PS3 game review: Heavy Rain

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Heavy Rain è un thriller cinematografico i cui autori hanno compiuto scelte difficili, proprio come vengono chiamati a fare i suoi protagonisti e “giocatori”. In quanto creazione interattiva, la sua chiave di volta è l’assenza di un controllo autorale dotato di visione d’insieme, presupposto comune a tutte le espressioni proprie della settima arte. In questo racconto drammatico quanto sinistro, che ruota attorno ad una serie di rapimenti ed infanticidi, le vicende di quattro memorabili personaggi vengono animate attraverso una commistione di moderno game design e tecniche di stampo hollywoodiano: in sostanza, si tratta di decidere volta per volta l’andamento degli eventi di un film, unicamente limitati dalla propria abilità con il joypad in alcuni dei frangenti più pericolosi. Viene proposto un numero variabile di esiti possibili per ciascuna scena, mentre lo stesso tono del racconto e la sua conclusione sono oggettivamente incerti, non ancora decisi fino agli ultimi minuti delle sue oltre 10 ore.  Il risultato finale non solo esula dal genere di videogioco generalmente associato al contesto investigativo (l’avventura grafica) ma trova modi così innovativi ed efficaci per coinvolgere chi vi partecipa da potersi quasi definire precursore di un nuovo media espressivo, impensabile senza la partecipazione dei moderni attori virtuali. Il successo di Avatar di James Cameron ha mostrato al mondo come, attraverso il realismo fornito dalle nuove tecnologie, il grande pubblico possa dimenticare l’intangibilità di buona parte del cast di un film di pura fantascienza. Heavy Rain invece si pone di rappresentare il quotidiano, lo squallido e l’inquietante, con tecniche e metodologie che sarebbero state del tutto accessibili ad una tradizionale produzione cinematografica. Ma c’è un’importante differenza con quest’ultima classe di realizzazioni: nel preciso momento in cui l’assassino incombe dietro alla vittima, quando lo sceneggiatore tradizionale vorrebbe farci dire “voltati, è dietro di te!” qui si deve premere il tasto corrispondente o perire. E non importa se il nostro alter-ego di quel momento riuscirà a sopravvivere o meno, il game over non verrà concesso fino alla soluzione del caso.

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Within Halo’s Reach

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Sono passati quasi nove anni dal giorno in cui il primo anello cosmico dei Precursori venne distrutto ad opera del guerriero corazzato noto come Master Chief, sconfiggendo le orde aliene dei Covenant.
Il compimento dell’impresa, forse tra le più rilevanti nell’affermare il considerevole successo della prima console X-Box, non solo ha rappresentato un passo significativo per l’evoluzione del combattimento digitale nei videogiochi, ma ha fornito le basi per una saga multimediale lunga ed articolata, in grado di trascendere a più riprese le consuete aspettative di successo per una creazione immaginifica di questa tipologia.
L’universo narrativo creato come sfondo per lo sparatutto dei Bungie Studios è stato infatti ripreso, oltre che nei tre episodi principali, nello spin-off strategico Halo Wars e nel singolare shooter narrativo Halo: ODST da una vasta serie di romanzi e graphic novel, in modo non dissimile da quanto avvenuto negli anni per Guerre Stellari o Star Trek nei così detti Expanded Universe, i canoni mitologici di approfondimento riservati unicamente ai franchise dal successo generazionale. In quest’ottica e come già avvenne per Matrix, molto presto arriverà in Italia una compilation antologica giapponese creata da alcuni degli studios di animazione più influenti nel campo degli anime, intitolata Halo Legends. Inoltre è prevista per questo autunno l’uscita del misterioso Halo Reach, l’atteso gioco che potrebbe costituire l’ultima produzione di Bungie all’interno di questo franchise, prima del possibile reboot ad opera del publisher Microsoft.
Il futuro della serie di Halo appare incerto come il destino del suo protagonista al termine della sua terza e più recente missione, ma una cosa è certa: il suo progredire è destinato ad avere un impatto significativo ben oltre la prossima generazione di sparatutto per console. 

