Vuoi un computer tascabile da 9 dollari? Prova con C.H.I.P.

CHIP Computer

Qual’è l’oggetto che può permetterti di guadagnare, senza colpo ferire, fino a 900.000 dollari in 6 giorni, con ancora 24 di frenetica raccolta fondi innanzi a te, la tua compagnia, il progetto e la trovata di un’idea davvero…Nuova, eppure non del tutto originale. Economica ma non raccogliticcia, pervasiva, scevra di specifiche limitazioni settoriali: solo un computer. Per farci quello che vuoi: scrivere, navigare online, disegnare, programmare o perché no, giocare (titoli dal comparto tecnico poco esigente) e tutto questo al costo di un paio di colazioni, oppure una rivista e tre caffè. Che il computer sia un oggetto raro e prezioso, quasi pari all’oro nel rapporto peso/prezzo e rarità, è un concetto ormai desueto e superato, che persino l’uomo della strada relega a un passato vago e nebuloso, i cosiddetti Vecchi Tempi, un periodo che si estende da 10-20 anni fa, lungo il ciclo delle ere, fino alla costruzione della macchina di Antikythera, l’astrolabio del secondo secolo a.C. ritrovato nel 1900 a Cerigotto, tra Creta ed il Peloponneso. Ma persiste, nell’opinione comune, questo senso per cui meccanismi tanto complessi siano in qualche modo degni di costare cari, se non altro per l’importanza che rivestono le mansioni delicate in cui li usiamo quotidianamente. Ciò ha fatto la fortuna di determinate aziende che, grazie a un costo di produzione della componentistica di base relativamente basso, hanno potuto investire nell’estetica progettuale, nella qualità e solidità dei materiali esterni di ciascun dispositivo. È il concetto, questo, di un computer come oggetto di prestigio e lusso, un po’ come l’orologio da polso della tradizione, dispositivo tecnico realizzato per costare, perché “Ne compri solamente uno…” E quindi “A cosa serve risparmiare!” Ma c’è una cruciale differenza, tra ciò che è analogico ed il moderno mondo digitale, ovvero il medium di collegamento tra l’utente e la sua macchina: l’interfaccia. Che necessariamente è virtuale, e in quanto tale, non ha limiti di qualità condizionati dal comparto immanente della parte hardware del tuo meccanismo. In quanto tale, esiste immutata nel computer preso ai grandi magazzini, come quello costruito ad-hoc per svolgere funzioni d’elevato impegno procedurale; non ci vuole molto a far fluttuare un puntatore tra le icone, e invero, svolgere il 90% dei compiti utili affrontati dai computer casalinghi. Ed è soltanto quel 10% residuo, oltre al sentito desiderio di fare andare videogiochi di ultima generazione, che può davvero giustificare la spesa di migliaia d’euro per un laptop o un PC, un Mac, quello che vuoi…
Per tutto il resto, c’è C.H.I.P. Un dispositivo il cui acronimo dal doppio senso non viene spiegato, con il problema conseguente che alcuni tra i meno ferrati in materia informatica l’avevano scambiato, in un primo momento, nella nuova proposta di un innovativo processore a basso costo (il “chip” appunto) e avevano risposto con un netto: “Non fa per me.” E invece guarda quello slogan subito sotto: “[it] does computer things!” C’è tutto quello che ti serve per iniziare, continuare e portare a termine il/i tuoi progetti. Si tratta per l’appunto di una piccola scheda integrata, con uscita video, porte di collegamento USB (una si occupa dell’alimentazione) e addirittura un ricevitore del Wi-Fi, per raggiungere il mondo senza connettersi fisicamente a una rete. Fin qui nulla di strano, se non fosse per il prezzo di cui sopra, nei fatti un aspetto tutt’altro che marginale. Disporre di un dispositivo informatico completo ad una simile cifra, irrisoria persino nel panorama odierno della digitalizzazione omni-pervasiva, lo rende accessibile ad ampie fasce d’utenza e realtà sociali dai notevoli costi operativi e di gestione, vedi le scuole pubbliche di mezzo mondo. Ed era stata proprio questo ambiente, in effetti, a fornire il pretesto di creazione originaria del precedente rappresentante di categoria, quel Raspberry Pi che molto aveva fatto già parlare nel 2012, comparabile nel prezzo, prestazioni e dimensioni a C.H.I.P, benché anche il modello più economico non sia mai riuscito a costare meno di 25 dollari. Ma va pure considerato come, a distanza di due anni, il mini pc con il lampone sia ormai proposta in varie configurazioni, tra cui quella model B da 39 dollari (fonte: Amazon americano) fornita di un ottimo quad-core ARM Cortex-A7 da 900Mhz e un GB di RAM, contro l’R8 ARM single-core da 1Ghz e i 512 di RAM del nuovo arrivato, preso direttamente in prestito dai tablet della Allwinner, una compagnia cinese. Del resto, cosa c’è da meravigliarsi? Ha un costo all’utente finale del 25% del suo rivale, questo piccolino!

