Se il dispositivo di arresto impiegato all’interno di un grande vascello può corrispondere, in chiave d’interpretazione anatomica, a un importante arto del corpo umano, come un braccio o una gamba, è naturale pensare ad esso come l’amico affidabile che non tradisce, lo strumento valido a risolvere il problema di arrestare, e mettere al sicuro lo scafo della propria navigazione in temporaneo stato d’arresto. Persino la tecnologia costruita rispettando un codice deontologico che tende all’eccellenza, tuttavia, incamera inerentemente il seme del disastro che incombe sulla progressione delle circostanze, in modo particolare quando in essa è insita la problematica gestione di forze, pesi e misure sulla scala di decine, quando non addirittura centinaia di tonnellate. Esistono così gli spasmi muscolari, gli improvvisi sussulti ovvero le visioni mistiche che cambiano le carte in tavola, trasformando certezze della mente in attimi di crisi la cui ultima risoluzione, nella maggior parte dei casi, può apparire drammaticamente deleteria: osserva, assieme ad altri due milioni e mezzo di persone. La scena è di quelle che hanno circolato su Internet per lungo tempo, grazie alla natura chiaramente impressionante delle immagini. Eppur nessuno, sfortunatamente, sembra riconoscerne la provenienza; il che può essere di certo motivato dalla gravità del rischio corso, assieme al danno monetario di una tale contingenza, difficilmente definibile come l’ora migliore dei coinvolti marinai. Un argano di orientamento orizzontale, del tipo usato in genere sul ponte delle grandi navi da trasporto, campeggia al centro dell’inquadratura in corso d’opera, mentre la pesante catena che vi gira attorno lentamente avanza, producendo conseguentemente un familiare suono. Il rombo sferragliante, e reiterato, che ad un tratto sembra crescere di frequenza mentre ogni cosa accelera, nella ragionevole realizzazione di un girone dell’inferno, trasportato innanzi agli occhi spalancati dell’osservatore. Poiché l’enorme catena, continuando a srotolarsi, genera un attrito impressionante, che ben presto da l’origine a copiose quantità di fumo, scintille e infine fuoco vivo, benché non trovi fortunatamente alcunché di combustibile nei suoi nautici dintorni in puro acciaio. Pericolo. Terrore. Perplessità: che cosa abbiamo visto succedere, esattamente? Come mai il marinaio incaricato di maneggiare il meccanismo, all’evidente degenerazione degli eventi, non si è allontanato quanto prima ad una ragionevole distanza di sicurezza? Come spesso avviene in tali casi digitalizzati, il diavolo si annida nei dettagli e quello che traspare agli angoli della saliente inquadratura. Poiché al diradarsi della cortina fumogena, tutto ciò che resta è quell’acuta consapevolezza del danno subìto, nel momento in cui l’ultimo tratto di catena (in inglese chiamato “the bitter end“) si è schiavardato dal bullone di arresto, andando dietro all’uncinato orpello sito al termine di tale lunga linea. Per un danno misurabile, nella maggior parte dei casi, attorno al milione di dollari e fino al doppio di una tale significativa cifra…
Il timbro elettrico di “Africa” suonata usando il sacro fulmine di Zeus
Una casetta bianca su due piani, nella placida periferia della città. Varcammo quella soglia con tutto l’entusiasmo di chi da l’inizio ad una nuova vita, giusto mentre l’impresa dei traslochi terminava di disporre i mobili secondo lo schema precedentemente fornito. Guardai lei con espressione lieta: l’affetto nei suoi occhi, ogni problema, ogni dubbio rimasto a Seattle, oltre l’uscio di un’esistenza ormai quasi dimenticata. Tra queste mura, speravamo, avremmo finalmente trovato la felicità. Trascorso un giorno intenso ad aprire e svuotare scatoloni, rimandando al giorno successivo il giro per salutare i vicini, stanchi ed asociali ma indubbiamente soddisfatti, ci sdraiammo finalmente nella grande camera da letto con la finestra sul giardino. E giusto mentre stavo per chiudere gli occhi, cominciò. Dapprima un tenue lucore, per l’effetto della lampada posta sul portico dall’altra parte della staccionata. Subito seguito da quel rumore, assai difficile da tradurre in parole; come un miliardo di mosche, liberato all’improvviso da una gabbia sospesa tra l’Inferno e il Paradiso; come il canto di un gallo elettrico, sognato da un androide all’ora dello spuntino di mezzanotte. Ma le proporzioni del problema diventarono finalmente, davvero chiare nel momento in cui l’albero azzurrino prese a fare capolino oltre la linea del davanzale, mentre il grido modulato dei dannati saliva e scendeva di tono: il concerto aveva avuto inizio e non c’era niente, a meno di gettarci nelle fiamme di Lucifero in persona, che potessimo riuscire a fare per riuscire a fermarlo. Guardai mia moglie, il cui volto lampeggiava come la sirena della polizia in una notte di Venere, pianeta privo di satelliti o lune. Le sue labbra si muovevano leggermente come in una sorta di trance, pronunciando in modo inudibile: “I bless the rains down in Africa… The wild dogs cry out in the night…” I tamburi battevano sulla distanza, probabile traccia digitale aggiunta al suono orribile dell’elettricità. Una cosa, in quel saliente attimo, fu chiara oltre il benché minimo dubbio: di notti come queste, ce ne sarebbero state MOLTE altre…
