C’era un manichino americano a Osaka…

Osaka Mannequin

Zen-tai! E adesso, non c’è più. È diventato umano! Come ti fa sentire, questa cosa, stolido passante della situazione? Il nero personaggio che si anima e ti porge quella mano enorme, all’improvviso, lancia un grido gutturale e assume pose molto strane…Paura, la paura è ovunque. Il piccolo spavento che distrugge quello grande, di aver trovato l’unico negozio che fa saldi, ancora adesso, ma non vende nulla della tua misura. Tranne un uomo minacciosamente immobile, finché. È un semplice fa(t)to, geometrico. Una questione di ass(a)i cartesiani. L’altezza media dei popoli dell’Asia Orientale, come da sondaggi semplici e oggettivi, risulta sensibilmente inferiore a quella di noialtri caucasici, sia quelli provenienti dall’Europa che, oltre l’azzurro Oceano del Pacifico, dalle splendenti coste di quel mondo un tempo “nuovo”. È facile da dimostrare. Metti due persone, metti siano occidentali, per qualche motivo tra la folla nelle strade del Giappone. Quelle brulicanti avenue, veri simboli della metropoli di Tokyo, con dozzine di individui per ciascun metro quadrato, che camminano quasi toccandosi, con le teste giustapposte l’una all’altra. Ebbene, se lì ci fossero pure soltanto, come talvolta capita, due gaijin (stranieri) questi si vedranno subito l’un l’altro gli occhi, quattordici centimetri sopra la folla, oltre un mare di capelli neri! Talmente sarebbe pronunciata, questa differenza di statura. Ma qui non siamo nella capitale: questa è Osaka, gente! E dunque, divertiamoci dinnanzi a un golem con la tuta in spandex, come fanno loro.
America, terra di feste popolari valide all’esportazione. Perché più laiche, nella concezione, della media d’altri popoli, ma anche nate nella civiltà contemporanea delle immagini, che soprattutto ama creare lo spettacolo, dar luogo a situazioni strane. Così ad Halloween, come da copione, tutto è lecito e permesso. Entro i limiti della ragione: soprattutto, nel caso dello scherzo. Il gesto spregiudicato di mettere qualcuno a confronto con le sue paure, per poi riderne, assieme a lui, a pericolo scampato. C’è suggestione di rivalsa, in tale approccio all’interrelazione tra perfetti sconosciuti, ma anche un certo senso di profonda solidarietà. Oggi tocca a te, domani? Chi lo sa. Siamo tutti diavoli, all’Inferno. Sia pure questo, simulato.
Ed è un tema classico di tale tipo di racconti, sussurrati nella notte d’Ognissanti, quello in cui fantasmi e mostri, finalmente, possono passare inosservati. Qualche volta, per l’effetto di una grazia selettiva: il Destino gli fa dono, temporaneo, di un aspetto umano. O più semplicemente, in mezzo a tante maschere, chi vuoi che noti, il conte Dracula grondante vero sangue, oppure la Creatura, fuori dalla sua Laguna Nera. E così via. Si trattava di un crollo delle convenzioni acquisite, attentamente limitato ad una volta l’anno, che permetteva di annientare la superstizione. Accettando tutto e tutti, per quanto differenti dalla massa, addirittura: un gaijin. Del resto è difficile, inquadrare la remota provenienza nazionale, di chi indossa gli abiti di un manichino senza volto…

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Amplificati dalle corde di strumenti inusitati

