La storia del ponte lungo un chilometro che conquistò la Dacia per l’Impero Romano

Si usa credere che, in ambito strategico, la conquista di una nazione nemica risulti essere particolarmente difficile, poiché ogni asperità nella conformazione del territorio, ciascun ostacolo degno di nota, diventa un paletto che grava in modo duplice sui propri sforzi: in primo luogo, rendendo più difficoltosa l’avanzata dell’esercito. E secondariamente rendendo più difficile, per non dire impossibile, un’approvvigionamento logistico che possa dirsi particolarmente efficiente. Così al tempo dell’imperatore Domiziano, dopo una serie di scorribande nel territorio imperiale ebbe modo di raggiungere il suo culmine dell’anno 85 d.C, quando venne deciso di affidare una spedizione punitiva al generale Cornelio Fusco. Ciononostante, fatto il proprio ingresso con le sue legioni nella stretta valle del fiume Timis, costui venne circondato e ucciso dal capo tribale Decebalo, assieme a buona parte dei suoi soldati. Il che costituì soltanto la prima di una serie di sconfitte, destinate a ripetersi ogni qual volta le forze provenienti da Roma s’inoltravano nel territorio di alcuni tra i loro più persistenti e caparbi avversari. Anche e soprattutto per l’ostacolo sostanzialmente invalicabile del grande fiume Danubio, vero e proprio avversario topografico di qualsivoglia iniziativa bellica nella zona corrispondente alle odierne Romania e Bulgaria. L’impero ereditato dal suo successore Nerva, che avrebbe regnato solamente per 16 mesi, era perciò inficiato dal significativo problema di una vulnerabilità dei suoi confini, tale da inficiare l’ideale entità del tutto invalicabile e monolitica del cosiddetto limes (limite) romano. Il che avrebbe rappresentato la prima preoccupazione del suo figlio adottivo e successore, l’uomo di carriera militare e provenienza iberica noto al secolo come Marcus Ulpius Traianus, il quale esattamente dopo 4 anni dal giorno in cui aveva indossato la porpora, decise sostanzialmente di averne avuto abbastanza. Quello che sappiamo dello svolgersi delle sue due successive campagne in Dacia, in buona parte desunto dai bassorilievi della conseguente colonna coclide (trionfale) eretta a partire dal 107 d.C, che si trova oggi tra la tomba del Milite Ignoto e la Basilica Ulpia, avrebbe quindi consistito dell’avanzata di due fronti paralleli, mediante la realizzazione di altrettanti ponti di barche oltre l’invalicabile corso d’acqua. Coordinate grazie al miglioramento ed ampliamento di un irto sentiero sospeso sulla riva destra fin dall’anno 33 d.C, lungo le alte scogliere di Kazan che giungono a costituire, nel punto di convergenza tra Balcani e Carpazi, la strettoia nota già all’epoca come Porte di Ferro (Vaskapu). Luogo giudicato perfetto, quasi 2.000 anni dopo, per la costruzione di una diga idroelettrica, ma tutt’altro che facile da attraversare mediante la tecnologia nautica del mondo antico. Il che non avrebbe impedito all’imperatore, personalmente al comando delle sue legioni, di avanzare lungo la strada maestra per la capitale regionale di Sarmizegetusa Regia, costringendo Decebalo, nel frattempo diventato re dei Daci, a una precipitosa resa e l’accettazione della condizione di cliente (vassallo) nei confronti dell’egemonia romana. Era l’anno 102 e Traiano, lungi da riposare sui letterali allori del proprio trionfo, giudicò che fosse giunto il momento di consolidare in modo irreversibile la propria egemonia nel territorio della Dacia. Così chiamò l’unico uomo che potesse realizzare la sua visione, dando ordine che fosse costruito un grande ponte. Il più notevole che l’umanità avesse mai visto fino a quel giorno, destinato a rimanere anche il più lungo per un periodo di almeno un millennio a seguire…

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Ziggy è il robot che precede l’auto elettrica per caricarla in un qualsiasi parcheggio

