La prima ripresa in 4K dell’aurora boreale

Aurora Borealis

Cos’è il grattacielo variopinto nello spazio semi-oscuro della notte? Cos’è il fuoco che non brucia e non consuma, eppure arde, di colori magici e stupefacenti? Alaska, terra di misteri. Svegliarsi verso l’una, all’improvviso, con il senso di un qualcosa di diverso dalla cognizione pre-esistente. Come se dormire, dopo tutto, avesse suscitato una diversa presa di coscienza e la terribile, o meravigliosa realizzazione che; si, siamo la polvere gettata casualmente presso un’angolo del cosmo e si, quell’insensato ambiente è piccolo e si muove, assieme a tutto il resto. La biglia di un pianeta rotolante e multistrato, il cui centro è inconoscibile, compresso da pressioni gravitazionali e ricoperto da un mare di magma che non bolle, tanto è litico e compresso. E poi il mantello e sopra quello: un sottile strato di montagne, centri urbani e civiltà. Roba da nulla rispetto a quel che giace sopra, l’atmosfera senza limiti e confini. Ci sono sfere colossali, come i nostri Giove o Saturno, che non sono null’altro che un’agglomerato di gas nobili ed inerti, centinaia di migliaia di chilometri in fumo e fluido vorticante, caustico, senz’altro irrespirabile ma bello. Per i suoi colori ed i sapori filosofici, finché al segnale di una linea terminale, quel confine astratto verso la purezza virtuale, non lasciano il posto al puro idrogeno, ciò che comunemente definiamo “il nulla”. Ma se neanche quello è vuoto, e la fisica ci insegna che nella galassia non c’è spazio che possa veramente dirsi tale, figuriamoci le alte propaggini del globo della Terra. L’atmosfera non è un luogo privo di sostanza, tutt’altro!
Azoto e ossigeno, per massima parte, oltre ad una componente sempre più alta di Co2 (l’aumento costante e indesiderabile di anidride carbonica è il morbo entropico del nostro mondo) argon e qualche parte per milione di metano, kripton, xeno. Ciò che vedi di essi, non lo vedi, veramente: secondo le leggi ben delineate nello scattering di Rayleigh, fisico britannico del primo 1900, il colore blu del cielo è in effetti dovuto dall’interazione tra le particelle dell’aria e la componente visibile della radiazione della nostra stella, il Sole. Si tratta di una pura coincidenza e indubbiamente, là fuori fluttuano pianeti ancora mai trovati, con il cielo di un costante giallo paglierino o pallido violetto, turchese tempestato di smeraldi…Tutto è possibile, nell’ambito futuro dell’esplorazione interstellare. Ma talvolta, questo stesso minuscolo ambiente in bilico sul braccio periferico della Via Lattea è già talmente straordinario e sorprendente che verrebbe voglia, invece di costruire formidabili navi spaziali, di rivolgere lo sguardo in alto ed indicare. Ecco, sembra quasi di vederla con i propri occhi, senza averla mai trovata prima: la favoleggiata aurora boreale.
Lo scorso 5 gennaio, Marketa, Ronn e Angus (possibilmente lui, lei ed il cane, ma non prendetemi in parola) hanno finalmente messo a frutto l’equipaggiamento di cattura video che si erano regalati per Natale: un external recorder della Atomos, modello Shogun, sostanzialmente uno speciale apparecchio dotato di schermo in Ultra HD, che collegato alla macchina fotografica permette di registrare in tempo reale con il massimo della risoluzione offerta dal sensore della stessa. Combinandolo quindi prima con una Sony a7S e poi con una DJI Ronin, hanno realizzato ciò che, assai probabilmente – diciamolo – in realtà qualcuno aveva già fatto, magari usando non dissimili approcci realizzativi. Ma che del resto, mai era stato condiviso per il pubblico ludibrio, grazie allo strumento digitalizzato della messa in mostra internettiana. L’effetto è indubbiamente stupefacente. Un video in presa diretta, senza l’ausilio di time-lapse o simili artifici, di uno dei più incredibili fenomeni metereologici che l’occhio e orecchio umano abbia mai avuto modo di sperimentare. Ed è proprio questo il punto forte del presente, straordinario video: la sensazione di esserci in prima persona.
Coadiuvato, perché no, dal racconto a corredo incluso nella descrizione: di loro due, già affetti da qualche grado di febbre, che si avventurano con sprezzo del pericolo nel gelo notturno del promontorio di Murphy, presso Fairbanks, nella remota Alaska per trovare, finalmente…

