Si cucina meglio con l’aiuto dello Shiba Inu

Mari-kun

Cani gioiosi, cani seriosi, barboncini attenti e bassotti iperattivi. Ogni razza ha il suo carattere che nasce da stereotipi spesso riconfermati: avete mai visto un pastore tedesco meno che educato? Un levriero che non sia…Veloce? Difficile poi distinguere tra quelli che siano tratti innati, geneticamente selezionati fino alla costituzione di uno standard ereditario, e quanto preconcetti, invece, siano il frutto dell’educazione ricevuta nelle dai principali quadrupedi di casa, sulla base di nozioni pre-acquisite dai padroni. Però guarda, cinofilo (amante del cinema peloso) siamo in un’epoca di cambiamenti. Basta digitare un indirizzo a caso di YouTube per ritrovarsi nel bel mezzo di una sovversione delle aspettative, una vera bailamme delle bestie scatenate. Uomini che vivono coi furetti, con le donnole, coi formichieri. Giusto l’altro giorno, faceva notizia un tipo dell’Alaska che si era fatto amico il feroce Gulo gulo, quello che in Italia chiamano ghiottone, mentre negli States da sempre presta il nome al più bestiale degli X-Men. La realtà è che tutti possono diventare tutto, previa l’adeguata dose di attenzioni, cibo e addestramento. Ma in una simile divergenza delle tradizioni, è pur sempre rassicurante ritrovare dei creativi che si affidano alla naturale spiritosaggine dell’animale cane. Un vecchio, caro e burbero amico, pure quando fa i dispetti senza una ragione chiara.
Questo ultimo video di Inosemarine (un nome che parrebbe per metà in giapponese, per il resto ispirato a quello dell’onnipresente corpo militare americano) assume la configurazione di una parodia. Cosa stia prendendo in giro, sarà chiaro a chi frequenta spesso i lidi rilevanti, e nello specifico quel beneamato canale di cucina, Cooking with Dog, in cui un’affabile signora nipponica si applica in ogni sorta d’improbabile manicaretto, mentre il suo stolido barboncino Francis la “assiste” restando perfettamente immobile sul tavolo della cucina. Ora, naturalmente la questione più appassionante della serie è l’incredibile forza di volontà dell’animale, quando chiunque abbia mai vissuto per un tempo medio con un quattro-zampe ben conosce la fame incontenibile che perennemente consuma la specie biologica dei divora-croccantini. Il Fido(In-) medio, posto di fronte a una ciotola di cibo delizioso e inusuale, dimentica persino il luogo in cui si trova, per meglio trasformarsi nell’approssimazione slinguazzante di un potente aspirapolvere; e non è che in effetti, pure quel particolare grigetto giapponese sia scolpito nel vero e proprio marmo, tanto che, specie negli ultimi tempi, parrebbe tendere all’agitazione nei momenti in cui la cuoca tira fuori le fette di carne per il ramen o altri ingredienti particolarmente succulenti. Qualcuno, ultimamente, tende a seguire le sue tribolazioni un po’ come si fa con le gare motoristiche della Nascar negli ovali: aspettando l’incidente.
E se invece di aspettarlo, un simile sollazzo a spese dei malcapitati, ce lo andassimo a cercare? Nessun problema. Basta andare da questo diverso provider d’intrattenimento che usa, per i suoi video, tutt’altra cosa che un grazioso e morbido frisè; ovvero, lo Shiba Inu, detto dagli amici Shibe, oppure più direttamente Doge. Il più enigmatico dei cani giapponesi.

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Gli uomini che parlano coi coccodrilli

