Nel 426° giorno di regno del 96° imperatore del Giappone, depositario capostipite del clan di Yamato, la cascata viola dei fiori di glicine incorniciava la figura del vecchio samurai. Con espressione indecifrabile, sedeva a gambe incrociate nel cortile della vasta tenuta, frutto dei lunghi anni di fedele servitù nei confronti del suo signore. L’abate del tempio di Sogenji fece il suo ingresso in abiti da pellegrino, appoggiando il bastone da passeggio contro la staccionata, prima di raggiungerlo e fare un profondo inchino. Al che il guerriero dal costoso kimono, con un gesto magniloquente, gli fece cenno di prendere posto di fronte a lui. “La ringrazio di essere venuto personalmente, vostra Eminenza. Ciò che sto per dirvi non poteva essere affidato ad alcun messaggero, né dovrà lasciare questo luogo prima del sesto giorno del settimo mese, quando getterò il maledetto coltello nel lago Biwa e dichiarerò ufficialmente la mia intenzione di lasciare gli affanni del mondo, per dedicarmi a una vita di meditazione e preghiera.” Al che il monaco piegò il capo, facendo un segno di assenso. Non era la prima volta che riceveva una chiamata simile da un membro dell’alta aristocrazia, e sapeva di conseguenza esattamente quello che avrebbe trovato ad aspettarlo. “Però…” continuò a quel punto Mitsui Hikoshiro, trionfatore di un numero incalcolabile di battaglie: “In quel preciso momento dovrà essere presente il vostro migliore esorcista. Per liberarmi dallo spirito vendicativo che mi tormenta da tanti anni”. Ecco qualcosa d’inaspettato; ma non del tutto. Naturalmente, tutti conoscevano la storia di questo lontano parente del clan dei Minamoto, che molti anni prima della Restaurazione shogunale aveva affrontato un mostro ed era emerso vittorioso, finendo per pagare il prezzo più alto concepibile dagli umani. Hanzaki era il nome della creatura, che viveva da tempo immemore nel fiume di Ryuto-ga-fuchi (Abisso della Testa di Drago) finché in epoca recente, per ragioni impossibili da capire, aveva iniziato a percorrere i dintorni della città di Asahi, divorando il bestiame, abbattendo gli alberi e inseguendo l’occasionale contadino. “Eminenza, lei sa di che sto parlando. La creatura che morendo, dimostrò di non poter morire. E quando la tagliai a metà dall’interno, con il tesoro stesso della mia famiglia…” A quel punto, Mitsui indicò il pugno chiuso la parete frontale dell’abitazione lasciata aperta nell’aria d’estate, oltre la quale risultava perfettamente visibile il lungo pugnale Yama-no-Kaze-no-Tsurugi (la Lama del Vento di Montagna) “Giurò vendetta!” Esclamò, battendo una mano sul ginocchio destro, con un’intensità dello sguardo che sembrò scemare d’un tratto, mentre ritornava con la memoria alla moglie e il figlio, periti per malattia tanti anni prima. Secondo le dicerie popolari, proprio a causa dei due spiriti, maschili e femminile, scaturiti dal corpo del mostro Hanzaki nel momento della sua morte. Gli stessi responsabili della successiva carestia sopravvenuta nel vasto territorio di Okayama, e i lunghi anni di sventura che accompagnarono quelle genti nel corso della sanguinosa guerra per la successione dinastica imperiale. A quel punto ci fu un lungo momento di silenzio, al termine del quale, finalmente, l’abate parlò: “Non credo che un esorcismo possa bastare per la tua situazione. Affinché tu possa fare ammenda, samurai, c’è un modo e soltanto quello. Adesso ascolta con attenzione…”
La creatura delle due metà (hanzaki – ハンザキ) ma anche il pesce gigante del pepe (ōsanshōuo -大山椒) oppure semplicemente, salamandra gigante. Molti sono i nomi attribuiti dal folklore popolare alla Andrias japonicus, tra i pochi rappresentanti rimasti della famiglia preistorica dei Cryptobranchidae, alcuni degli anfibi più imponenti che siano mai vissuti su questo pianeta. Tra un metro e mezzo e due di lunghezza, benché nelle storie e leggende medievali potesse agilmente raggiungere la stazza di un autobus londinese, questo placido essere ha più volte suscitato l’inquietudine di coloro che si trovavano ad