La quaglia con la virgola sul capo e uno spiccato senso della solidarietà pennuta

La gente di città in genere non riconosce molte varietà d’uccelli. Abituati più che altro ai versi ripetuti di piccioni, corvi, gabbiani e l’occasionale pappagallo introdotto dall’uomo, guardiamo all’origine dei loro versi con un senso di tranquilla familiarità ed occasionale fastidio, associandoli a quel sostrato chiassoso che include lo squillo del clacson, le sirene della polizia ed il suono di autoradio distanti. Verso la seconda metà degli anni 2010, tuttavia, nel parco Presidio di San Francisco, una presenza anomala diventò familiare per i passanti e visitatori locali: stranamente saltellante, grazioso nella sua pura eleganza, emettitore di un particolare canto reiterato che può essere trascritto come “Chii-ca-go! Chii-ca-go!”. Ma nessuna possibile compagna o altro maschio in lizza per il territorio avrebbe più raccolto la sfida di Ishi, così chiamato per analogia con il celebre ultimo membro della tribù degli Yahi, nativi americani delle colline della Sierra. Esattamente come il proprio antesignano, questo piccolo rappresentante della natura era rimasto totalmente solo al mondo. Una condizione particolarmente sofferta per creature socievoli come la quaglia della California, famosa per l’inclinazione a riunirsi un tempo in gruppi tra i 60 e (raramente) più di 1.000 esemplari, straordinariamente solidali nella ricerca del cibo, la protezione dei piccoli e la vigilanza nei confronti dei predatori. Caratteristiche di uccelli ad oggi tutt’altro che rari, nonostante la caccia notoriamente entusiastica che ne viene fatto nell’intero spazio del proprio areale. Eppure la scomparsa della specie all’interno della quarta città della California, probabilmente dovuta alla progressiva proliferazione dei gatti ferali, dovrebbe rappresentare un monito fondamentalmente bene accetto. Poiché non vi sono molti gli altri volatili, qui o altrove, a possedere lo stesso di fascino frutto di un accurato equilibrio di fenotipi mirati a monopolizzare l’attenzione dei propri co-specifici del sesso opposto. All’interno della specie Callipepla californica, forse il più celebre rappresentante di un genere di quaglie del Nuovo Mondo, famose per la loro capacità di adattamento e la capacità di colonizzare paesi del Centro America a discapito delle specie locali. Eppure non sarebbe giusto, di sicuro, fargliene una colpa: uccelli non-migratori e perciò inerentemente soggetti alle alterazioni climatiche e del territorio, fatta eccezione per la capacità di scendere a valle nei mesi invernali, questi visitatori occasionali della nostra coscienza hanno quietamente e lungamente combattuto contro condizioni avverse. Che li hanno visti diventare vittime prescelte di una quantità spropositata di predatori, finché grazie alla notevole attenzione ai dettagli, la capacità di proliferazione e di trovare possibili fonti di cibo, hanno prevalso in buona parte di un habitat capace di estendersi lungo la costa Ovest, fino alle propaggini meridionali del territorio canadese. Insegnando i meriti di una creatura semplice, ma non per questo comune…

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La strana storia delle api ritrovate dentro i capitelli della cattedrale del Canale