Chito Dragon

Scaglioso e silenzioso, rapido e gioviale; strisciando faccia a terra sulla sabbia della palude Finca Las Tilapias, si avvicina di soppiatto al suo lucertolone. Siamo in Costa Rica, presso la piccola città di Siquirres, e lui è Gilberto Shedden detto Chito, l’unico individuo della storia che sia stato in grado di addomesticare un coccodrillo. Almeno, intendendo questo termine nel senso maggiormente realizzato: non siamo qui al cospetto di qualcuno che, semplicemente, si azzardasse a porgere il mangiare all’animale innanzi a un pubblico trasecolato (anche se talvolta usava fare pure quello) né di un folle che, tra sguardi allucinati, mettesse la propria testa nella bocca del dragone (benché: neanche ciò si fosse risparmiato, sempre per il sollazzo dei turisti danarosi) bensì di un vero e proprio rapporto d’affetto reciproco durato per ventidue anni, durante i quali l’individuo in questione si è sposato, ha messo su famiglia, è diventato una celebrità. Si è giovato di una nuova fonte d’introiti tutt’altro che trascurabile, godendo nel frattempo di una splendida e sincera amicizia con la presupposta belva del boschetto di mangrovie. Mentre il coccodrillo, allegramente, si ingozzava di pesci, coccole e fama largamente inaspettata. Non sarebbe dunque giusto affermare, nel prendere atto di una simile correlazione interspecie, che sia stata largamente benefica per entrambe le parti coinvolte? E non sarebbe bello, dall’oggi al domani, conoscere anche noi un mostruoso dio dell’acquitrino, da accarezzare, abbracciare e sbaciucchiare….
In questo estratto ufficiale del documentario Touching the Dragon, realizzato nel 2012 con la regia dei fratelli sudafricani Craig, il rinomato cameraman subacqueo Roger Horrocks si approccia all’arduo argomento da un’angolazione inusuale, che vorrebbe presentarci il buon Chito come l’ultimo depositario di una tradizione sciamanica ormai decaduta, in grado di offrire un metodo infallibile per rapportarsi alla natura. E nel corso di una serie di interazioni, condensate in un crescendo di sequenze preoccupanti, ci riassume e dimostra la storia singolare del coccodrillo in questione, noto con l’eloquente appellativo di Paco, che significa letteralmente “bel ragazzone” o “forzuto”.  Tutto ebbe inizio, a quanto pare, nell’estate del distante 1989, quando l’allora trentaduenne Chito, in viaggio lungo il fiume Parismina, scorse ai margini del suo sentiero il giovane rettile, ferito alla testa dal colpo d’arma da fuoco di un agricoltore, che stava proteggendo i suoi armenti dalla fame incontenibile della creatura. Difficile biasimarlo. Le circostanze esatte dell’episodio restano largamente nebulose, benché sia chiaro il seguito: la futura celebrità locale, impietosita dalla bestia, la portò via con se per adottarla temporaneamente, e nel corso di alcuni mesi la nutrì e curò, fino a un completo ristabilirsi del suo stato di salute. Quindi, considerando la realizzazione naturale del coccodrillo, tentò più volte di liberare l’adorato Paco in zone meno battute dal consorzio civile, per poi ritrovarlo ogni volta, impossibilmente, sulla veranda della sua bicocca, mentre aspettava il pesce quotidiano. Ora, non è esattamente chiaro quanto l’operazione fosse stata gestita in modo tecnologico e professionale. Una volta messo un dinosauro di 450 Kg sopra un camioncino e portatolo a qualche chilometro di distanza, riesce difficile immaginarsi la sua massa considerevole che corre lungo l’autostrada, tenendo la destra fino a casa del suo padroncino beneamato. Però è un’immagine poetica ed è anche giusto, alla fine, che la fiaba venga intrisa di un briciolo leggiadro di magia.

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Serpi d’acciaio, le spade più pericolose del Kerala

Urumi Sword

Dev’essere la quasi completa assenza di protezioni, esclusa una coppia di piccoli scudi rotondi, a dare un che di gladiatorio alla sequenza. Oppure, forse, il modo in cui i due contestanti si studiano a vicenda, girandosi attorno con fare minaccioso che non trova traduzione in gesti seriamente intenzionati a nuocere, visto lo svolgersi di quello che era assai probabilmente soprattutto uno spettacolo, mirato all’intrattenimento del pubblico pagante o digitale. “Vi state divertendo? Non siete qui per questo?” Sembra quasi di sentire con tono beffardo, prima e/o dopo che i due moderni depositari dell’antica tradizione delle genti Ezhava provenienti dallo stato del Kerala, con fragore clamoroso, inizino a danzare con la morte. O per essere maggiormente specifici con le loro saettanti urumi, queste spade assai particolari che potevano essere nascoste e trasportate ovunque. Pensateci: la qualità maggiore dell’acciaio è la durezza, ma immediatamente dopo quella, nella mente dei suoi primi fabbricanti, spiccava la sua innata flessibilità. Ecco qui un modo per trattare il materiale ferroso estratto dalle viscere del mondo, la cui purezza era tutt’altro che sicura, tramite l’aggiunta di un contenuto carbonifero particolare, in grado di renderlo diverso da ciò che era. Un filo più tagliente, un nucleo interno indistruttibile. Ovvero la certezza, nei propri scontri futuri, di disporre di un attrezzo valido a proteggere la propria vita. Fattore tutt’altro che trascurabile nei tempi precedenti alla moderna civiltà.
Così non era insolito, fin dal primo secolo a.C, che i coloni provenienti dallo Sri Lanka, inviati a pacificare fertili coste meridionali del sub-continente indiano per un ordine ancestrale del re Bhaskara Ravi Varma, si armassero delle progenitrici del riconoscibile talwar o tulwar, la scimitarra ricurva che tanto rassomiglia a quelle della tradizione turca. Ma la più classica delle armi bianche, il nostro simbolo della cavalleria, aveva un problema, soprattutto, nella società dell’India classica divisa in caste: non poteva scomparire sotto agli abiti comuni. Ed era probabilmente assai difficile giustificare la presenza di un tale ingombrante fodero alla vita di chi aveva insufficienti privilegi, sangue nobile o pretesti similari. Pensateci: è sempre stato da un simile presupposto, il bisogno di segretezza, che nacquero e fiorirono alcune delle arti marziali maggiormente amate dai coreografi dei nostri giorni. Non era certamente facile proteggersi da chiunque, inclusi i propri superiori nel consorzio societario, senza mostrarsi già pericolosi al primo sguardo. Le tecniche cinesi di combattimento con il kon, ovvero un semplice lungo bastone. Il nunchaku giapponese, evoluzione di un attrezzo per trebbiare il grano. La pipa, il cappello, il ventaglio da combattimento. E così anche le spade-frusta urumi, parte della tradizione marziale del Kalaripayattu, tanto flessibili da poter facilmente essere avvolte attorno alla vita e poi coperte con la cinta, oppure posizionate in modo tale che spuntasse fuori soltanto l’impugnatura, facilmente sottovalutata come fosse parte di un corto pugnale (nella variante moderna dell’arma, quest’ultima è indistinguibile da quella del tulwar). Mentre bastava un attimo, quando necessario, per srotolare l’inquietante implemento, ed iniziare a mulinarlo con ferocia inusitata. E pensate addirittura questo: nella variante prevista dalla versione usata nell’Agampora, la principale arte marziale dello Sri Lanka, l’urumi poteva presentare anche più di una lama flessibile, trasformandosi di fatto nell’equivalente metallifero del gatto a nove code. Il coraggio necessario per brandire una simile arma, in effetti, doveva essere soltanto di poco inferiore a quello di chi sfidasse il suo proprietario…

