Nella filosofia tradizionale del Taoismo non esistono i concetti di aldilà o reincarnazione, perché niente ha mai fine. Al momento della morte ciò che era stabile diviene fluido, trasformandosi materialmente e spiritualmente per dare origine a esseri nuovi e differenti. L’anima e il sangue degli uomini generano piante, animali e creature fantastiche in base alle condizioni del cielo e della terra, in un ciclo infinito di partenogenesi e trasformazioni. Come raccontato dal maestro Chuang-tzu “Dai vecchi bambù esce l’insetto z’ing-ning, che diventa leopardo, poi cavallo, poi uomo. L’uomo torna nel telaio cosmico, per tessere”. Ma esistono fenomeni prodotti dalla nostra mano, come l’ikebana e la coltivazione dei bonsai, che nella ricerca del bello impiegano ciò che è naturale secondo gli schemi personali e soggettivi degli artisti. Nell’ultimo lavoro di Makoto Azuma, scultore di piante proprietario di un haute coutoure floreale nel quartiere di Moto-Azabu a Tokyo, il legno morto di un piccolo albero di ginepro, appartenente alla specie Sabina chinesis, è stato immerso in un acquario, dove ricoperto da muschio e alghe sembra ritrovare il fogliame della sua precedente esistenza. La pianta terrestre si è dunque trasformata in creatura acquatica, dimostrando in tale perfezione artificiale l’immortalità della sua essenza.
GravityLight: illuminazione tecnologica per i paesi del Terzo Mondo
Martin Riddiford e Jim Reeves, inventori londinesi, sono al lavoro da quattro anni per risolvere uno tra i più grandi e antichi problemi dell’umanità: l’assenza di luce notturna. Per chi vive nel mondo della tecnologia, la pressione di un interruttore è tutto quello che serve per disperdere l’oscurità e muoversi a piacimento all’interno della propria casa. Ma l’energia elettrica non è una costante garantita, bensì una forza moderna e difficile da immagazzinare, effettivamente fuori portata per oltre un miliardo dei nostri simili in paesi come l’Africa e l’India. In alcuni luoghi del pianeta Terra infatti, un gesto semplice come leggere un libro dopo il tramonto del sole comporterebbe l’impiego di costose candele o lampade al kerosene, un concetto impensabile per chi ha bisogno quotidianamente di impiegare le proprie risorse in campi ben più fondamentali. Ma un aspetto importante del progresso della tecnica è che se da una parte rende tutto sempre più complesso e costoso, dall’altra può essere impiegato per abbassare la soglia di accesso ai servizi e beni che noi diamo per scontati. Questo è il sentimento alla base di GravityLight, una lampada che sfrutta la forza di gravità, in grado di fornire mezz’ora di luce per ogni volta in cui viene caricata. Bastano tre secondi e qualche caloria.
Da robot leggendari a eroi di cartone, i pepakura di Wakabua
I mecha giapponesi e i guerrieri sentai non sono semplici supereroi tecnologici. Sarebbe facile guardare i cartoni animati di quel paese o i colorati, buffi e un pò kitsch telefilm d’azione del genere tokusatsu (Power Rangers…) ritrovando in essi un’espressione creativa equivalente ai più stereotipati tra i fumetti americani, in cui un giustiziere mascherato dai poteri soprannaturali agisce seguendo un proprio codice a vantaggio del bene comune. In realtà i combattenti fantastici del Giappone moderno sono qualcosa di molto più simile ai samurai delle loro leggende guerresche: personaggi con tecniche, armi o veicoli particolari, generalmente ereditati da parenti o appresi come mistiche cognizioni da un qualche tipo di saggio maestro, intenzionati ad elevarsi al di sopra dei propri umani, comprensibili difetti. E tra le più diffuse culture giovanili della corrente così detta degli otaku, spicca in modo particolare il collezionismo dei loro modellini, talvolta in scatola di montaggio, altre da dipingere o semplicemente da acquistare a caro prezzo e esporre su qualche mensola insieme alle immancabili collezioni di manga e videogiochi. Il designer Wakabua, grazie a un suo particolare talento, ha però deciso di fare tutto da solo: nel suo laboratorio di Warabi, prefettura di Saitama, realizza infatti modellini di cartone piegato e dipinto, in base alle procedure artistiche del pepakura, o paper-crafting. Alcuni sono persino trasformabili.
Danza ancora una volta, ragno pavone, il tuo ritmo è poesia
Uccelli dal canto celestiale, ricoperti di un piumaggio variopinto, che si inseguono nei limpidi cieli primaverili alla ricerca di una degna compagnia. Solo i più colorati, i più bravi nel canto e affascinanti nelle movenze riusciranno infine a conquistare il diritto a riprodursi, come imposto attraverso i secoli da quegli stessi meccanismi evolutivi in grado di renderli piacevoli e attraenti. Innumerevoli aspiranti poeti e cantòri hanno visto in queste dinamiche la metafora stessa del concetto di amore, reinterpretando con metriche umane le danze di corteggiamento del pavone, dell’uccello del paradiso, dello svasso maggiore… Ma tutt’altra storia sono i ragni. Creature piccole e pericolose, ingordi divoratori della fantasia popolare, i cui rituali d’accoppiamento arrivano a prevedere l’uccisione del partner nel momento stesso in cui la sua utilità giunge ad esaurimento. Chi mai troverà eleganza e distinzione nell’incontro tra due amanti appartenenti a tali genìe, mostri sottodimensionati con otto zampe irsute e appuntiti cheliceri velenosi? Forse è solo nel caso del Maratus volans, ragno pavone dell’Australia orientale, che qualcuno sarà pronto a fare un’eccezione.