sulla corteccia degli alberi primordiali, quanto micidiali nei confronti di chiunque intendesse invadere il suo territorio elettivo, particolarmente se attaccato dall’alto in un balzo spietato dal punto di vantaggio della scaltra creatura. Fino a creare una sorta di parallelismo ideale, con l’invenzione folkloristica del leggendario dropbear, una sorta di koala carnivoro paladino della causa naturale ed occasionalmente incline a far pagare agli uomini le loro gesta ecologiche più scellerate. Almeno finché l’usuale normalizzazione dei fenotipi biologici, verso forme più moderne e conseguentemente meno eccezionali, avrebbe portato l’antico diprodontide effettivamente esistito verso l’attuale biforcazione tripartita di vombati, canguri e macropodiformi. Null’altro che i canguri, questi ultimi, erbivori delle pianure adattati a muoversi con agili balzi, esclusivamente all’ombra di quegli stessi alberi che un tempo avevano costituito le loro case. Eppur contrariamente a quello che siamo stati abituati a pensare, il movimento dei processi evolutivi non è una semplice linea continuativa, dal punto alfa fino all’omega della condizione attuale, bensì un fiume imprevedibile che devia, si avvolge, torna qualche volta addirittura sui propri passi. Come nel caso del qui presente genere Dendrolagus, l’unico dei macropodidi ad aver ritrovato, in epoche relativamente più recenti, l’abitudine e propensione a sorvegliare la foresta da una posizione sopraelevata.
Creatura vagamente simile ad un wallaby, da cui potrebbe aver ereditato parte del suo patrimonio genetico nel corso dei molti millenni, il canguro degli alberi si trova oggi suddiviso in 14 specie differenti, la stragrande maggioranza delle quali condizionata da un significativo rischio d’estinzione. Questo per la specificità territoriale di ciascuna di esse, spesso limitate a singoli gruppi montuosi o foreste della singola isola della Papua Nuova Guinea. Con la sola esclusione del D.lumholtzi e D. bennettianus, attestati nella parte settentrionale del Queensland, nell’Australia settentrionale. Volendo tuttavia prendere in esame come specie tipo il canguro degli alberi orsino (D. ursinus) nella maniera ipotizzata a suo tempo dal naturalista del XIX secolo Coenraad J. Temminck, non è difficile comprendere perché i suoi colleghi del mondo accademico coévo si trovarono poco inclini a credere alla descrizione, temporaneamente sospettata essere uno scherzo dal basso livello di etica professionale. Un… Marsupiale dell’altezza di fino ad 82 cm ed il peso di 8 Kg, dotato della coda lunga tipica del suo gruppo biologico, ma piccole orecchie triangolari capaci di renderlo più simile a una sorta di orsetto. Il pelo lungo e folto, spiraleggiante in corrispondenza delle spalle, con arti corti ed ideali allo scopo di arrampicarsi…

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Il vecchio sport statunitense del tuffo equestre dal trampolino sopraelevato