incontrarlo, in funzione del suo aspetto evidentemente alieno. La definizione locale è specifica: un’apparizione, un mostro, una creatura “dell’altra parte” momentaneamente giunta nel mondo degli umani, per lasciare in qualche modo un segno e con intenzioni, il più delle volte, di arrecar danno. Ci sono molti tipi di Yōkai, dal fantasmagorico agli incubi redivivi, alle orribili mutazioni della forma umana, senza dimenticare il più raro, benché presente, concetto di criptide, ovvero l’esistenza di un animale che non può essere provata dalla scienza poiché troppo raro, schivo o abile nel nascondersi all’interno del suo habitat d’appartenenza. Ma il caso della salamandra giapponese è particolari persino tra questi, poiché con l’arrivo improvviso dell’epoca moderna, apparve ben presto chiaro ai naturalisti internazionali che essa esisteva veramente, come essere a quattro zampe in attesa di una preda da ghermire tra le acque turbinanti dei fiumi e torrenti di Nippon…
biologia
Svelata l’origine dell’uccello più Inaccessibile al mondo
“Preso, finalmente!” Sembra quasi di udire ancora tra i ventosi promontori, situati a picco sul mare, dell’isola il cui nome contiene una dichiarazione programmatica d’intenti. Inaccessibile, anche nei fatti a causa della sua particolare posizione geografica, le condizioni meteorologiche e la natura delle coste non propriamente favorevoli all’approdo. A parlare, fu il biologo e naturalista Martin Stervander dell’Università di Lund in Svezia, rivolgendo l’esclamazione all’indirizzo dell’invisibile mist net alias “rete giapponese”, usata in tutto il mondo dai suoi colleghi per catturare esemplari di uccelli di vario tipo. Il che dovrebbe convenzionalmente indicare, il più delle volte, creature volanti. Ragione per cui l’apparato presenta delle apposite tasche situate a diverse altezze della sua estensione, in cui le creature in questione possano ricadere senza riportare alcun tipo di danno prima di essere esaminate con tutte le perizie del caso. Ma poiché la sua missione, in quel particolare caso, assumeva connotazioni assolutamente diverse dalle aspettative usuali, persino una simile impresa aveva richiesto uno sforzo maggiore del previsto. E ad agitarsi tra le maglie della trappola, coadiuvata da un registratore con il verso di un pigolante invasore del territorio, un coraggioso piccolo uccello, la cui funzione ecologica locale potrebbe essere paragonata a quella di un topo. Il che significa, in altri termini, che il rallo denominato Atlantisia rogersi (o semplicemente “dell’isola Inaccessibile”) non può assolutamente volare, passando piuttosto le sue giornate nascosto tra l’erba, andando a caccia d’insetti, vermi e altri artropodi, del tutto inermi dinnanzi ai suoi temibili 15 cm di altezza.
Creaturina marrone scuro che, per le implicazioni inerenti della sua stessa esistenza, ha costituito fin dall’epoca della sua prima descrizione scientifica un enigma assolutamente non trascurabile. Com’era effettivamente possibile, si chiesero nel 1922 i membri della spedizione Shackleton–Rowett, prima dei tempi moderni a passare da queste parti, che una creatura non volatile né tanto meno migratoria fosse riuscita a giungere fino a questa particolare isola dell’arcipelago Tristan da Cunha, nel mezzo del nulla a 2.432 Km di oceano da Città del Capo, e 3.486 dall’arcipelago delle Falklands a largo dell’America meridionale? La prima ipotesi è contenuta nel nome stesso Atlantisia, costituendo un chiaro riferimento all’esistenza di antichi paesi sprofondati per l’avanzare di una singola, devastante onda di marea. Dovete considerare che all’inizio del secolo, prima che l’ipotesi di di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti fosse realmente accettata dalla comunità scientifica, si credeva che l’esistenza di specie animali simili agli angoli opposti del pianeta fosse essenzialmente dovuta alla presenza pregressa di antiche nazioni che avrebbero svolto la funzione di ponti di terra, come Lemuria, Mu e per l’appunto Atlantide, notoriamente citata