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La precisione della stampa ad acqua computazionale

Computational Hydrographics

Tirare fuori dalla vasca un gatto, normalmente, è un gesto che comporta unicamente la rimozione delle proprie stesse mani dalla schiena del felino, ove erano state apposte con fermezza per immergerlo nel presentarsi del periodico frangente del bagnetto. Alla cessazione di un tale stato di gentile costrizione, l’animale lancerà immancabilmente un forte grido, a metà tra il soffio di uno stantuffo e la nota stridula di uno stonato pianoforte, per poi dardeggiare verso l’alto con le unghie sguainate ma, si spera, ben lontano dalla faccia del suo amato padroncino. Molto problematico, preferibilmente da evitare. Eppure tristemente, pienamente necessario. A meno di avere a disposizione un micio artificiale, perfettamente in grado di restare immobile per tempi brevi, medi o pure lunghi, senza neanche un lieve muoversi della sua coda. Come quello, bianco quanto l’osso, che la studentessa Changxi Zheng ci ha presentato l’altro giorno presso il suo canale, assieme alla stupenda evoluzione di quello che era e resta un approccio molto antico alla colorazione degli oggetti, ovvero la sospensione degli inchiostri sulla superficie calma di una vasca ad immersione. All’interno della quale o di una similare, molto presto costruita sulla base del principio qui mostrato, saranno assai probabilmente trattati gli oggetti che di più si prestano all’applicazione di livree: caschi, borchie o cerchioni, calci dei fucili, carene delle moto, strumenti musicali, scocche esterne per computer… Chi più ne ha, ne inzuppi, come biscotti incommestibili ma assai preziosi, per l’accrescimento del valore intangibile della personalizzazione individuale, prima o poi. Perché non è ancora il tempo di bagnarsi le mani: siamo in fase prettamente sperimentale, ovvero durante l’annuale conferenza del SIGGRAPH, l’occasione di presentare al mondo le ultime o recenti evoluzioni nel campo estremamente vasto della grafica virtualizzata. O come in questo caso, l’applicazione inversa della stessa cosa, cioè un processo, totalmente innovativo, che prende il concetto digitale della texture (la resa di un’immagine per così dire “spalmata” su dei solidi a tre dimensioni) e lo trasla nel mondo reale, facendo interagire le due tecnologie della scansione volumetrica e la stampa idrografica, per l’applicazione precisa al millimetro d’immagini di ogni complessità. Bisogna vederlo, per crederci.
Il video si apre con la dimostrazione dell’approccio classico, che consiste nell’impiego largamente manuale di una pellicola galleggiante biodegradabile, contenente un pattern grafico ripetuto ad infinitum. Con il dissolvimento dello stesso nel fluido trasparente per eccellenza, si genera un sottile velo variopinto, pronto a legarsi indissolubilmente con il primo oggetto solido che dovesse passarci attraverso, vedi quelli già citati, oppure come nel presente caso, la sagoma della VW Beetle che il pioniere dell’informatica Ivan Sutherland misurò famosamente nel 1972, destinata a diventare una figura standard nel campo della grafica tridimensionale. Una volta completata l’immersione, tutto ciò che resta è disperdere la vernice con un rapido colpo di mano, affinché in fase d’estrazione non si verifichino indesiderate sovrapposizioni. E il gioco è fatto! Tale tecnica specifica, oggi fatta risalire ad un brevetto registrato nel 1982 ad opera di Motoyasu Nakanishi, presenta grossi lati positivi: è più veloce e semplice dell’applicazione di un vinile, può impiegare stampe di quasi qualsiasi complessità o risoluzione, può durare (previa l’applicazione successiva di uno strato di vernice protettiva trasparente) per l’intera vita del prodotto sottoposto al trattamento. Ma ha una singola, enorme limitazione: l’allineamento del prodotto va necessariamente effettuato a mano, vista la fluidifica natura del medium di sospensione. Ciò significa che, essenzialmente, può essere impiegata solo nella realizzazione di figure senza dei confini definiti, come un succedersi di macchie in stile militare o l’approssimazione di un particolare materiale, vedi ad esempio le venature del legno, il marmo, oppure la spazzolatura del metallo. In campo automobilistico, l’idrografica è impiegata spesso per simulare nel veicolo degli accenti in carbonio, metallo estremamente leggero e resistente, spesso usato nei veicoli sportivi di fascia alta. Ma pensate per un attimo, adesso, di potervi approcciare a tale soluzione da un lato precedentemente inesplorato: quello dell’automazione a controllo numerico. Allora si potrebbe immergere nell’acqua una figura dalla forma anche complessa, allineandovi alla perfezione occhi, naso e bocca. Addirittura una coda serpeggiante di felino, a questo punto, potrebbe ricevere l’estetica fedele del leopardo. Anzi, perché immaginare, quando basta…