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L’unica pentola che mescola automaticamente il suo contenuto

Kurukuru

Kuru kuru! Kuru kuru! Quella vecchia volpe è un cuoco che ha girato, eccome. Ha girato il minestrone, ha girato il risotto, il pollo sull’arrosto, ha mescolato la polenta e le verdure. Ha girato anche il Giappone! Finché trovansi, per puro caso, la perfetta soluzione: un pentolone, attentamente costruito su basi termodinamiche, per praticare tale gesto in assoluta autonomia. Eccolo mentre si muove. Eppure, allora, evviva Galileo! Liberati dalla schiavitù dei broccoli, dal giogo dei carciofi, grazie all’invenzione titolare si potrà tornare alla cucina della prima volta pomeridiana, quando l’entusiasmo ci guidava, nel creare, invece che il dovere verso gli affamati e la fatica dei mondani. Sarebbe questa un po’ la chiave del problema, un lucido lumino in fondo al tunnel (carpale) di chi da il principio all’arte faticosa della mescolanza. Ché già l’alchimista nel laboratorio, oppur la strega col suo calderone carico di ali di pipistrello, occhi di serpente, pelli di leopardo, noci macadamia già sbucciate […] etc. etc. Praticavano, ciascuno, il gesto rilevante. Ma su scala differente: il primo con bacchette trasparenti ed alambicchi, per un rapida girata di momenti e aspettative. Per poi sublimare silenziosamente l’agognato risultato, spesso poco stuzzichevole, al palato. La seconda, invece, con un gran bastone o manico di scopa, mentre salmodiava l’incantesimo e il richiamo degli spiriti notturni, fino ai limiti della sopportazione delle orecchie dei presenti, per un filtro caustico e pericoloso. I tempi cambiano e con essi la scienza che si applica al bisogno, vero oppure percepito: così oggi il chimico, per sua prerogativa, ormai dispone di diverse approcci. Fra cui un particolare tipo di bottiglia, dotata di quello che si chiama correntemente lo stir plate, ovvero una piastra magnetica con relativo pillolone di metallo, messo dentro al fluido rilevante, per girare vorticosamente sul comando di un interruttore. Senza mani, senza piedi, soltanto gli occhi e la pazienza di guardare, per un tempo lungo e dopo mescere. L’argento e l’oro degli stolti.
Ma in tutta questa rapida corsa verso il futuro che semplifica, la ricerca continua dell’astrusa migliorìa tecnologica, qualcuno doveva essersi dimenticato del magister più importante in assoluto. Colui che comanda i fuochi dei fornelli, le camere iperboree dei forni a microonde, tutti quei coltelli e le dozzine d’ingredienti. Che offre tutto e in cambio ottiene dai sapienti, giusto una menzione e i complimenti, nulla più. Tanto che il cuoco, nonostante le ottime prerogative, ancora gira con le mani, mano a mano che gli serve e quindi Serve, finché non è pronto il pranzo e poi la cena. Ma che continui a farlo ancora a lungo, è tutta da vedere. Ecce, infatti, Kuru Kuru Nabe, la “Pentola girin girello”. Si tratta dell’ultimo frutto di una mente fervida ed attiva, nello specifico quella di Hideki Watanabe, dentista di Tobe, ridente cittadina presso l’isola di Shikoku, nel Giappone meridionale. Un luogo silenzioso e verdeggiante, piacevolmente temperato. Presso cui dedicarsi, tra una carie e l’altra, ai propri interessi e le passioni più gradevoli che riarrangiare i denti dei pazienti. Così pare, e per inciso, la sostanza del racconto è quasi leggendaria, che un giorno il buon dottore di periferia avesse un buco nei suoi appuntamenti. E un carico appena consegnato di polvere d’alginato, quella sorta d’intonaco impiegato per la realizzazione dei calchi odontotecnici, dal Cairo a Timbuktu. Nonché un bel pentolone da cucina lasciato lì presso la sala d’attesa, nel caso sopraggiungesse un improvviso languorino all’ora di pranzo (non giudicate) Al che lui, L da Vinci del passaggio orale, si mise a realizzare finalmente quella che era forse stata una sua vecchia idea: la colossale impronta scultorea, non di una dentatura con 32 candidi personaggi, uno meno, uno più, ma di una sorta di vortice apposto sulla parte interna del metallico implemento da cucina. Il risultato…

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La gioia incontenibile dei cani di palude