Ghironda

Ci vuole tempo per costruire un edificio che resista all’incedere de secoli, la macina pericolosa del progresso. Tempo di pensare, costruire, soprattutto ricordare. Che quel determinato luogo, si, è importante, perché simboleggia il senso della vita stessa. E così anche la musica, del resto.  Fra i più antichi pellegrinaggi europei, il Camino de Santiago era un viaggio spirituale e religioso che i fedeli affrontavano, fin dall’epoca medievale, avventurandosi per molti giorni attraverso la terra frastagliata oppure il mare tempestoso, fino alle coste della Galizia, nella Spagna nord-occidentale. Quindi percorrevano le strade iberiche segnate dai re di Asturias, nell’ottavo secolo, e dal vescovo di Iria, Teodomiro. Colui che studiando e ricercando, attentamente, presso un antico cimitero di epoca romana disse: “Queste sono le ossa di San Giacomo Maggiore, apostolo, tornato da Gerusalemme per pregare. Orsù, rendiamogli onore”. Con alte mura e il buon sudore della fronte! Un giorno, qui risuoneranno voci d’angelo e le trombe dell’Apocalisse.
Venne deciso, dunque, che lì sorgesse la divina Cattedrale: era il 1075 d.C e ci vollero ben sette secoli, affinché fosse veramente completata. Ma per certi versi, ce ne vollero anche nove. Poiché la musica divina non proviene dai sinceri sentimenti e soltanto quelli. Serve la chiave inglese, oltre a quella di violino. La sapiente symphonia. Un giusto grado di approccio ingegneristico, come quello che ebbe a portare qui a Santiago, soltanto nel recente 1977, l’organo a canne Mascioni opus 1010, con trasmissione elettrica, tre tastiere per un totale di 183 note ed una pedaliera a raggiera, con altre 32. Perfetto. E…Prima? C’era stato, dicono, un organo più piccolo, di epoca e di stile barocco, parzialmente smontato, quindi utilizzato come involucro per quello nuovo. E prima ancora?
Quando il pellegrino giungeva, a partire dal XII secolo, presso la vasta e poderosa casa del signore, doveva attraversare un alto portale, affinché i suoi peccati fossero dimenticati, come avveniva per chi raggiungesse Roma, oppur la Terra Santa d’oltremare. Veniva chiamato questo sacro varco: il ´Pórtico da Gloria, e ricoperto di elaborati bassorilievi in pietra. Tra di essi, figurava al centro proprio lo strumento musicale che è venuto prima, l’organistrum. Era lungo un metro e mezzo. Era simile a un attrezzo da lavoro. Due ecclesiastici, servivano, per manovrarlo: uno spingeva i tasti, l’altro ruotava la pesante manovella, ancora e ancora, senza mai stancarsi.
E come le tecniche messe a frutto nella costruzione cattedrali, molto prima del loro completamento, filtrarono verso l’architettura laica, così avvenne per quell’invenzione musicale. Che rimpicciolita nelle dimensioni, filtrò fino in Francia, poi Inghilterra, l’odierna Germania e anche l’Italia. Come vielle à roue, uno strumento, dalla tipica forma di liuto (qualcuno dice che ricordi un po’ una nave) e un certo numero di corde, vibranti della voglia di produrre il Suono. Ma come spesso capita, ciò che conta il metodo. Non certo l’intenzione!

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Le lontre non capiscono i peluche

Lontra con pupazzo

Silenziosa e immobile, statica ed inerte. La mia lontra è differente. L’ho comprata in un negozio, alquanto piccolino, che non vende gli animali (veri). Ma targhette con il nome, cappellini, tazzurelle colorate e una maglietta, con su scritto, guarda caso:  二見シーパラダイス (Futami Sea Paradise). La mia lontra non è diffidente. Ma piuttosto placida e benevola, sempre grata di essere tenuta in mano e accarezzata. Niente di strano, mi dirà qualcuno, un giorno o l’altro: “Quella bestia è fatta di peluche!” Grazie. Non l’avevo mai notato. La ragione è la seguente; un giorno siamo stati, con la mia famiglia immaginaria giapponese, presso lo zoo acquatico della città di Ise, nella baia meridionale che abbellisce l’isola di Honshu. E allora il mio pupazzo è stato amato per due brevi, quanto eterni giri del minuto. Da un suo simile, bagnato.
Chi può dire cosa passi nella mente di questo grazioso esemplare di lontra senza artigli africana, anche detta dalle guance bianche (Aonyx capensis) mentre sperimenta un simile sollazzo sopraffino della sua giornata. Non capita ogni giorno, dopo tutto, per simili bestioline messe in vasca, di sperimentare l’esperienza di un incontro tanto fuori del comune. Si dice che tra i numerosi animali di questo pianeta, siano pochi quelli che posseggono una vera coscienza di se, riuscendo a riconoscersi nel vetro di uno specchio. Sono questi, soprattutto: scimmie, qualche uccello di colore nero, certamente la specifica fazione tra i delfini che ha la voglia, o l’obbligo di starci a sopportare. Mentre gli altri nuotano, incostanti e liberi, tra i flutti di un destino pinnipede o picaresco. E c’è molto da dire, o criticare, sulla prassi di tenere gli animali in gabbia, fluida o letterale, con lo scopo principale di un guadagno. Eppure, una cosa è certa: dall’incontro tra le specie nasce sempre qualche cosa. Di particolare, interessante, degno di essere osservato. Una catena ininterrotta di magnifici momenti, tra cui l’ennesimo è così.
La lontra guarda fuori tramite quel vetro e vede una bizzarra mistificazione. L’immagine di un suo fratello, o la parvenza di un cugino, laddove mai ce n’erano passati: dalla parte dei Padroni. O chi per loro, chi con l’oro, giustappunto, spende o paga per vederti. E possederti, come può: in effige. Ma il concetto di un corposo simulacro non è facile da concepire. Per nessuno, tranne chi lo costruisce, come specie. Dunque nasce qualche cosa. Forse, la passione e in fondo chi può dirlo? L’animale in carne ed ossa si entusiasma. Inizia ad agitarsi, preme il muso contro il vetro. Combatte e vince la sua noia, con il rapido entusiasmo delle menti semplici, spontanee. Mentre i bambini gridano estasiati, la situazione poi si evolve. Mai visto niente di simile, gente! Neanche fosse un coccodrillo nell’atto di ghermire la sua preda, la lontra ruota su se stessa, vorticosamente, più e più volte: “Chotto, chotto! Chotto, chotto!” Gridano gli spettatori, e i loro genitori, mentre il suono si trasforma in uno squillo roboante, la sirena di una scena che diventa Storia, quasi subito, ed Aneddoto da Raccontare. Ciò che serve, soprattutto, a ricordarci cosa siamo. E quanto è strano quell’ambiente, la natura da cui proveniamo.

