Le leggendarie patatine dei penitenziari americani

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Secondo la leggenda, avvenne un giorno che un dipendente di un piccolo stabilimento per la produzione di snacks della regione di New Orleans, che stava trasportando un carrello con i condimenti per il bancale del giorno, inciampò e cadde. Le polverine speziate si mescolarono quindi tra di loro e i dipendenti, preferendo salvarle dalla spazzatura, verso l’ora di pranzo presero la strana mescolanza a grandi pizzichi, la portarono in tavola e la misero sopra le proprie personali patatine. C’è il gusto della paprika, quello della salsa barbecue, il sapore dello zenzero e del jalapeño. Il tutto mescolato in un mistico melange, in grado di rapire i sensi e trasportarli dentro un mondo d’estasi cibaria post-industrialista. Nacquerò così, secondo la leggenda, le Voodoo Chips della Zapp, un prodotto particolarmente diffuso negli stati del Sud, ma che risulta letteralmente sconosciuto altrove, tranne che in alcuni fornitissimi autogrill o in alternativa, grazie alla copia che ne ha realizzato il Keefe Group, compagnia detentrice di un importante monopolio. Che potrebbe anche valere, a voler essere (molto) conservativi, svariati miliardi di dollari l’anno: fornire il cibo a tutti coloro che non possono, per cause di forza maggiore, scegliere dove comprarlo. Creando una sorta di piacevole dipendenza… Finché, una volta ritornati liberi, come capitato al protagonista di questa intervista della NBC, un ragazzo tatuato di nome Terry, non possono far altro che procurarselo su eBay. Ed usarlo, ancora una volta, per preparare il proprio piatto preferito…
Negli Stati Uniti c’è un modo in dire. In realtà, ce ne sono diversi, ma questo è particolarmente rilevante per l’argomento di oggi: “The WHOLE shebang” ovvero, traducendo assai liberamente: “Tutto quanto il mucchio/cucuzzaro/bastimento”. Come spesso capita in simili casi, l’etimologia specifica risulta essere tutt’altro che chiara, e non c’è praticamente più nessuno al giorno d’oggi che ancora si preoccupi di chiedersi cosa esattamente fosse, a conti fatti, uno shebang. Secondo Walt Whitman, poeta di Long Island dell’epoca della guerra civile, si trattava di una sorta di rustica abitazione costruita dai disertori della società in fiamme all’ombra dei cespugli, il più lontano possibile dagli spari di moschetto e i colpi di cannone. Nell’utilizzo del celebre scrittore Mark Twain invece, risalente al 1875 e collocato nel romanzo Roughing It, si sarebbe trattato di una carrozza con dello spazio extra per i passeggeri, un versione modificata dell’inglese sharra-bang, a sua volta una derivazione del francese char-à-bancs. Mentre ciò che conta tuttavia, nell’odierno impiego di una tale terminologia, è molto spesso il sentimento: accettare i fatti della vita l’uno dopo l’altro, senza mai fermarsi un attimo a pensare, senza separare il buono e il bello dal cattivo, il brutto e lo sgradevole, ma fagocitare tutto quanto e trarne quanto meno, un’occasione di apprendimento e crescita personale. C’è sempre una pepita d’oro, persino nelle più oscure e orribili miniere. Ciò che occorre, è illuminare i passi che si compiono con la torcia inestinguibile dell’ottimismo, sempre, addirittura quando si è contratto un debito col karma e con la società civile.
È un fatto noto che gli Stati Uniti abbiano, fra tutti i paesi del mondo, uno dei tassi d’incarcerazione più alti in assoluto. È stato calcolato come in media un maschio bianco abbia in quel paese una possibilità su 12 di finire dietro le sbarre nel corso della propria vita, che cresce fino ad 1 su 6 se è di etnia ispanica, e raggiunge addirittura l’1 su 4 nel caso, tristemente noto, del lungo braccio della legge Vs. gli afroamericani. Ciò succede per le ragioni più diverse: per frode, furto, aggressione, omicidio. Per ragioni reali o qualche volta, gli errori umani di giurie fallibili, nonostante le prerogative. Per il proprio egoismo! Oppure, a causa dell’altrui crudeltà. Resta il fatto che con una parte tanto considerevole di cittadini rinchiusi attraverso i differenti gradi della sicurezza imposta, esista una sorta di cultura parallela, come quella dei vampiri e dei licantropi, o degli agenti/hacker del film Matrix, che prospera e si rinnova in condizioni di difficoltà, generando gli strumenti per combattere (bonariamente) il sistema. Punizione? Meditazione? Rieducazione? Niente di tutto questo sarebbe possibile, se da un estremo all’altro dell’esperienza tutto quello che potesse esserci fosse un senso di raccoglimento e lo spegnimento totale delle sinapsi ritenute, a torto, secondarie. Così rinasce quotidianamente, persino in situazioni tanto avverse, il fascino universale della cucina.