Max and Gilbert

Uno giallo, l’altro color del cioccolato: la coppia di Labrador retriever, i cani perfettamente impermeabili proveniente dall’omonima penisola del Canada settentrionale. Dire che questa razza ami l’acqua, è praticamente come dire che ai topi piacerebbe  un po’ il formaggio. Corrisponde ad affermare che la Luna sorge ogni sera, oppure il mare si ritira, dopo ciascuna alta marea, per l’effetto della sua gravitazione. È  ovvio e risaputo, da una parte, ma pure limitato nella sua dialettica ulteriore. Essere un buon Labrador vuol dire conformarsi entro determinati limiti, per semplice necessità, ai pratici dettami della civiltà: niente trasgressioni, non sporcare casa, mangiare nei luoghi e nei momenti deputati. Ma soprattutto immergersi nell’umido immanente, l’elemento fluido e trasparente, solamente se il padrone umano è lì a concederti il permesso, dall’alto di quella saggezza e senso pratico della misura. Il cane domestico, qualunque sia la sua genìa, ha un forte bisogno di essere guidato; altrimenti, la belva ferale che si annida oltre il suo muso morbido e grazioso tenderebbe a scatenarsi, con tutto l’entusiasmo di dozzine di rivoluzioni mai sedate, ma piuttosto re-indirizzate. Attentamente, verso cose utili, come portare un bastoncino, rotolarsi a terra, dar la zampa se lo chiami e così via. Ma adesso ascolta, addestratore di creature da riporto: quei tuoi cani ben disciplinati, fondamentalmente, non approvano quel che devono fare, giorno dopo giorno, per campare. Se pure lo capissero, probabilmente, tenderebbero a considerarlo un passatempo privo di significato, soltanto utile a fare contenti voi e ricevere il prezioso biscottino. Chi ha quattro zampe non ha tempo da perdere, ma piuttosto quel tempo lo crea, applicandosi con foga all’ambito dell’avventura. Dall’A alla F di fanghiglia, un folle parapiglia, la mattina interminabile nel vasto Sutton Park.
È comparso l’altro giorno, tra le schiere di video caricati dagli utenti sul portale di LiveLeak (l’alternativa meno regolarizzata al regno imperituro di YouTube) questa lunga e spettacolare sequenza realizzata dall’utente Docmatt, durante una passeggiata coi suoi cani Max e Gilbert, presso Birmingham, nella brughiera inglese. Si tratta di una scena trascinante nella sua semplicità. Ecco qui qualcuno, finalmente, che non vuole preoccuparsi del momento successivo, ovvero lo sporco trascinato fino a casa dai suoi beniamini… Dev’essere stato glorioso. Liberatorio, aprire lo sportello posteriore del veicolo e lasciar scappare fuori i fulmini pelosi e bicolori, per una volta, senza stare a controllare le pericolose traiettorie. Lì, un albero caduto. Dall’altra parte, una vecchia roccia semi-sepolta nel terriccio smosso. E loro zigzaganti, eppure ben sicuri come l’ago di una bussola, che puntano veloci verso l’acquitrino di Longmoor. Sono questi, luoghi con una lunga storia. Qui correva anche una strada romana, tanto che da secoli, il grande parco è stato soprannominato il meadow by the paved street, ovvero pascolo vicino al viale lastricato. Sotto questa stessa umida torba, presso il pozzo di Rowton, gli estrattori di quel materiale ricco di CO2 (un ottimo concime o carburante) vi ritrovarono ben mescolate alcune punte di freccia in selce, antiche monete e molti altri tesori, all’interno di tombe e tumuli preistorici mai visti prima. Dal XIX secolo almeno, a fronte di tanti ritrovamenti, si ritiene che presso questa foresta millenaria avessero stabilito la loro loggia di caccia i re dei Merci e dei Normanni, popoli trascorsi della terra d’oltremanica. Eppure, mai dimenticati. Come avremmo potuto permetterlo? I cani sono sempre uguali, corrono e saltano, si lanciano nell’acqua. Cos’è poi qualche dozzina di generazioni, per chi ama i millenni di evoluzione che ci hanno regalato questi ansimanti animali con la lingua penzoloni…
E di amore, ce ne vuole. Guarda che disastro! Grufolando come folli maialini, così ben spronati dal contesto sregolato, Max e Gilbert si perdono nel regno della temporanea libertà. È difficile dimenticare, per chi ha mai provato tali sensazioni, il gusto e il senso di portare il cane a passeggiare. Quella maniera in cui una semplice distesa di erba, per il tramite della ragione, si trasforma in una galassia di fiori e misteriosi odori, l’opportunità di ritornare verso il regno dell’istinto puro, non soltanto per il tuo camminatore a quattro zampe. Anche per te, padrone. Se soltanto, per un’ora o due, si potesse dimenticare quel bisogno di essere conformi. L’ansia di far cose con criterio! (Il che richiede, chiaramente, un sacrificio) ecco allora, andate. Sporcatevi, se necessario, in quanto io, vi offro il sedile posteriore. Per farne scempio Eterno, a seguito dell’esperienza, breve. Cosa importa…