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Estraggo il succo dai computer per produrre l’oro

Gold Scrap

Ciò sei adesso, noi lo eravamo in precedenza. Quello che noi siamo, tu lo diventerai: ceneri o cadaveri, ossa sbiancate dall’incedere del tempo. Un ciclo progressivo di rinnovamento che si blocca all’improvviso, dal prima verso il dopo, l’oggi e poi il domani e quindi l’altro ieri, giusto quando abbiamo superato la coscienza… Non c’è nulla di vitale, finché l’esistenza verrà preservata in forma fossile, ben oltre ogni possibile speranza di tornare indietro. Finché all’improvviso, Jurassic Park (il cinema letterario, soprattutto in lingua inglese, sa creare neologismi) dalla zanzara ante-mondana, comodamente surgelata dentro l’ambra resinosa, si estrae il codice genetico da usarsi nella resuscitazione. E tutto si ricicla, addirittura l’esistenza! Dei dinosauri, come gli altri umili resti: creature quasi leggendarie con i bit ormai appannati, schede grafiche desuete, processori Pentium 2. I vecchi PC, strumenti del demonio già usati negli uffici delle decadi trascorse o spesse volte nelle case, per giocare a fare i controllori del bilancio familiare, et cetera si aggiunga a profusione. Del resto, l’acido è già pronto. Ciò che resta è fare a pezzi i loro corpi.
Perché un sistema complesso, sia questo biologico o del tutto mineralizzato, artificiale, ha pur sempre bisogno di elementi di raccordo, ovvero le giunzioni tra i diversi organi della sua essenza. E chiunque abbia mai messo mano dentro quel cassone che risiede accanto al monitor, svitato i suoi bulloni e approfondito i componenti, ben conosce il punto più splendente ed aureo (per quanto concerne la materia prima) di ciascuna scheda di supporto alla CPU: l’elemento di raccordo con la scheda madre che noi chiamiamo informalmente pettine per il suo aspetto zigrinato, mentre gli americani definiscono, con diversa analogia di forma, semplicemente finger (il dito). Il che in questo caso è una fortuna, poiché ha permesso all’alchimista di applicare un titolo che fosse sia corretto, che davvero accattivante. Condiviso guarda caso, con il terzo opus della serie di James Bond – 007 Missione: Goldfinger! C’è dell’oro in Alabama, c’è dell’oro giù nella miniera, vecchio mio. Ma tu ci devi credere, per meritarti di trovarlo.
Lui ci aveva creduto eccome, all’incirca verso un annetto fa, quando sotto lo pseudonimo allusivo indeedItdoes (ovvero: Certo Che Lo Fa!) Si era preso in carica di divulgare un meccanismo chimico, complesso e molto funzionale, per corroborare la ricchezza personale utilizzando scarti informatici raccolti in giro. Se ne parla, talvolta, con sentito dispiacere: il modo in cui un qualsiasi tipo di calcolatore, a partire dal proprio vecchio cellulare fino alla più potente delle workstation (non si sfugge all’obsolescenza) contenga una quantità relativamente trascurabile di sostanze potenzialmente preziose, come il nickel, il piombo, il rame e sopratutto l’oro puro, ma legate in modo quasi indissolubile alla plastica dei componenti. Separarle non è facile. Tanto che persino lui, per farlo, ha scelto di tenere solamente il meglio filosofico, quell’agognata, augusta Pietra di una volta…

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