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Il carro armato che sfidò Mad Max

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200 milioni di dollari. Potevi (quasi) usarli per lanciare un razzo in orbita geostazionaria. Ci sono volte, nel mondo cinematografico, in cui l’alto costo di produzione di una pellicola non è immediatamente palese al pubblico in sala. Ad esempio ogni qualvolta c’è un impiego del computer, non tanto finalizzato alla creazione di esplosioni più grandi o improbabili creature aliene, bensì per trasformare un borgo dei nostri tempi nell’antica capitale di un regno, oppure posizionare le notevoli mura di un castello antico proprio lì sulla collina artificiale, dove ti servono per la determinata scena. Ovvero tutti effetti di quel tipo che “non si deve notare” ma che sono in grado di richiedere comunque un alto grado di perizia, e quindi la partecipazione al progetto di un’intera equipe specializzata. In altri casi, il fenomenale rischio finanziario in cui lo studio ha scelto d’imbarcarsi non potrebbe essere più chiaro, arrivando in effetti a connotare molti dei valori estetici di questa o quella scena. E quando ciò si verifica, generalmente, c’è di mezzo un qualche inseguimento su ruote! Dopo tutto, l’industria dell’entertainment di Hollywood ha una lunga tradizione in materia, con un intero mestiere, quello dello stuntman, dedicato proprio al perfezionamento della guida “da film” nonché un vasto ventaglio di fornitori in grado di realizzare senza indugio qualsiasi mezzo semovente che l’umana fantasia possa riuscire a concepire. Il che ha portato sugli schermi di proiezione, nei anni precedenti all’invenzione del CG, un repertorio talmente vasto di corse spericolate, tamponamenti e slalom tra il traffico e i pedoni cittadini, che ormai persino l’uomo senza patente non avrebbe alcun problema ad individuare eventuali imprecisioni nello svolgersi dell’ennesima carneficina (non)stradale. Il che lascia facilmente intendere come sia stato possibile raggiungere una tale cifra spropositata, nella realizzazione di quel film dell’anno scorso che la cui totale durata fu praticamente un solo lungo, caotico inseguimento.
Fu evidente quasi subito, dal momento dell’uscita, che Mad Max: Fury Road sarebbe presto entrato nella storia dei cult movies. Ecco una creazione appassionata dal ritmo serrato, straordinariamente curata dal punto di vista estetico, e forse quel che è ancora meglio nel suo genere, sostanzialmente priva di uno sviluppo narrativo che rallenti il ritmo, escluse un paio di momenti in cui si espongono i lunghi e travagliati trascorsi dei protagonisti più o meno umani del racconto. Il che non è facile, visto come a rubargli la scena e i primi piani, per ciascun singolo minuto dell’adrenalinica vicenda, ci fossero alcuni dei veicoli più straordinari che siano mai stati guidati innanzi ad una videocamera, come la spropositata Macchina da Guerra di Furiosa, ovvero l’autotreno della Tatra cecoslovacca migliorato per l’occasione con l’applicazione di teschi umani, la pala di uno spazzaneve, pannelli corazzati e due pezzi di Volkswagen Beetle sopra il rimorchio, usati come posizioni di tiro per i cecchini. O le Plymuth Sedan rugginose trasformate in dei mostruosi porcospini, grazie all’applicazione di un numero di aculei simili a spade, del tutto casualmente pari a quelli di un formichiere africano… Ma il pezzo forse più incredibile di questa assurda collezione dovrà rimanere il Pacificatore del capo di Bullet Farm, rabbiosamente interpretato da un Richard Carter incoronato di bossoli trasformati in copricapo, e costituito per la parte superiore di una Chrysler Valiant Charger degli anni ’70, mentre sotto c’era…Un… Qualcosa di cingolato. Ed assolutamente fuori dal comune, forse più di ogni altro singolo aspetto del film.