“Quello che a Roma non fecero i barbari, lo fecero i Barberini” non è un semplice modo di dire affisso sulla statua “parlante” di Pasquino, bensì l’osservazione per lo più oggettiva che riflette l’operato di quei nobili venuti da Firenze, per fare fortuna e infine trovare il proprio spazio nel fondamento stesso dell’istituzione papale. Un trono ingioiellato che nell’epoca Barocca era sinonimo di quasi onnipotenza, nella redistribuzione dei materiali e le risorse cittadine. Cose come i marmi dell’anfiteatro Flavio, più comunemente noto con il nome di Colosseo, che notoriamente venne utilizzato da Urbano VIII come cava per dar luce all’infinita gloria di quel cognome. Scelto ad arte, perché nessuno avrebbe mai voluto che i parenti del 235° Vicario di Cristo continuassero a farsi chiamare Tafani. E fu quella l’origine del problema: poiché centinaia, se non migliaia di stemmi dovettero essere revisionati, per mostrare un trio di nobili api al posto della mosca cavallina. A meglio simboleggiare un “encomiabile” intento d’unione tra la chiesa e l’operosità della natura.
Circa quattro secoli dopo il 266° portatore di quel particolare cappello, l’attuale Jorge M. Bergoglio /alias Franciscus I, si sarebbe ritrovato a sua totale insaputa un giorno a dire messa nello stesso continente che gli aveva dato i natali. Sotto i segni residui di una versione alternativa, eppure stranamente congeniale, dell’antico emblema. Inizia dunque la vicenda relativa alla sua visita del 2018 alla città di Panama ed all’imponente edificio al centro del suo culto, lungamente abbandonato fino al tempo della sua venuta a discapito del nome altisonante di Catedral Basílica Santa María la Antigua de Panamá… Fatta eccezione per il popolo di una nutrita pletora di piccole, ronzanti creature. “Scoperte come queste, non ce ne sono state molte nel corso della storia della Cristianità. In effetti, forse, nessuna!” Qualcosa di simile deve aver pensato la museologa Wendy Tribaldos, impegnata all’epoca con la Dalmática Conservaçao e Restauro, alla progressiva presa di coscienza di quanto i suoi stessi occhi stavano vedendo tra i fregi ornamentali del reredos, la pala d’altare monumentale dell’edificio. Dove tra i fini capitelli ricoperti di foglia d’oro, strane forme convesse di un’indisputabile complessità inerente sembravano essere state incluse alquanto intenzionalmente nella struttura di base. Finché non fu evidente, ad uno sguardo approfondito, che dovesse trattarsi dell’opera di un qualche tipo d’insetto… Tra i presenti, quasi subito, venne suggerita l’ipotesi falena. Quindi che potessero essere dei nidi di calabroni. Finché alla stessa Tribaldos non venne in mente, per sua e nostra fortuna, di portare le silenti vestigia presso un centro di ricerca della celebre istituzione museale statunitense, lo Smithsonian…

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I cerchi dentro l’albero che custodisce la storia climatica dei continenti

Nel tormentato autunno della sua esistenza, il botanico cecoslovacco Franz Sieber guardò verso un pubblico importante ma decisamente scettico ed alquanto disinteressato. “Aveva pochi fiori, vi dico. POCHI fiori.” Con gli occhi socchiusi per la luce obliqua che entrava dalla finestra, Napoleone si tolse il cappello e fece una smorfia. “Quando l’armata non ascolta gli ordini, l’unica risposta è fare ammenda nei confronti dei genitori!” Un verso con la gola ed un sussulto, seguito dal rumore di qualcuno che batteva le mani una, due volte: “No, no, basta. Occorre aprire il piccolo passaggio verso il tempio delle vestali. Sono io, Giulio Cesare che lo afferma!” Aristotele, in un angolo della grande sala, scosse la testa. Mentre Carl von Clausewitz e Alessandro Magno annuirono con veemenza. “Se lui lo afferma, io gli credo.” Disse il grande condottiero macedone. “Nella foresta delle circostanze, vige la regola del più forte. E lui ha sciolto, ha sciolto il nodo con l’intento indagatorio di un dioscuro impertinente!” Fu allora che un ramo dei pini nel cortile del manicomio, fatto muovere dal vento, si appoggiò lieve sullo stipite della finestra. “È… È lui. Ascoltatemi, amici miei. Guerrieri, generali, politicanti! Giunge al nostro cospetto, tremebondo ma magnifico, l’imponente Eucalyptus pauciflora. Non ha molto da dire, ma le sue foglie pallide conoscono soltanto la verità. Per poterne trarre beneficio, occorrerà TAGLIARE fino al nocciolo della questione…”
Vissuto appena 55 anni, il ricercatore entrato in conflitto con le autorità boheme dopo essersi convinto di aver scoperto una cura per la rabbia, impresa per la quale pretendeva di essere pagato profumatamente diventò progressivamente più aggressivo e nervoso, fino al ricovero coatto che avrebbe segnato il termine della sua carriera. Sieber il naturalista, lo studioso, il collezionista di piante ebbe, tuttavia, se non altro una vita interessante e costellata di scoperte scientifiche, in Europa, Africa, Medioriente. Nonché ovviamente, l’Australia. Dove salendo in cime alle catene montuose nella parte meridionale del continente, si ritrovò al cospetto di uno svettante arbusto alto fino a un massimo di 30 metri, lucido e policromo soprattutto al primo sorgere del sole, ancora umido per l’aria notturna, che sembrava sfidare le sue cognizioni botaniche date precedentemente per acquisite. Com’era possibile che una varietà di Eucalyptus, pianta notoriamente affine ai climi caldi e gli ambienti di pianura, potesse non soltanto sopravvivere ma crescere alta e forte in luoghi dove la neve cadeva una pluralità di volte ogni anno, tra il sibilo di venti che non sembravano poter placare la loro furia? Non ci volle molto, tuttavia, perché egli comprendesse la relativa applicabilità del preconcetto nozionistico figlio di un punto di vista incompleto. Pur finendo per commettere, notoriamente, un errore. Tra i campioni da lui raccolti e riportati in Europa per la catalogazione, infatti, soltanto una minima parte sembravano esser caratterizzati dalla presenza di boccioli o le tipiche infiorescenze bianche e circolari di questo arbusto. Che decise quindi di chiamare, in lingua latina, pauciflora o “dai pochi fiori”. Laddove non c’è nulla, ad oggi, di maggiormente iconico e caratteristico delle montagne degli stati del Nuovo Galles del Sud e di Victoria che le intere cascate odorose prodotti da questi alberi, ben presto destinate a trasformarsi negli irsuti frutti simili a ghiande convesse tipici di questa specie dalle molte varianti. Il cui segreto maggiormente rappresentativo, d’altra parte, si nascondeva ben al di sotto di quella corteccia variopinta…