Si è soliti affermare che un qualsiasi tipo di tecnologia non è davvero alla portata di ciascuno finché non diventa democratica, pervadendo e diffondendosi ad ogni possibile diverso strato della società civile. Il che si applica a suo modo sia alle soluzioni innovative che alle fonti di alimentazione, intese come la materia prima che permette di far correre il cavallo metaforico della tecnologia incombente. Così come le normali stufe a legna, o le caldaie a vapore di epoca Vittoriana, non poterono realmente marciare a regime prima della funzionale implementazione di un sistema per la raccolta ed approvvigionamento, rispettivamente, di legna e carbone, lo stesso dilemma non può fare meno di sussistere nell’epoca corrente per quanto concerne la trasformazione del motore principale dei trasporti contemporanei, dal sistema termico a quello che consiste di galvanizzare una bobina rotante. Col che non voglio dire, certamente, che il concetto dell’auto elettrica sia in alcun modo totalmente nuovo, laddove sin dall’epoca in cui si cominciava a immaginare la scomparsa del cavallo dalle strade urbane, Gustave Trové riusciva a presentarne il primo esempio nel 1881 all’Esposizione dell’Elettricità di Parigi. Mentre un veicolo parimenti alimentato avrebbe continuato a detenere il record di velocità su quattro ruote almeno fino all’inizio del Novecento. Ma poiché tiranna in ogni tipo d’organizzazione pratica è la logica delle dinamiche di scala, ogni approccio d’implementazione sino a quel momento non può che essere considerato meramente preliminare. Dinnanzi all’imminente prospettiva di migliaia, e poi decine di migliaia di questi mezzi a motore per decine di chilometri quadrati una volta che non potrà esserci alta scelta, con la conseguente necessità di riprogettare la cognizione stessa del concetto stesso di una città. Oppure… Semplicemente… No?
Colonnine ovunque, colonnine da nessuna parte. Parcheggi con settori recintati, dedicati unicamente a chi possiede la scintilla prometeica di Edison deificato sotto il cofano del proprio metallico destriero. Un problema, soprattutto, in questo periodo di transizione, in cui soltanto gli svantaggi gravano sulla stragrande maggioranza della popolazione, ed un approccio in grado di ridurre un tale impatto potrebbe essere una via d’accesso alla serena convivenza tra questi due estremi. Il che potrebbe anche costituire il fondamento operativo alla base del sistema semi-autonomo ZiGGY della compagnia californiana EV Safe Charge, così denominato forse più per un omaggio estemporaneo a David Bowie che in osservanza a qualche tipologia di misterioso acronimo (del resto, ditemi voi di che cosa!) essenzialmente identificabile come un ingombrante cassone su ruote, dotato tuttavia di un suo notevole sistema d’intelligenza artificiale. Sufficientemente pronto da riuscire a interpretare le chiamate ricevute tramite un innovativo tipo di applicazione mobile a corredo, utilizzata da ipotetici abbonati futuri per segnalare il proprio arrivo presso un luogo di stoccaggio ed abbandono temporaneo delle proprie auto, prima di recarsi a sbrigare le proprie faccende in centro o altri luoghi affollati della vasta metropoli brulicante. Con conseguente risveglio delle sue sinapsi robotiche e relativo impianto semovente, naturalmente elettrico, per spostarsi dalla stanza in cui si trova fino al posto macchina prenotato, con gli schermi accesi per mostrare in rapida sequenza immagini e spot pubblicitari di varia natura. Finché all’arrivo dell’auto elettrica potrà finalmente farsi da parte, assolvendo il singolare compito per cui è stato costruito…

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Auto elettriche con il pantografo da tram: il futuro del car-sharing negli anni ’70

Guido la candida cabina lungo il corso del Keizersgracht, verso un piacevole pomeriggio di shopping e un pranzo con gli amici. Dalle ampie finestre che circondano la postazione, scorgo agevolmente fino al minimo dettaglio dei dintorni, in modo incrementato ulteriormente dalla marcia rallentata del mio stretto e verticale mezzo di trasporto, almeno per qualche minuto ancora. Raggiunta una distanza ragionevole dalla meta finale, quindi, scorgo il parcheggio designato meta ultima della trasferta, dove con rapida manovra del volante, instrado la curiosa vettura sotto la rotaia che si occuperà di ricaricarla. Odo il suono, apro lo sportello. Un rapido passaggio della chiave magnetica per confermare la riconsegna, mentre un computer all’altro capo della linea telefonica si occupa d’inviare il conto di un centesimo al minuto ai contabili della mia banca. Faccio un passo e sono libero, senza un minimo pensiero in merito ai disagi dell’autista o l’inquinamento.
Perché il progresso tecnologico possa verificarsi in maniera improvvisa, occorre in genere la convergenza di un minimo di tre fattori: la necessità, l’intenzione e l’ingegno. La prima da parte del grande pubblico, opportunamente percepita dall’opinione comunitaria in funzione di un qualche disagio inerente; la seconda opportunamente veicolata dal consorzio di coloro che decidono, ovvero politici, consiglieri, amministratori comunali; ed il terzo, generato dall’enorme potenziale cogitativo del potentissimo cervello umano, dimensione parallela ove ogni cosa viene concepita, trasformata, instradata in un sentiero logico apparente. In altri termini, nessun grande balzo in avanti è possibile in tal senso, a meno che operi al timone un qualche tipo di persona eccezionale, quello che viene convenzionalmente definito un “genio”. Certe volte, quindi, il contributo di costui alla società indivisa viene messo sopra un piedistallo, offrendogli ringraziamenti imperituri. All’opposto il caso in cui sia rifiutato categoricamente, con conseguente disonore ed accantonamento di ogni possibile cambio di paradigma (nella quale contingenza, convenzionalmente, si usa dire: “Peccato, è nato un paio di generazioni troppo presto). Molto più frequente di entrambe le alternative, d’altra parte, è un tipo di occorrenza situata tra gli estremi di questi due punti, magari parzialmente accettabile per i suoi contemporanei, contrariamente all’opinione postuma dei loro discendenti. Oppure funzionale al 100%, ed invero utile a voltare pagina, se non che l’usuale resistenza ed inedia della società, come potenti elastici, l’avrebbero portata dolorosamente indietro.
Mettiamo quindi sotto i nostri cannocchiali questa città di Amsterdam verso la fine degli anni ’60, per avere un significativo laboratorio con spunti d’analisi sulla nostra attuale condizione degli ambienti urbani. Affinché basti osservare un tale mondo, tramite i filmati d’epoca e il racconto della gente, per notare come l’avvento dell’automobile, e la frenesia collettiva assieme al desiderio molto umano di possederne una, possa rapidamente stritolare un sistema che per tanti anni aveva funzionato senza il benché minimo inciampo. Quello espresso da un antico dedalo di strette stradine, canali, vicoli e piazzole dal parcheggio quasi inesistente, un tempo percorso dai suoi cittadini unicamente a piedi, oppure in bicicletta. Finché la quiete non venne interrotta dal suono di un singolo motore, poi alcuni, infine moltissimi, verso la creazione di quel tipo di caos estremamente familiare che, per molti versi, sussiste ancora. Un disegno dal quale sarebbe emersa, laboriosamente, la figura di un possibile salvatore…

