Guidando sulla seconda superstrada più famosa del Giappone, potrebbe capitare di scorgere all’orizzonte questo palazzo alto 16 piani, dalla forma particolare e interessante. Impegnati nel compito tutt’altro che intuitivo di guidare tenendo la sinistra, difficilmente gli presteremmo una particolare attenzione: la concezione urbanistica di Osaka ha del resto uno sviluppo particolarmente verticale, che non prevede l’uso di ampi spazi tra sopraelevate e le mura insonorizzate di uffici e appartamenti. A 500 metri di distanza penseremmo allora che, sicuramente, più avanti ci sarà una svolta per girarci attorno. A 250, poco prima di una curva a S intorno al suo fratello maggiore, saremo certi di stare per passarci talmente vicini da poter salutare i suoi occupanti. Poi, d’improvviso, l’allarmante realizzazione: per qualche inconcepibile motivo, la strada sta puntando dritta contro l’edificio. Dentro l’edificio. Il fatto è che, a partire dal 1992, tra il quarto e l’ottavo piano del palazzo c’è un buco, e le macchine ci passano attraverso. Questo è il Gate Tower Building, detto “l’alveare”, un grattacielo con il tunnel incorporato. Come le sequoie del parco nazionale di Yosemite.
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Sinfonie d’asfalto: la strada canterina che conduce al monte Fuji
Chi non scala il Monte Fuji almeno una volta nella vita è uno stolto, recita la prima parte di un proverbio giapponese. Un detto che si può tranquillamente intendere in senso letterale, perché la più famosa delle tre montagne sacre è un luogo affascinante in cui natura e tradizione s’incontrano a formare panorami memorabili, del tutto unici al mondo. O forse invece, come spesso capita nei detti popolari, il significato vero va cercato nella valenza più profonda di tale concetto: si potrebbe intendere che il senso comune, l’abitudine, possano portarci solo fino a un certo punto e qualche volta ci sia il bisogno di superare se stessi, stupirsi, metterci alla prova e cambiare le regole fondamentali del nostro quotidiano. Come fece probabilmente l’ingegnere stradale Shizuo Shinoda, inventore del più lungo strumento musicale al mondo, una striscia d’asfalto costruita con accorgimenti particolari che, guidandoci sopra alla giusta velocità, riprodurrà con efficacia l’intera sequenza di un’articolata e riconoscibile melodia.
Non sai dove parcheggiare la bici a Tokyo? Mettila sottoterra.
La viabilità giapponese segue regole dettate da un fondamentale bisogno di ottimizzare gli spazi urbani. In un paese estremamente popoloso in cui gli automobilisti sono la minoranza e i trasporti pubblici raggiungono vette di efficienza superiori, le aree pedonali diventano spesso luoghi di passaggio per grandi quantità di persone e punti d’incontro culturali, caratterizzati da ore di punta frequenti ed estremamente affollate. Persino il diritto a possedere un’automobile in Giappone, subordinato ad una lunga serie di lungaggini burocratiche, prevede tra le altre cose la dimostrazione del possesso di un garage o posto macchina riservato, con la precisa finalità di non sottrarre metri quadri al prezioso suolo pubblico cittadino. Può tuttavia capitare, camminando per grandi città come Osaka e Tokyo, di imbattersi in vaste zone designate al parcheggio delle biciclette, un mezzo piuttosto popolare e largamente utilizzato da giovani e pendolari. Un problema che sembrava impossibile da risolvere, almeno fino all’installazione del primo parcheggio sotterraneo automatico. L’incredibile dispositivo, non dissimile da una sorta di juke-box gigante, è una creazione dell’azienda Giken, produttrice di macchinari industriali situata nella parte meridionale dell’isola di Shikoku, presso la grande e antica città di Kōchi. Il funzionamento è molto semplice: si paga la sosta presso il chiosco a lato della strada, si riceve una tessera (non perdetela) e si posiziona la bicicletta sull’apposito nastro trasportatore. Ci penserà la macchina a farla sparire nelle profondità della terra…
Le due viti infinite che nel ’26 viaggiarono oltre la neve
E’ tutta una questione di superfici. Puoi avere il motore più potente, il battistrada termico di gomme specializzate di ogni marca o le migliori catene d’importazione, ma se il bianco manto invernale è davvero profondo dovrai restare lo stesso a casa. La tecnologia motoristica che sfruttiamo per muoverci ha il suo inevitabile peso, mentre la neve è per sua natura friabile e traditrice. Quante buche si sono aperte a sorpresa sotto i capaci pneumatici di un automobilista determinato a raggiungere il posto di lavoro a gennaio? Quante motoslitte artiche, con tanto di cingoli, sono scivolate in invisibili crepacci ghiacciati, rivelati all’improvviso da un sottile e rassicurante manto nevoso? I veicoli di terra convenzionali non sono in grado, come le imbarcazioni o gli aerei, di sfruttare a loro vantaggio i complessi equilibri fisici delle sostanze che compongono il loro ambiente, galleggiando tranquillamente sopra i pericoli nascosti dalle strade ricoperte di neve profonda e ghiaccio. C’è stata però un’epoca in cui il problema era stato risolto, sembrava, per tutte le epoche a venire. Un anno lontano, a cavallo tra le due guerre, in cui i trattori americani viaggiavano non più su ruote ma impiegando l’energia dinamica di una coppia di viti di Archimede, simili a trivelle. Questo è il Fordson “Snow Devil” uno dei mezzi di trasporto più rivoluzionari del secolo scorso, un’invenzione geniale che, per un capriccio della storia, non diede inizio ad alcun tipo di rivoluzione.