C’è una storia certamente, nell’evoluzione progressiva del celebre canale YouTube di Franzoli Electronics, il cui campo d’interesse consiste nel produrre cover elettroniche di vari capolavori della musica Pop, Classica e Ludica dei nostri giorni. Passato repentinamente dalla produzione nella tenebra di un apparente laboratorio o scantinato sotterraneo al palcoscenico erboso del suo giardino, creando un’interfaccia polifonica notevole con la convivenza convenzionale del buon vicinato. Una settimana, due settimane, 1 mese fa, 2 mesi fa… Ad ogni occasione, completato il sequencing mediante software di sua specifica invenzione, dopo l’ora del tramonto a immettere le note di quanto richiesto dal suo pubblico di Internet. Dentro il computer che comanda, da una rispettosa distanza di sicurezza, il più notevole, terrificante, pericoloso strumento musicale della Terra. Avete una chiara idea, a tal proposito, di quanto sia potente un MILIONE di watt? A quante migliaia di lampade a LED brevemente accese, a quante auto elettriche parzialmente ricaricate, a quanti pannelli solari possa corrispondere? Perché nel mondo dell’elettricità, un conto è la potenza e tutt’altra storia la durata. Ma esiste un metodo, magnifico e perfetto, per scambiare la prima con la seconda, “trasformandola”, letteralmente, nella sublime altresì perfetta realizzazione della potenza senza compromessi di sorta. Naturalmente un trasformatore, al giorno d’oggi, è un oggetto semplice, sicuro e razionale, costituito da una scatola di plastica con un pezzo di ferro all’interno, che agisce come punto di raccordo per l’oscillazione elettrica del flusso generato all’interno delle pareti di casa. Ma non fu sempre così e un uomo, tra tutti, risulta responsabile di aver lasciato entrare alla fine del XIX secolo, su una scala totalmente differente, quella possente luce oltre l’uscio della conoscenza pregressa umana. Quell’uomo era Nikola Tesla, il carismatico, misterioso, spregiudicato scienziato serbo-americano…
L’anguilla col becco d’anatra che ha più vertebre di una balena
Orribile è l’aspetto della tipica creatura che riemerge, quando i pescatori con la rete a strascico sbagliando le misure, prendono di mira quegli abissi inesplorati che precorrono in maniera biodinamica, nell’ideale progressione dell’oceano, gli affollati e più desiderati branchi dei visitatori della superficie. Sotto il pelo e dietro il muro, metaforico, d’oscurità che interferisce con la percezione sensoriali delle cose, almeno fino a quando tali esseri non compaiono sul ponte della nave, innanzi all’occhio spalancato, e inorridito, degli esseri umani. Ma sono a presentarvi pure il caso, statisticamente alquanto raro, che quei pesci si presentino con un profilo differente: strano, certo, ma capace di suscitare quell’innato senso di curiosità che è per certi versi l’antidoto, e portale contrapposto, alle visioni dell’inferno in Terra che appartengono alle rane pescatrici con la faccia gonfia e zannuta. Puoi toccarla, accarezzarla, giungere persino a parlargli (e lei sembrerà rispondere, con le fauci lievemente aperte che completano il profilo ultramondnano) Nemichthys larseni, o scolopaceus, queste le varianti più spesso incontrate, dell’anguilla che in gergo marinaresco prende il nome di “becco” “d’anatra” o per gli anglofoni di “snipe” il genere d’uccello che in Italia siamo soliti identificare con la scolopacide, anche detta beccaccia comune. Placido e armonioso essere, particolarmente quando danza per attrarre il verme con il battere dei grossi piedi tridattili, le cui somiglianze con tale versione sottomarina finiscono piuttosto presto, quando si prende nota dell’estendersi di tale creatura fino a 150-160 cm, con una larghezza comparabile in diversi punti a quella di una matita. Dimostrandosi l’essenza, in altri termini, dell’essere più lungo in proporzione alla larghezza di qualsiasi altro animale terrestre, frutto delle situazioni ambientali piuttosto estreme della zona batipelagica che è solito chiamare casa propria, tra i 300 e 600 metri di profondità. Con fino a 750 ossicini e quasi altrettante spine dorsali (record assoluto nel regno animale) ad ulteriore chiarimento di quel record anatomico assolutamente privo di concorrenti. Per un pesce che, spostandosi in modo passivo grazie alle correnti oceaniche, lascia soltanto la sua lunga bocca semi-aperta contando sulle centinaia di minuscoli denti, sottili come capelli, per far impigliare in quantità sufficiente gli invisibili microrganismi di quel grande brodo vivente che è l’oceano, di cui entusiasticamente si nutre. Senza dover fare troppo affidamento predatorio sui suoi occhi sovradimensionati, comunque ragionevolmente inutili alle oscure profondità ove mette in pratica la sua particolare scuola di sopravvivenza. Finché l’incidente involontario di un pescatore, teso a guadagnarsi un ragionevole profitto, non finisce per portarla in superficie dove in breve tempo, inevitabilmente, muore.