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L’evoluzione tecnologica di un’autostrada per i salmoni

In questo mondo dove tutto è collegato, un evento dalle proporzioni infinitesimali può portare a conseguenze spropositate. Come il refolo di vento che fa muovere la pianta, disturbando la farfalla che si sposta sopra un cumulo di terra. Che subendo il peso dell’insetto, inizia progressivamente a sgretolarsi, trascinando verso il fiume Fraser un piccolo sassolino dalla superficie levigata. La pietruzza ne colpisce un’altra lievemente più grande, raggiungendo il bordo esterno del canyon di Bar Bar, nella Columbia Inglese. È il 23 giugno del 2019, nonché l’inizio di una frana senza precedenti: 85.000 metri cubici di pietra scivolano in acqua, impedendo totalmente il normale passaggio dell’acqua. Per diversi mesi, data la collocazione remota dell’evento, nessuno sembra accorgersi di nulla. Finché i pescatori della località di Lillooet, situata a meridione del sito, non riportano qualcosa di assolutamente inaspettato: per quest’anno, la migrazione di ritorno dei salmoni nati presso le loro regioni nuziali a monte della foce non si è manifestata. Quasi come se ogni singolo pesce, di quelli partiti in primavera, fosse andato incontro al fallimento della sua missione. Preoccupazione, ansia, dispiacere costituirono l’immediata reazione di tutti: poiché l’uomo può accettare di distruggere la natura, se ciò può essere risolutivo ai fini di un guadagno economico o personale. Ma quando è essa stessa, a fare fuori il proprio patrimonio biologico, ciò diventa quasi sempre inaccettabile. Richiedendo l’intervento di una mano in grado di correggere il disastro. Grazie all’uso, neanche servirà specificarlo, della tecnologia.
Ora non è sempre semplice per i membri operativi dell’Ente Ittico e Oceanico del Canada selezionare una via d’accesso a soluzioni pratiche per l’ampio ventaglio possibile dei propri problemi. Se non che in questo caso specifico, uno o più membri del Comitato d’Intervento Speciale stabilito per la frana di Bar Bar dev’essersi ricordato delle lunghe ore trascorse a navigare su Internet in un periodo collocato attorno all’anno 2014 fino alla scoperta di una curiosa idea, con una spropositata risonanza mediatica ed ampie trattazioni online sui social e blog, incluso quello che state leggendo. Sto parlando chiaramente della Whooshh di Seattle, stato di Washington, e della loro intrigante soluzione del can(n)one “spara-salmoni”. Applichiamo a questo punto l’importante distinguo, poiché loro specificarono e continuano ancor oggi a rendere palese, che la scelta di chiamarlo “canone” e non “cannone” è motivata da desiderio di mantenere le distanze da quel tipo d’arma, giudicata deleteria poiché alla base del concetto stesso dei conflitti umani. Senza neppur contare il fatto che il dispositivo in questione a tutto assomiglia fuorché una bocca da fuoco, essendo piuttosto rappresentabile essenzialmente come un lungo tubo, all’interno del quale inserire uno ad uno i pesci incapaci di nuotare verso l’entroterra, per fargli raggiungere l’altro capo della diga/barriera/ostruzione mediante l’utilizzo di un sistema pneumatico. Storia vecchia, se vogliamo, soprattutto rispetto al nuovo modello creato e più recentemente messo in opera per la casistica fin qui descritta. Poiché ADESSO, finalmente, i salmoni vengono indotti a salire a bordo senza nessun tipo d’intervento umano…

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