Circa una decina di anni fa, uno dei giardinieri che si occupavano del parco pubblico di Shipley Hall, nel quartiere Frizinghall della città britannica di Bradford, ebbe una strana e tutt’altro che piacevole sorpresa. Recandosi come tutte le mattine ad innaffiare le aiuole, notò una zona bianca ai margini del campo visivo, corrispondente ad una macchia di circa 15 alberi adulti di pado, i ciliegi a grappolo piantati in questo luogo principalmente con finalità ornamentale. E che adesso non svolgevano più efficacemente quel ruolo, data la maniera in cui erano stati privati quasi totalmente di foglie e almeno in apparenza, ricoperti di un sottile quanto impenetrabile strato di ghiaccio. Ah, ho già menzionato che la temperatura media, essendo estate, superava facilmente i 30-32 gradi? Un’evidente contraddizione in termini, se soltanto l’anomalia botanica avesse avuto origine dalla classica contingenza climatica della rugiada cristallizzata, piuttosto che il vezzo evolutivo di una singola, operosa creatura. Ovvero l’esemplare sub-adulto di Yponomeuta evonymella, più comunemente detta falena ermellino, per la sua colorazione candida e l’addome peloso, gradevolmente ornato da una serie di puntini progressivamente dislocati lungo l’estendersi delle sue aggraziate ali. Ma che tutti conoscono in Europa, più che altro, per l’effetto collaterale delle larve attive principalmente verso l’inizio della primavera, quando letterali migliaia di piccoli bruchi non più lunghi di un pollice (i proverbiali inchworm) di un colorito biancastro fatta eccezione per la testa ed i trattini neri al centro del dorso, emergono dalle profondità della corteccia degli alberi, ove avevano trovato la collocazione nella forma originale di un uovo. Verso il settembre scorso, quando i genitori sfarfallanti avevano deposto la singola generazione annuale, come si confà agli insetti dalle abitudini univoltine, categoria alla quale soltanto una piccola parte dei lepidotteri di questo mondo può effettivamente affermare di conformarsi. E dando inizio ad una prassi che potremmo agevolmente definire come ancor più distintiva, persino maggiormente degna di nota: quella di costruire una letterale grande tenda sotto cui restare al sicuro da sguardi indiscreti e l’indesiderabile fluttuazione termica degli orari notturni. Una letterale barriera nei confronti dei pericoli di questa Terra, ovvero in altri termini, una tenda. Visione forse non così rara, soprattutto nel Nord Europa benché specie appartenenti allo stesso gruppo tassonomico siano attestate anche nell’Italia settentrionale, benché sia impossibile negare l’effetto scenografico che può restituire ai non iniziati: quello d’interi tronchi, per non parlare delle rocce o anche strutture create dall’uomo il cui colore agevolmente tende a scomparire, sotto lo strato di una tale stoffa così apparentemente simile alla ragnatela. Ma molto meno appiccicosa in quanto indicata per lo svolgimento di un diverso tipo di mansione, molto meno aggressiva. Mentre coloro che l’hanno costruita e continueranno a farlo fino al raggiungimento dello stadio vitale di pupa, imperterriti e indefessi, consumano con entusiasmo la materia verde sotto una simile trapunta intrisa dello spirito dell’entropia vegetale…
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Sull’ali aperte dell’aninga, il singolare serpente piumato del Nuovo Mondo
Il dato strettamente interconnesso al concetto stesso di un iceberg è che ciò che vedi al di sopra del livello delle acque, nella maggior parte delle circostanze, non è affatto rappresentativo del resto. Perché allora quando osserviamo una creatura parzialmente sommersa, tendiamo a pensare immediatamente al contrario? Pensate al caso dell’ippopotamo, identificato fin dai tempi dell’antica Grecia come un “cavallo di fiume”, per il mero aspetto delle sue orecchie e il grosso paio di nari. Oppure il mostro di Loch Ness, sospettato da oltre 10 secoli di essere una sorta di di pesce oblungo o plesiosauro redivivo, benché le certificazioni acclarate del suo aspetto risultino necessariamente limitata a meno del 10% della sua massa fisica complessiva. E chi può dire dunque, se la sua propensione a scomparire totalmente per intere generazioni non derivi, in effetti, dall’abilità di spiccare agevolmente il volo nelle prime ore dell’alba o successive al tramonto, come un pipistrello vampiro delle proporzioni di un autobus, diretto alla scuola magica di Hogwarts attraverso il più affollato corridoio aereo di Scozia?