Una mano sulla tesa del cappello, l’altra sollevata per accarezzarsi i baffi a punta: “Non sbattete le ciglia, signori e signore, osservate attentamente quello che sta per succedere di fronte ai vostri increduli occhi. La coraggiosa ragazza che è appena salita in cima a quella rampa e relativa piattaforma, 15 metri sopra la piscina, si sta ora concentrando per riuscire a dimostrare la sua ineccepibile capacità d’atleta. E non soltanto questo: nel momento in cui l’amico cavallo, percorrendo a gran velocità gli stessi scalini, le passerà al di sotto verso il baratro antistante, ella balzerà sulla sfuggente sella, per seguirlo nell’abisso antistante. Quale sprezzo del pericolo! Quanta precisione e abilità nei movimenti! Un singolo attimo di distrazione ed entrambi potrebbero pagarne le conseguenze… Ma non preoccupatevi, IO vi assicuro che col vostro aiuto, potranno riuscirci. Fate un applauso al dinamico duo, signori e signore!” Gli occhi semi-chiusi come quando si apprestava a fare centro sui bersagli utilizzati nella prima parte dello show, l’uomo si voltò a quel punto via dal pubblico. Per osservare attentamente le operazioni.
Una delle figure più influenti nell’intrattenimento americano all’inizio del Novecento sarebbe stata quella dell’eroe di frontiera ritornato alla civiltà, esperto narratore di quel tipo di peripezie, avventure e tribolazioni che avevano permesso all’uomo caucasico, nell’idea tipicamente associata all’era precedente, di rendere il proprio destino “manifesto”. Riuscendo a scavalcare ostacoli, creature selvagge o intere popolazioni dei nativi tra le valli fluviali e le vaste pianure del Nuovo Mondo, fino alla costituzione in essere di ciò che sarebbe infine diventato il Far West. Ma per quanto fosse possibile continuare a salire, verso l’antonomasia di alcuni dei peggiori trionfi della civiltà europea, pare che talvolta fosse necessario fare un balzo di ritorno verso i luoghi meno elevati delle circostanze, così come fatto in un particolare aneddoto da William Frank “Doc” Carver, l’ex-esploratore, ex-cacciatore di bisonti, ex-pistolero, ex-dentista (o qualcosa di simile) che raccontava di esser nato attorno al 1840, poco prima che gli indiani d’America attaccassero la sua famiglia per poi tirarlo su autonomamente, insegnandogli tutto quello che sapevano in merito ai cavalli e una miriade di altri simili argomenti. Conoscenza destinata a ritornargli utile, così amava ripetere, quando nel 1881 l’alto ponte sopra il Platte River, in Nebraska, crollò sotto il peso congiunto della sua cavalcatura mentre stava fuggendo da alcuni banditi. Dimostrando la capacità di mettersi con gli zoccoli in avanti, la testa in posizione idrodinamica, la coda eretta per direzionare e fendere il vento. Fino all’impatto sorprendentemente dolce dentro l’acqua sottostante, per poi giungere fino alla riva e condurlo verso l’auspicata salvezza finale. Questa, almeno, è la storia ufficiale, di come avrebbe acquisito l’idea destinato a renderlo straordinariamente ricco e famoso. Che potrebbe anche essere vera, benché tenda a conformarsi nelle tipiche narrazioni di quella notevole categoria di showmen, incluso il celeberrimo Buffalo Bill con cui aveva anche lavorato, prima di decidere qualche anno dopo di mettersi in proprio. Occasione a seguito della quale, in alcune versioni della vicenda, i due sarebbero diventati acerrimi rivali per il resto delle rispettive carriere…

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L’azione rotante che capovolge il modo di progettare un ponte

L’uomo gira freneticamente l’ingombrante manovella in senso orario, nell’evidente attesa che possa verificarsi l’Evento. E non c’è neanche il tempo di provare a interrogarsi sulla probabile natura di quest’ultimo, prima che i nostri occhi vadano a posarsi sull’imponente scheletro di un parallelepipedo da 13 tonnellate posizionato almeno in apparenza in equilibrio sul fiume Lea, instradato sul passaggio di specifiche rotaie ondulatorie. Per l’oggetto che un poco alla volta, con un suono simile a quello di una pendola del nonno, si appresta a ricevere il fondamentale dono dell’obliquità. Benché a quel punto non si fermi, per marciare con fermezza fino al mezzo giro dei 180 gradi. Facendo conseguentemente risalire, prima da una parte e infine sulla sommità distante, il battistrada che poteva conseguire dall’unico lato chiuso dell’insolito costrutto di metallo e legno di quercia. Un vero e proprio ponte inglese, sotto qualsivoglia specchio dell’analisi s’intenda scrutarlo.
Verso la fine del XIX secolo la maggiore isola del Regno aveva organizzato i suoi trasporti sulla base di due metodologie ben collaudate. Le persone che viaggiavano, nella maggior parte dei casi, in carrozza lungo strade mantenute in buone condizioni dallo Stato, mentre le merci e i carichi pesanti, sulla base di un’usanza mutuata dal continente, tendevano a imboccare la via dei canali e corsi d’acqua fluviali, a bordo di chiatte lunghe trainate il più delle volte mediante l’utilizzo di affidabili motrici altrettanto inclini all’occasionale nitrito. Ciò che tendeva a capitare tuttavia, come avviene ancora con gli attuali mezzi di spostamento, è che i due tipi potessero trovarsi, in attimi diversi, ad affrontare una geometrica criticità condivisa: l’incrocio liminale tra la parte solida e quella liquida del territorio esistente. Entrambi temporaneamente inclini ad aspettar dando la precedenza, eppur coscienti della problematica inerentemente limitante: che se qualcosa non fosse cambiato nell’assemblaggio del punto di transito condiviso, tale tempo si sarebbe esteso fino all’eternità… Da qui l’idea, tipicamente apprezzata dagli ingegneri di epoca vittoriana, di far muovere il ponte. Ed è la storia di questo particolare approccio tecnologico in Gran Bretagna a costituire, per chi ha voglia d’approfondirlo, un formidabile catalogo di approcci alternativi, capaci di ruotare, sollevarsi, essere spostati o messi da parte. Con motori, motrici, carrelli o ruote di criceto umane. Ragion per cui colpisce in una misura ancor maggiore, il fatto che l’ultima opera firmata dall’architetto Thomas Randall-Page, in questo caso coadiuvato da un nutrito gruppo di consulenti e progettisti, rappresenti l’ambiziosa esplorazione di un potenziale approccio del tutto alternativo. Qualcosa che nessuno in altre circostanze, avrebbe mai potuto dimostrare di saper portare fino alla tangibile realizzazione latente…