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L’imbroglio coniugale delle vongole nei fiumi

Mussels Lure

Si dice che l’amore sia cieco, perché intelligenza vuole dire non guardare all’origine di ciò che è puro e soave sentimento, ovvero proveniente dal profondo della propria umana essenza. Ciò è vero, in buona parte, pure per la vongola Lampsilis ornata, l’abitante bivalve dei gelidi ruscelli del Missouri. Anche perché, ovviamente, non ci vede. Affatto. Figuratevi che nel momento lungamente atteso, l’attimo di gloria della sua riproduzione, il maschio impollina la Luna oltre la remota superficie, perché quasi non può muoversi, almeno non abbastanza da cercare la sua lei. E la femmina di vongola, se per puro caso poi riceve quel prezioso carico da far fruttare, lei libera pure gli embrioni nella rapida corrente, ben sperando che possano ritrovarsi tutte assieme, presso l’ambiente ideale per crescere e prosperare. Ovvero, la bocca di un pesce persico, possibilmente. Se non è chiedere troppo? Come ci riesce, è un epico racconto narrato dagli aedi e fin da tempo immemore, ammirato.
La conchiglia allungata della vongola non è mai del tutto chiusa. Da una parte sporge il suo peduncolo a forma d’accetta, la parte che, contraendosi e tirando a se la bestiolina, gli permette una se pur limitatissima deambulazione. In contrapposizione a quello, invece, c’è il mantello. Si tratta, essenzialmente, della cosa più simile ad un organo complesso nella fisionomia di questa classe di molluschi, una propaggine ricca di terminazioni nervose, normalmente ben nascosta dentro il guscio multistrato in carbonato di calcio, conchiolina e madreperla. Ma non nella stagione degli amori, se così vogliamo chiamarli, quando invece serve come dicevamo per liberare, ricevere e depositare. Presso una banca con le pinne, tutt’altro che collaborativa. Perché il pesce coinvolto, suo malgrado, nella riproduzione della vongola, non è che sia proprio entusiasta della cosa. Ma non può resistere, né rifiutare quel richiamo: le diverse famiglie di vongole, ma in modo particolare quella delle Lampsilis, hanno sviluppato nei secoli e millenni una particolare forma del mantello, incredibilmente simile ad un’alosa, oppure una piccola perca. Uno di quei pesciolini, insomma, di cui il persico si nutre, estremamente realistico, con tanto di occhi, pinne e un accenno di scaglie. Così quello, timidamente qualche volta, altre con tracotanza, s’avvicina. E quando meno se lo aspetta…
Ciò che è statico, da tempo immemore, conduce un doppio gioco con le bestie deambulanti della Terra. La vegetazione che nutre le vacche, l’albero che dà le ghiande, il pomo splendido del melo, ciascun diverso estremo di quella diramazione, fa parte di un sistema. Ed è un meccanismo che prevede si, la perdita inevitabile di una parte insostituibile del proprio stelo, oppure ancora peggio, ciò che sboccia in primavera, poi compie metamorfosi stupefacenti e variopinte, ma in cambio…Manda il seme altrove. Nessun uccello può resistere al richiamo invitante del nudo embrione di albero, la mandorla gettata a terra. Sarebbe per lui, letteralmente, come lasciare dove sta la cioccolata! E per le creature superiori, ciò che serve non è altro che: un richiamo invitante, ancora più gustoso. Il frutto irresistibile dell’ora di pranzo; che se pure tu rimuovi attentamente, con forchetta, col coltello e lo stecchino, di certo questo non fa la scimmia, il cane, il porcospino. Siamo tutti camere d’incubazione, per la metà vegetativa del creato. Forti e duri predatori d’erbe d’ogni tipo, estremamente dotati dal punto di vista fisico (per lo meno, relativamente) ma soprattutto, specializzati. Tanto in alto sulla metaforica struttura dell’evoluzione, che ormai non possiamo neanche più scorgere le molte e variegate alternative, le molte vivaci strategie che scaturivano dal brodo primordiale. Come lancia la tua prole e dopo scappa nel tuo guscio, poi rifallo un’altra volta e così via…

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