Tutto è possibile, una volta che si fuoriesce dai confini della scienza fondata su fattori certi e verificabili, operazione diventata progressivamente più difficile con l’avanzare degli strumenti oggettivi a nostra disposizione, inclusa una tassonomia e studio dei processi biologici che possa dirsi puntuale ed approfondito. Metti il caso, ad esempio, che prima dell’epoca di Isaac Newton un adepto della cosiddetta Filosofia Naturale si fosse trovato al cospetto di uno splendido esemplare di Anhinga anhinga, l’uccello che gli americani sono soliti chiamare darter per la sua abilità nel nuoto subacqueo e per l’aspetto del becco simile, beh, a una freccetta (dart) nonché privo di narici, relegando la respirazione al solo impiego di un’epiglottide (!) particolarmente sviluppata. Egli non avrebbe certo esitato nel credere di aver finalmente trovato la mitologica risultanza di un uovo di gallina covato da un rospo o un serpente, la temuta coccatrice dallo sguardo in grado di pietrificare i cavalieri più coraggiosi. Come spiegare, altrimenti, l’aspetto sinuoseggiante di quel lungo collo, in proporzione almeno il doppio di quello di un cigno. Per non parlare dell’indole naturalmente aggressiva e territoriale condivisa con quest’ultimo, di una creatura comunque non inferiore agli 80-90 cm di lunghezza, almeno in parte dovuta all’abitudine non proprio salutare di deporre le proprie uova all’interno di un nido costruito a livello del terreno, tra i giunchi a margine del proprio laghetto elettivo d’appartenenza. La provenienza stessa del suo nome scientifico, successivamente attribuito per antonomasia ad altre specie simili di regioni geografiche assai distanti, si colloca contestualmente nella lingua Tupi degli indigeni brasiliani, in cui parrebbe significare “uccello demone” probabilmente in forza di una presunta capacità di portare sventura e dannazione. Il che probabilmente giustificava, almeno in parte, l’eccidio energico che ne veniva fatto, per un immotivato entusiasmo gastronomico nei confronti delle sue carni.
Che i gourmet moderni, a dire il vero, considerano molto meno attraenti persino rispetto a quelle di una coriacea ed insapore anatra di mare. Dopo tutto, siamo di fronte a un agguerrito carnivoro, assai vicino al culmine della catena alimentare, anche grazie alla notevole forza concessa al becco dalla conformazione di un osso situato nel collo, che lo rende capace di serrarsi come una vera e propria tagliola….
A largo della Florida, il selvaggio sabba oceanico dell’invadente insetto in luna di miele
Sussiste uno stereotipo, su Internet, secondo cui la Florida sarebbe un luogo di fantastici eccessi e terribili deviazioni dalle aspettative legittime delle umane circostanze, coadiuvate da una sorta di atmosfera che in qualche maniera riesce a deviare ed influenzare la realtà. Così che basta inserire su Google il nome dello stato peninsulare, proteso come una magica passerella sull’Atlantico, possibilmente accompagnato da parole d’uso comune come “man“, “alligator” o “sheriff“, per inoltrarsi in una rassegna che sfiora il surrealismo e cambia radicalmente le logiche interconnessioni degli eventi. Al punto che imbarcandosi e lasciando dietro di se le coste sabbiose di una tale landa, a bordo di una conveniente imbarcazione da diporto, può sembrare di essersi temporaneamente liberati da una simile foschia, ritornando almeno per qualche ora dei perfettamente ragionevoli, e del tutto rilassati rappresentanti della civile società contemporanea. A patto di non essere… Sottovento. Direzione verso cui tra aprile e maggio, agosto e settembre e qualche volta anche a dicembre, le correnti ascensionali prendono in custodia un vasto popolo d’interconnessi volatori, nel senso di esseri costantemente e saldamente attaccati l’uno all’altro per la parte posteriore dei loro corpi, a due a due. Sono i famosi e odiati “insetti in luna di miele”, “insetti innamorati” o “f***ing bugs” (in più di un senso) che come una pioggia biblica finiscono per ricadere un po’ da tutte le parti, incluso a quanto sembra questo motoscafo a largo della baia di Tampa, i cui occupanti non possono far altro che alzare le proprie braccia contro un cielo vendicativo, mentre si ricoprono letteralmente di una pioggia quasi biblica dei piccoli invasori, lunghi non più di 6-9 mm dalla testa con le antenne alla parte finale del proprio addome. Orrore, stupore ed anche un po’ di meraviglia, sebbene siamo innanzi al tipo di creature che tornando puntualmente ogni anno, hanno finito per diventare un simbolo inscindibile perfettamente rappresentativo di una buona parte del meridione statunitense.