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Il teschio implume con il suono della sega elettrica che svolazza tra i rami

L’oscuro delatore della Pestilenza sobbalzò sull’albero segreto, avendo cura di aggiustare con un gesto della testa l’ottimale inclinazione del suo cappuccio marrone. Gli occhi tondi e spalancati, l’inquietante maschera corvina del suo volto in atteggiamento compunto e dignitoso, mentre meditava sull’importante compito di quel particolare giorno, ereditato dalla stirpe dei suoi illustri predecessori medievali. Controllare, verificare, riportare ed aggiornare il braccio esecutivo degli Agenti, ovvero quella casta di elementi silenziosi e sempre pronti a muoversi, il cui simbolo professionale resta la finale falce di metallo, mezzaluna in grado di concludere l’ultimo giorno di una vita su questa Terra… Una serena o impropria dipartita, ovvero il passo che conduce all’altro lato dell’invalicabile barriera. Oltre cui determinati elementi, virus obbedienti, possono migrare agevolmente denotando un ambiente maggiormente funzionale allo scopo. Con un brusco sobbalzo in quel momento necessario, l’elegante pennuto “vitello” sollevò dunque il suo appuntito becco perpendicolarmente verso il cielo. E in un crescendo di squillante tono ed enfasi, cominciò ad emettere il roboante discorso che corrispondeva al suo nome maggiormente tradizionale: “ooo-AAAAA, ooo-AAAAA”. Simile a un muggito. Simile a un motore. Che ricorda, sotto certi versi, l’arma del moderno Jack lo squartatore.
Tralasciando momentaneamente il rilevante appellativo latino, che risale alla classificazione del 1776: Perissocephalus tricolor (tricolore dal cranio stupefacente) l’essere di circa 40 cm di lunghezza che stiamo descrivendo in questa situazione viene spesso definito, da colui o colei che lo indica col proprio dito nei contesti sudamericani, “uccello cappuccino” in funzione della distintiva stempiatura che caratterizza la sua inconfondibile testa, sormontata dal triplice ciuffo vagamente simile ad un copricapo dei nativi americani. Che lo identifica come rappresentante tassonomico all’ordine dei passeriformi e non dei corvi come si sarebbe forse potuto pensare, ovvero all’interno della famiglia dei cotingidi, benché il suo insolito aspetto non permetta d’inquadrarlo visivamente in alcuna di queste citate categorie. Per non parlare della distintiva abitudine, ad esibirsi nei periodi riproduttivi in elaborati show canori, con buona pace di chi andrebbe a cercare la pace e il silenzio nelle immediate prossimità degli estuari del Rio delle Amazzoni e del Rio Negro. In un tripudio polifonico e coordinato, in cui nessun maschio cerca di coprire le note prodotte dai colleghi, pur cercando ripetutamente di scacciare i rivali di turno dall’ideale palcoscenico sfidandoli a duello, mentre le femmine s’impegnano di contro all’altro lato di questo stesso conflitto auditivo. Cui fa spesso seguito, in maniera largamente prevedibile, il Caos…

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