da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia nel IV secolo a.C. L’evidenza provava, tuttavia, che se davvero l’esistenza del rallo si era svolta in totale isolamento per un periodo misurabile in molti milioni di anni, la sua divergenza evolutiva e genetica da altre specie isolane dell’Atlantico avrebbe dovuto essere maggiore, inducendo gli scienziati a teorizzare un’ipotesi alternativa: gli antenati dell’A. rogertsi (appellativo derivante dal reverendo H. M. C. Rogers, che spedì il primo campione dell’uccello al Museo Naturale di Londra affinché potesse essere analizzato) si presentavano con un aspetto e capacità notevolmente diverse, essendo riusciti a giungere fin quaggiù sulla forza delle loro stesse ali a partire dalle terre emerse più vicine, ovvero quelle del Vecchio Continente. Ma se ci spostiamo in avanti di qualche generazione, fino all’epoca di Internet e dei cellulari con navigatore satellitare, possiamo facilmente renderci conto di come non tutti fossero convinti da quest’idea. Nella coerente formazione di un gruppo di opinionisti all’interno del quale figurava, per l’appunto, anche l’intraprendente svedese Stervander, al punto da ritrovarlo quaggiù nel settembre del 2011, armato di rete giapponese e gli altri attrezzi utilizzabili per catturare un uccello-topo. Ma non lasciatevi trarre in inganno: il suo studio è stato pubblicato soltanto all’inizio di questo novembre 2018 sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Una cosa, per lo meno, è sicura: questo tipo di studi richiedono tempi piuttosto lunghi…
Xolo per gli amici, antico cane senza peli degli Aztechi
Tra tutti gli esseri canini ad essere stati condizionati dalla selezione artificiale, i depositari di un’eredità consanguinea imperfetta e quindi prona ad ammalarsi, vivere una vita grama, sperimentare la più vasta serie di problemi, la convenzione non esiterebbe ad indicare due particolari razze: il chinese crested dog ed il chihuahua. Rappresentanti dell’esistenza canina “ai due poli estremi del pianeta Terra” l’uno costretto a vivere senza nessuna protezione pilifera dalle intemperie o la luce ultravioletta, tranne la criniera cavallina, tanto da necessitare di un generoso impiego di crema solare da parte dei suoi padroni; l’altro piccolo, gracile, con gli occhi sporgenti da pesce palla eternamente spalancati a causa del continuo nervosismo. Ma poiché conoscere davvero gli animali, talvolta, significa sfidare la convenzione, cominciamo con il dire che la discendenza di almeno il primo tra i due amici a quattro zampe risulta essere profondamente incerta, tanto da permettere la significativa fondatezza di teorie che lo vedrebbe provenire dagli stessi territori del Nuovo Mondo. E la ragione di questo è una, sopra ogni altra: l’aspetto e le caratteristiche genetiche dello Xoloitzcuintli, nome spesso abbreviato per semplicità, o sostituito con l’espressione maggiormente descrittiva di “cane nudo messicano”.
C’è molto da dire sul passato e il presente di questa creatura dai molti aspetti, di cui quello maggiormente rappresentativo risulta essere cupo come il carbone, con grandi orecchie da pipistrello ed occhi gialli demoniaci, caratteristiche capaci di ricondurlo a rappresentazioni prototipiche del Dio della Morte. Ma sia chiaro che non è Anubi, l’essere a cui mi sto riferendo, bensì il suo analogo mesoamericano Xolotl, che oltre a guidare i morti lungo i nove difficili gironi del Mictlan (l’Oltretomba) era il sovrano di ogni deformità e creatura mostruosa, nonché accompagnatore del Sole durante il reiterato terrore delle ore notturne. Ora la leggenda vuole, e ciò si riflette nell’appellativo stesso della razza composto dal nome della divinità e la parola itzcuīntli, il cui significato è cane, che tale surreale creatura fosse stata il dono di quell’essere ai suoi amici umani, creati da un diverso pezzo dello stesso Osso della Vita. Affinché potesse proteggerli da ogni sorta di malattia, una capacità che il pensiero popolare messicano, ancora adesso, tende ad attribuire al proprio animale nazionale.