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PS3 game review: MAG

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Tra tutti i campi in cui trova applicazione la tecnologia moderna quello che colpisce maggiormente la fantasia degli autori è la guerra. Nessun altro immaginario ha visto una profusione comparabile di opere di ingegno, illustrazioni, cronache fantasiose o progetti avveniristici di ingenieri mancati. I soldati del futuro sono stati descritti o rappresentati attraverso le epoche come reclute involontarie, guerrieri idealisti o cyborg potenziati votati alla battaglia, con gradi variabili di realismo ed eventuali presupposti allegorici. Il ruolo dell’umanità e stato infine posto in secondo piano, avendo dimenticato negli anni le terribili implicazioni dei reali conflitti su scala mondiale: nella cinematografia e letteratura moderna di largo consumo l’obiettivo autorale è ormai descrittivo, prima ancora che morale. Zipper Interactive, la compagnia di sviluppatori interna a Sony dal 2005 (SOCOM) ha così scelto di ambientare il suo nuovo importante shooter multi-giocatore nel vicino futuro, offrendo armi ed equipaggiamento simili a quelli odierni, ma nel contesto di una situazione internazionale molto differente ed ancora più fondata sulle esigenze di un’economia di conflitto. Il numero più impressionante di questa nuova mega-produzione è 256. Tanti sono i giocatori che possono prendere parte in contemporanea ad una singola partita: divisi in squadre e plotoni, con tanto di catena di comando realistica e funzionante. L’anno è il 2025, ed infuria la Guerra Ombra: un conflitto senza fine che non ha frontiere, casus belli o scopo ultimo di alcun tipo.  War has changed, Old Snake.

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Apple Computer 2.0

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Si chiamerà iPad, alla fine. Se ne era parlato molto negli ultimi mesi, ed ancora di più dal momento in cui era ormai certo che qualcosa doveva accadere. Il 27 gennaio 2010 potrebbe venire ricordato come la data in cui il CEO più famoso al mondo si è seduto su una poltrona di pelle sul palco dello Yerba Buena Center for the Arts di San Francisco e, con fare disinvolto, ha rivoluzionato il concetto stesso di computer. Nonostante l’inclinazione fortemente commerciale, le assurde limitazioni di utilizzo (mancano porte USB, memory card, fotocamera…) ed il design estetico meno che eccezionale, il nuovo shiny gadget del carismatico Steve Jobs sta già facendo parlare il mondo intero, mentre persino alcuni dei più convinti sostenitori dell’open source si preparano a prenotarne uno.
Riuscirà questa scommessa ad avere lo stesso travolgente successo del suo insigne predecessore, l’ormai ubiquo cellulare iPhone? Potrà realmente costituire l’anello mancante tra gli ingombranti laptop ed i compatti smartphone? Di certo contribuirà ad allargare e rafforzare i presupposti monopolistici della già colossale e sempre più potente compagnia informatica di Cupertino, California. Questo dispositivo non è infatti un computer in senso tradizionale, anche se naviga su Internet, riceve e-mail e visualizza una buona parte dei video e degli e-book. Un iPad non potrà in alcun caso essere programmato, personalizzato o impiegato in processi puramente creativi. Ogni applicazione che venga realizzata dai suoi utenti andrà singolarmente valutata ed approvata da Apple stessa, per poi essere resa disponibile in esclusiva tramite le stesse infrastrutture web utilizzate dall’iPhone e dall’iPod Touch. Il termine forse più adatto a definire iPad è quello di information appliance, una dicitura creata per Apple dal teorico Jef Raskin verso la fine degli anni ’70, liberamente traducibile in “elettrodomestico informatico”. Sarebbe la più nuova ed affascinante realizzazione di un’ideale vecchio quanto il concetto stesso di Personal Computer: un dispositivo facile da usare, privo delle astrazioni tipiche connesse all’esecuzione ed alla gestione di programmi  o contenuti digitali. Sempre acceso, sempre connesso ed utilizzabile in pochi minuti da chiunque e con qualsiasi grado di esperienza, come un televisore o una radiosveglia. Ma sottile quanto uno shoji e largo come un libro di storia. Praticamente, un computer stampato su un foglio di carta… metaforicamente refrattario a qualsiasi tipo di inchiostro.

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