É l’effetto del massiccio differenziale di pressione, questo, che impedisce all’ideale sirenetta dell’oceano di fare ritorno ai palazzi della propria gioventù, una volta che ha sperimentato sia pur attraverso un velo d’acqua lo sguardo indagatore della scienza. Così abbandona la scintilla che riusciva a farne ciò che era; nella riconferma del processo, tristemente oceanico, che tutt’ora c’impedisce di conoscere realmente a fondo le abitudini di simili misteriose creature…
Londra e il culto mai cessato del biciclo dall’enorme ruota
Corsi e ricorsi, arbitrari punti situati lungo il moto circolare delle Ere, che a intervalli sorprendentemente regolari tornano a ripresentarsi sulla strada del progresso umano. Così mode, sport, divertimenti, dopo un tempo di ricarica nel dimenticatoio della società, riemergono dall’erba fitta, sporgendo come fossero la cima di una quercia dalle molte ramificazioni strutturali. É mai possibile, di contro, che qui vinca la stabilità rispetto all’onda distruttiva del progresso, continuando a mantenere quella porta spalancata, affinché gli appassionati di un particolare campo non abbiano il bisogno di mutare le proprie predisposizioni e preferenze personali? Soltanto se alla corsa circolare del trascorrere del tempo riuscissimo a far corrispondere le rotazioni a un ritmo equivalente di una seconda ruota, più piccola ma non per importanza, che per oltre un secolo ha seguito il movimento di costoro che, per una ragione oppur l’altra, hanno scelto di custodirne l’eredità.
Penny e farthing (in italiano, “fardino”) due monete contrapposte, l’una grande il quadruplo dell’altra che talvolta risultava fabbricata, per l’appunto, dal taglio e la fusione del più basico e diffuso conio degli inglesi. Parole che s’incontrano, piuttosto, nella tecnica veicolare di un famoso mezzo di trasporto, storiograficamente associato all’utilizzo da parte del tipico gentleman di quel paese, con tanto di tuba, scarpe con le ghette e fluenti code di un’elegante abito da sera. Benché il biciclo, come viene per antonomasia detto in lingua italiana questa peculiare alternativa al concetto di bicicletta, sia in effetti un’invenzione francese ed in particolare del meccanico parigino Eugène Meyer nel 1869, stanco di sobbalzare dolorosamente sul rudimentale velocipede dotato di pedali ma privo di sospensioni di quell’epoca, che oltre la Manica erano soliti chiamare non a caso boneshaker (let. “scuoti-ossa”). Così che creando per primo il concetto di una ruota che mantiene la sua forma grazie alla tensione di una serie di raggi, ed in funzione di ciò può essere adattata a dimensioni superiori senza un esponenziale aumento di peso, egli ben pensò d’incrementare fino al limite la differenza nelle proporzioni della prima e la seconda delle due interfacce con l’accidentato manto stradale, portando ad almeno un paio d’immediati miglioramenti. Primo, sollecitazioni notevolmente ridotte anche in assenza di un vero sistema di sospensioni o pneumatici ad aria, ancora ben lungi dall’essere stati inventati. E secondo, quasi accidentalmente, un aumento impressionante di velocità. In assenza di un sistema di trasmissione a catena, infatti, il valore energetico di una pedalata era una concreta risultanza dell’effettiva circonferenza influenzata da una tale spinta, arrivando a veicolare un concetto di movimento proporzionale all’effettiva quadratura di un tale cerchio in metallo. Così come di metallo era l’intero veicolo, per la prima volta, permettendo strutture molto più essenziali ed in conseguenza di ciò, leggere. Mentre la maxi-ruota veniva realizzata spesso su misura in base alla lunghezza delle gambe del suo conduttore, massimizzando il potenziale del suo sforzo di muscoli risolutivo. C’è davvero da sorprendersi, dunque, se una tale serie d’ingegnose soluzioni, ancora oggi riesce a mantenere la capacità di affascinare un pubblico di appassionati sostenitori e praticanti?