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Un laser contro il magma, per anticipare il drastico risveglio dei vulcani

Ha fatto notizia, più volte nel corso degli ultimi anni, il percorso di approfondimento compiuto dalla vulcanologa dell’Università del Queensland Teresa Ubide Garralda, studiosa incline a investire i propri sforzi nella ricerca del sistema, lungamente giudicato una chimera, per riuscire in qualche modo a prevedere l’insorgenza e le modalità di un’eruzione vulcanica. E con ottime ragioni, vista la quantità d’insediamenti umani nati attraverso i secoli e millenni sotto le pendici di quel tipo di massicci montuose, pericolose valvole di sfogo dell’implacabile mare di fuoco che scorre sotto i nostri piedi. Un tipo di approfondimento scientifico, quest’ultimo, che prende vita dallo studio di fenomeni del tutto naturali e proprio per questo, dipendente dall’incontrollabile verificarsi dell’ennesimo potenziale disastro mai annunciato. Così nel 2018, lavorando sulle pendici dell’Etna, ella ebbe l’occasione di raggiungere un più elevato livello di comprensione dell’attività magmatica mediante l’osservazione approfondita dei minuscoli cristalli o microcrysts contenuti nel magma siliceo, destinato a scorrere sulle pendici una volta liberato nell’atmosfera il gas che l’ha portato ad emergere in superficie. E di nuovo ad osservare, all’inizio di quest’anno, il comportamento e la composizione del melt (roccia semi-liquida) fatta scaturire dal pericoloso vulcano neozelandese Taranaki, una possibile nuova strada di approfondimento verso l’acquisizione di dati storici in merito al comportamento di un tale sito, luogo di una potenziale catastrofe pliniana degli anni a venire. Il che ci porta alla svolta di questo particolare sentiero della conoscenza, compiuta in tempo per la pubblicazione soltanto nella scorsa settimana della nuova prospettiva ottenuta durante il periodo di disastrosa attività effusiva del Cumbre Vieja nelle isole Canarie, durata 85 giorni tra il 19 settembre e il 13 dicembre del 2021, consistente in copiose colate laviche capaci di causare danni a 1.000 ettari dell’isola di La Palma e con essi 3.000 edifici costruiti dall’uomo. Benché offrendo l’opportunità, per la sua progressione relativamente lenta, di evacuare la popolazione finendo per costare la vita solamente ad un singolo, sfortunato individuo. Un’opportunità particolarmente rara d’altra parte, in funzione della sua lunga durata, per comprendere l’evoluzione di questi fenomeni nel tempo ed impiegare nuovi approcci utili a comprenderne i segni rivelatori. Come ampiamente delineato nello studio della Dott.ssa Ubide assieme alla sua equipe internazionale, che in questo frangente ha scelto di mettere in campo un nuovo tipo di strumento nella guerra conoscitiva delle scienze applicate al più temuto dei disastri provenienti dalle remote profondità terrestri. Niente meno che la luce stessa, concentrata grazie a un fascio di fotoni dritta verso il punto e nesso principale della problematica di rilievo…

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