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L’orbita mannara dei Pikachu ballerini

Pikachu Dancers

Nel suo sguardo c’è la furia elettrica degli elementi. Giallo, quanto una banana. Con due dischi rossi sotto gli occhi: guance imporporate, solisombra, emblemi suggestivi di battaglia; cosa resta, in lui, del topo? Non è chiaro. Ma del dolce personaggio dei cartoni ancora meno, perché è orribile a vedersi, se lo privi del contesto. Mentre dondola, suggestionato dal mistero. Giappone, terra di mascotte. Quasi ad immortalare la mistica credenza che ogni cosa abbia uno spirito invincibile, che rinasce dall’incontro col bisogno, più che mai contemporaneo, di donare un volto alle possenti multinazionali, alle iniziative commerciali, alle infrastrutture della società. Una famiglia che si accresce col passare dei minuti, questa dei pupazzi e pupazzette colorate d’Oltre-Asia. Giusto nella scorsa settimana, per dire, abbiamo assistito al varo mediatico di ben sei dierse moefications (loghi antropomorfizzati) con altrettante ragazzine disegnate: tre per l’Accademia Nazionale delle Forze Armate, grazie alla mitica matita di Fumikane Shimada, e tre spensierate girls per la metro di Kyoto, in collaborazione con l’antica rocca del castello Nijō – chissà che avrebbe detto il fiero Tokugawa. Si, perché succede soprattutto questo. Dall’antica tendenza nipponica ad identificar le cose utili, con creature misteriose, buffi mostri ed animali, si è passato a una diversa preferenza; la giovin-ragazza che va a scuola. Chiaro simbolo concettuale di spontanea grazia e dell’entusiasmo senza fine della gioventù.
Così nasce questo scisma. Che è anche una guerra, primordiale, tra visioni contrapposte ed altrettanto inconciliabili; se persino la placida Nintendo, sull’onda del successo della new-wave di anime (cartoni animati) e manga (fumetti) si rivolge al fascino di personaggi dalle proporzioni maggiormente conturbanti – Zelda immaginata come splendida guerriera e spadaccina, fra le vecchie glorie, e poi quella Samus, la cacciatrice cosmica, rivestita in avvolgente tuta-zero; per non parlare, giammai non azzardiamoci, della scostumata Bayonetta – Allora c’è un chiaro problema di sovrapposizione delle responsabilità. Se anche le grazie delle forme femminili, una volta sufficientemente esposte alla ragione degli sguardi, diventano magiche, che me ne faccio di tutti quei draghetti, degli uccelli fiammeggianti, delle tartarughe e di quegli altri matti cosi! A che serve Godzilla, se una sola semplice fanciulla del tempio, evocato il potere della spada nello zaino, può abbatterlo in un gran colpo dato al grido riecheggiante di HENGEN – Trasformazione… In eroina dei tempi moderni, un’altra ancora e meno male.
Non si tratta a mio parere, sia ben chiaro questo, di una crisi dei creativi. Anzi, tutt’altro, sono i segni di un passaggio generazionale. Laddove si sognava, fino a circa l’altro ieri, di evocar gli spiriti patròni dei nostri antenati, perché vigeva la visione dello Shinto, del Taoismo, dello Sciamanesimo, oggi siamo tesi, nel moderno leggendario, all’auto-miglioramento individuale, teorizzato dal Buddhismo tutto, e dallo Zen sopra ogni altra corrente del Giappone. Così che, tra le diverse esportazioni proto-letterarie, trionfa questa, così perfettamente allineata col bisogno universale di essere attraenti, furbi, adattabili e segretamente preparati. Ad affrontare, le difficoltà. Dall’interno verso l’esterno, come l’emanazione del supremo Ki spirituale. Invece che il contrario.

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