L’associazione a un mito simile, d’altra parte, tende a evidenziare un qualcosa di molto significativo. Ovvero, che il concetto di un cane privo di peli è molto più antico di quanto si possa pensare. Almeno 3.000 anni, come è stato possibile desumere dai ritrovamenti di alcune antiche statuette delle culture Tolteca e Zapoteca, in cui l’artista si era premurato di rappresentare la pelle grinzosa dell’essere sacro a uno psicopompo che forse, a quei tempi, portava un diverso nome. Nell’epoca dell’Impero Azteco quindi, nato nel 1325 d.C. con il sovrano Acamapichtli, il ruolo dello Xolo iniziò ad acquisire una duplicità inquietante, con la propensione a venerarlo e al tempo stesso considerarlo cibo, da cucinare assieme al tacchino nel corso di particolari ricorrenze e banchetti dall’importante significato religioso. Ma questa creatura fantastica, così diversa dal concetto di un generico abitante di cucce o lettini, aveva ancora molto da dire nei confronti dei suoi talvolta irriconoscenti padroni…
Questo fungo è l’oro afrodisiaco del sottosuolo tibetano
Ogni anno in primavera sulle distese erbose degli altopiani dell’Himalaya, nella regione al confine con la Cina di Dolpo, le femmine delle falene cosiddette fantasma si alzano in volo dopo il loro lungo stato larvale, iniziando un fine bombardamento a tappeto. Si tratta di uno dei processi riproduttivi più ad ampio spettro dell’intero regno animale, durante il quale un singolo esemplare può arrivare a disseminare fino a 29.000 capsule, ciascuna contenente il principio generativo di un futuro figlio della prateria. Alla schiusa della prossima generazione, quindi, i piccoli bruchi di Hepialidae strisciano per qualche minuto, prima che il loro istinto li conduca senza falla verso il basso, l’unica direzione che possono considerare sicura. Con mandibole specializzate smuovono la terra, nella piccola quantità necessaria ad eguagliare l’ingombro del proprio corpo. E laboriosamente, iniziano a nutrirsi della fitta rete di radici delle stesse piante sopra cui, in quel giorno fatidico, i loro genitori ebbero la fortuna di trovarsi l’un l’altro. Eppure nonostante i lunghi secoli d’evoluzione, che hanno garantito a un così furbo insetto di scavarsi (a tutti gli effetti) una nicchia lontano dai pericoli del proprio ambiente, su 500 di questi bruchi, almeno i 4/5 andranno incontro a una fine particolarmente atroce. Non per l’opera di uccelli affamati, e neppure l’intervento di una qualche vespa predatrice. E neppure in forza degli artigli scavatori di un mammifero affamato, come topo, mustelide o felino. Bensì a causa, questa volta, del più inaspettato dei colpevoli del mondo naturale: quella creatura che non è un animale, minerale o vegetale; benché condivida, con questi ultimi, una significativa parte del suo ciclo vitale. Sto parlando di un fungo, chiaramente, cos’altro? L’Ophiocordyceps sinensis, parassita che negli anni a partire dal 1993, si è trasformato in una sorta di leggenda.
Tutto ebbe inizio con la serie di vittorie estremamente significative di tre ragazze provenienti dal Nord-Ovest della Cina ai campionati di atletica di Stuttgart, tenutosi ad agosto in Germania, dove la loro straordinaria performance nella corsa ebbe il risultato di lasciare nella polvere una nutrita schiera di favorite. Evento a seguito del quale, approfonditi test cautelativi per il doping non diedero alcun tipo di risultato positivo. Il loro coach, quindi, rispondendo con orgoglio alle numerose interviste, diventò famoso per una specifica frase: “Non c’è alcun segreto. Le mie ragazze sono più veloci delle altre solamente perché assumono ogni giorno una speciale zuppa energetica, composta di sangue di tartaruga e dōng chóng xià cǎo” (冬蟲夏草) un composto lessicale che significa, letteralmente, “verme d’inverno, erba d’estate” eppure nessuno poté inizialmente credere, che dovesse trattarsi davvero di un ingrediente tanto insolito e particolare. Ovvero quello che nel suo paese viene chiamato yartsa gunbu o yarsagumba (due diverse traslitterazioni, stesso significato) ed è costituito in egual misura dai resti mummificati del bruco di falena fantasma e un’escrescenza vegetativa appartenente al succitato fungo, che attraverso un procedimento spietato l’ha infettato con le proprie spore, trasformando ciascun organo interno in nutrimento per il suo micelio. Qualcosa di orribile a descriversi, eppure proprio per questo, straordinariamente prezioso per quel mondo letteralmente impossibile da definire che è la medicina tradizionale d’Asia. Fin dagli scritti del dottore e lama tibetano Zurkhar Nyamnyi Dorje, che nel XV secolo descrisse il mistico rimedio nel suo testo “Un oceano di qualità afrodisiache” anticipando già di molti secoli l’espressione destinata a diventare una parola chiave contemporanea di “super-viagra tibetano”.