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La maggior paura di chi tiene le formiche in casa

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Mikey Bustos, cantante filippino nato in Canada e reso celebre dal format internazionale di Got Talent, oltre ad una selezione di simpatiche canzoni rap sulla cultura e la storia del suo paese, è famoso per un hobby assai particolare. Che soprattutto negli ultimi anni, gli ha permesso di diventare un noto divulgatore scientifico in aggiunta al suo lavoro principale, oltre a fornirlo di un reddito aggiuntivo niente affatto indifferente. Guadagnato attraverso la vendita di alcuni terrari “a prova di bomba” da cui nessun insetto, neppure la reincarnazione di Harry Houdini, dovrebbe poter trovare vie di fuga. Così quando addirittura lui si preoccupa del futuro delle sue inquiline a sei zampe, come evidente dal presente video, diventa chiaro che siamo di fronte ad una situazione molto, MOLTO seria. Come del resto fin troppo spesso capita, quando si parla di Solenopsis, il genus a cui appartengono le molte centinaia di specie di formiche cosiddette “ladre” per la loro capacità di introdursi all’interno delle altrui colonie, facendo incetta di quanto custodito al loro interno, incluso cibo, larve, regine. Un tipo di vita che sarebbe impossibile, se esse non avessero la dote di spostarsi tutte assieme, all’improvviso, non appena la fonte della loro iniqua prosperità dovesse perire, o rendersi conto dell’atroce inganno. Figuratevi, dunque, la scena ipotetica: lui che torna a casa dall’ultima sessione in studio. Per trovare un foro rosicchiato nella guarnizione di chiusura del contenitore, ormai rimasto vuoto, e l’ultimo codazzo di minuscole creature intente a correre dentro una crepa del soffitto, trascinandosi dietro un’intera generazione in forma d’uova pronte ad entrare nello stadio larvale. Soltanto per conoscere un vita di selvaggia, atroce, pericolosa Libertà…
Si può ipotizzare molto in merito al carattere di una persona sulla base di quale sia il suo animale domestico d’elezione. Chi tiene un grosso cane, dirlo non è affatto un’azzardo, amerà la vita all’aria aperta e fare conoscenza con gli altri proprietari di quadrupedi di varie dimensioni. Colui che ha in gabbia un pappagallo, probabilmente preferisce conversare con gli squilibrati, ci sente poco e/o è dotato di sonno particolarmente pesante. Il costruttore dell’acquario, al suo totale opposto, vive sulla base del precetto in base al quale “il Silenzio e d’Oro” un po’ come la pentola di carpe sul finire dell’arcobaleno. Sui gattofili invece, NOI amanti dell’abbaio scriteriato preferiamo non esprimere opinioni. Ma è l’estimatore delle scaglie, l’erpetologo per hobby, colui che viene in genere considerato l’outsider, il fuori luogo e il fuori tempo, addirittura fuori dalla tramontana. Perché, così pensano i non iniziati, come puoi legare con le bestie dalla lingua biforcuta che non ti amano, né considerano, e in molti casi neanche riconoscono, se non come fonte di cibo occasionale!? E proprio ciò è la base dell’idea, in funzione della logica presunta, secondo cui chi getta topi vivi in un terrario, per nutrire la sua biscia, boa o cobra reale, sia il più estremo degli amanti di animali, poiché apprezza senza essere ricambiato, accettando lietamente di esulare dalla umane convenzioni. Ma che dire, invece, di chi nel recinto sceglie di gettare scarafaggi… Dentro al brulicante inferno, riscaldato dalle moltitudini, e battuto da molte migliaia di zampette, tutte parte di quell’unica decorazione per l’appartamento: un vero e proprio formicaio, trasparente. O per usare il gergo, un formicario per la gente! (Perché facile da costruire ed acquistare, utilizzare, ragionevolmente conveniente).
Ora, è ovvio; nessuno ha ma detto che la fattoria delle formiche, quel tipico esperimento consigliato per i corsi scolastici di scienze, sia soltanto un passatempo per bambini. Da condurre con il sussidiario accanto, per approfondire qualche minima nozione sulla biologia. Tutti amano le cose belle, e non c’è niente di più funzionale, operoso ed intrigante, che un ammasso di creature intente a fare ciò che gli riesce meglio: sopravvivere, lasciar passare i giorni e i geni. Meditando sul futuro, e sul da farsi. Finché un giorno quel pensiero non diventa: “Come posso fare a liberarmi dalla tirannia dell’essere gigante?” E allora, sono guai…

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Come è possibile comprare per sbaglio una mucca?