A partire da quando, nell’immediato dopoguerra, iniziarono ad essere notati allo stesso tempo dagli entomologi non soltanto floridiani ma anche di Texas, Alabama, Mississippi e Louisiana, che non poterono far altro che notarne l’arrivo dall’America Centrale passando per lo stato messicano dello Yucatan. Diventando una visione pressoché costante fino all’apice della loro presenza verso la metà degli anni ’70, momento in cui parevano essersi moltiplicati fino a ricoprire letteralmente ogni centimetro di cielo nel corso dei loro frequenti eventi migratori da un lato all’altro del continente. E tutto questo senza arrecare danni degni di nota all’agricoltura, pur trattandosi di nettarivori, principalmente interessati a piante erbacee come meliloti, solidaghi e pepe brasiliano, per il semplice ma fondamentale aspetto della breve durata della loro vita: appena 3-4 giorni per i maschi, poco più per la femmina; abbastanza per portare a termine il compito per cui sono stati creati, culminante con la deposizione di una significativa quantità di uova (100-350) negli strati marcescenti di legno, torba o altra materia biologicamente feconda…
Il verde calice del cobra che condanna l’insetto di palude statunitense
Principalmente nel popoloso stato della California, oltre alla parte meridionale del selvaggio Oregon dai verdi boschi ed alte colline, la morte può assumere un aspetto singolare e al tempo stesso stranamente affascinante. Di un fiore ed una foglia ripiegata su se stessa ad arte, in modo tale da costituire a tutti gli effetti uno spazio chiuso, come l’anticamera dell’ultima destinazione di coloro che ne varcano i confini, con assoluta naturalezza d’intenti. Dopo tutto non è certo possibile per una mosca, una zanzara, un coleottero, pianificare il proprio stesso suicidio. Ed è per questo che la Darlingtonia californica, altrimenti detta “giglio cobra” sfrutta i prevedibili meccanismi del loro istinto, per portarli fino all’autonoma ed irrimediabile condanna. Non fatevi, tuttavia, trarre in inganno da quel nome: qui non c’è proprio alcun collegamento con la famiglia dei lilium, né l’aderenza ad alcun tipo di modello proveniente dal vasto regno delle monocotiledoni. Quanto piuttosto l’aderenza a linee guida scritte a chiare lettere nella storia biologica del mondo, in un periodo che viene convenzionalmente fatto risalire all’Oligocene (25-44 milioni d’anni a questa parte) quando questa creatura vegetale corrispondente in maniera univoca ad un genere completamente distinto, ebbe ragione e modo di divergere dalle altre varietà della famiglia Sarraceniaceae, egualmente dedite alla pratica dell’annientamento indistinto e progressivo delle piccole creature volanti di questa Terra.
Sarà chiaro a questo punto il fatto di trovarci innanzi ad una pianta carnivora del tipo cosiddetto ad ascidio, termine riferito per antonomasia anche alla notevole struttura che questa intera categoria forma, tramite l’avvolgimento e la saldatura ai margini delle proprie foglie, verso un risultato del tutto simile ad un calice del tipo normalmente riempito nel corso di occasioni conviviali con il dolce vino ed altre bevande pregiate. E che in effetti anche per loro tende a diventare, nella maggior parte dei contesti ambientali, un ricettacolo dell’acqua piovana, con tutti i problemi che possono derivarne: il peso aumentato che grava sul fusto della pianta, la compromissione dell’esca nettarina usata per facilitare l’ingresso delle prede nella trappola, ma soprattutto l’annacquamento degli speciali enzimi o batteri commensali contenuti all’interno, allungando conseguentemente il tempo necessario alla “digestione”. Così che diverse tipologie di piante carnivore dotate di un calice, da quelle nordamericane alle Nepenthes della parte meridionale di quel continente, impiegano sistemi differenti per limitare l’accumulo di acqua, da vere e propri scarichi in prossimità del fondo, del tutto simili a quello del lavandino, alla presenza di un opercolo, sostanzialmente una sorta di coperchio della foglia, capace di deviare in parte o del tutto l’acqua piovana. Nessuno, tuttavia, del tipo posseduto dalla singolare Darlingtonia, la cui forma arcuata, con sotto una vera e propria lingua biforcuta, finisce notoriamente per rassomigliare a qualcosa di totalmente diverso: la testa concentrata e meditabonda di un serpente pronto a lanciare il proprio assalto all’indirizzo di una vittima inconsapevole ed impreparata…