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L’avete mai considerato? Il tipico battitore d’aste d’Oltreoceano non è come noi. Quando si trova sopra quel palco, impugnando il suo martelletto, egli si trasforma nella personificazione di…Qualcosa. Di grande. Chiamiamolo, se vogliamo, il potere delle vecchie istituzioni del commercio. Ascoltarlo mentre parla al ritmo di 250 parole al minuto, ripetendo sempre le stesse cose, e snocciola i suoi numeri: “Ho 100, chi offre 100 ed ¼. Cento, cento ed ¼, chi offre cento ed ½? Cento ed ½, cento ed ½…” Può trasportarti in un mondo del tutto diverso. In cui il denaro non ha valore, mentre a comandare è soltanto l’ipnosi del desiderio, quel sentimento che poeticamente prende il nome di Want.
L’inglese non è difficile, puoi persino combinarlo con l’italiano. “To tell” vuol dire narrare; “Vi” è  pronome personale di seconda persona plurale. Vogliate seguirmi, dunque, mentre vi-tello una storia. È la vicenda di un calf (vi-tello anche lui) che a luglio dell’anno scorso ebbe la dubbia fortuna di andare in Tv. Ma furono il modo, e la ragione di un tale evento, a caratterizzare l’intera questione. Perché l’animale fu messo in vendita all’asta, e quindi successivamente ricomprato, dalla stessa identica persona: John Elick, mandriano texano. per la sconclusionata mediazione di Bert detto “la Macchina” Kreischer, noto comico, attore e conduttore di reality show statunitense. Che in quel frangente era occupato, assieme ai suoi due migliori amici, nella realizzazione della nuova puntata di Trip Flip, un programma che l’ha portato un po’ ovunque, dallo Utah al Sud Africa, dall’Alabama alla Tanzania. E poi naturalmente lì, nello stato de “il Gigante” (una regione, per l’appunto, gigante) ovvero il Texas del grande Sud, dove ogni aspetto del commercio guadagna riflessi cromatici differenti, e costringe chi viene da fuori a fare una grande, assoluta attenzione. Ora naturalmente, come in tutti gli show realizzati per il pubblico ludibrio, non manca la più scontata delle obiezioni: c’era un copione, era tutto preparato. Mentre lo stesso protagonista, in alcuni dei suoi numerosi podcast prodotti per il pubblico del web, ha sempre giurato che la vicenda si fosse svolta esattamente così, come la vediamo. E poi va pur detto: la sua crisi di riso nervoso, accompagnata dalle goliardiche consolazioni degli amici, sembrano molto sincere.
La scena si svolge in un capannone allestito con lo specifico intento di tenere un’asta di bestiame, di quelli che vengono comunemente impiegati nelle zone rurali di quel paese o tirati su in forma provvisoria, durante le fiere agricole locali. Secondo alcuni siamo ad Abilene nella contea di Taylor, ma non è sicuro. Invece la premessa è che Kreischer, come suo solito, si è lasciato trascinare dagli eventi, ed ha promesso all’ospite e guida locale John Elick che avrebbe fatto di tutto, onde assicurare che ciascuno dei suoi vitelli fosse venduto a un buon prezzo. Incluso, a quanto pare, fare lui la prima offerta, sedendosi tra il pubblico e alzando la mano, un gesto notoriamente inequivocabile in tali circostanze. Soltanto che… Ed è questo ciò che lui non aveva affatto considerato, la mucca in questione è dotata di un pool genetico a quanto pare di gran classe, tanto da porre il suo prezzo di base al rispettabile gruzzolo di 1.400 dollari. Non proprio una cifra che invoglia al rilancio. Così il battitore continua la sua nenia, riconferma più e più volte la cifra. Un membro tra il pubblico, che aveva incontrato il suo sguardo, fa cenno che non gli interessa. E così alla velocità del tuono, BAM! La mucca è venduta. Kreischer spalanca gli occhi, guarda gli amici e quindi scandisce le seguenti parole: “Ho comprato una mucca. Mia moglie mi ucciderà.”

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