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Anni ‘30: l’italiano che precorse il parkour

John Ciampa

Prima che inventassero le vertigini, quando i palazzi ancora non avevano antenne paraboliche, inferriate automatiche, videocamere di sorveglianza. Ma guarda: gli stessi muri che campeggiano ancor oggi, immobili e immutati, tranquillamente in attesa di colui che fosse tanto folle, o coraggioso, da scalarli fin sopra le nubi con l’unico scopo di poter gridare: “Sono io, sono il re.” Si, però di cosa? Della giungla? Di un mondo in bilico tra le due guerre, da princìpio e ancora prima di poter dirsi famoso, guadagnandosi nomignoli come “Il Tarzan di Brooklyn”, “La mosca umana” o “Il fantasma volante”. E ci sarebbero voluti ancora molti anni, occupati da una scintillante carriera tra i tendoni viaggianti e un carico di tigri ed elefanti, perché il circo di Larry Sunbrock potesse vantare sui suoi manifesti la presenza di un pezzo davvero da 90: “Ciampa, la scimmia che oscilla [a parecchi metri da terra]”. E non fu certo un caso, se fu proprio quello il nome scelto all’apice del suo successo. Per tutte le macchine che abbiamo costruito, sotto i tetti e sopra i ponti dei propositi e dei corsi delle circostanze, ciò che ci caratterizza resta soprattutto quello: due mani, due gambe e quattro estremità, variabilmente prensili, di cui almeno un paio funzionali all’apertura di una splendida banana. E quelle assieme alle altre, assieme valide ad arrampicarsi. Come l’italo-americano nato nel ’22 facente di nome John. L’uomo, il primate. Il profeta di quella disciplina che sarebbe stata codificata, soltanto nella Francia di molti anni dopo, con il termine de L’art du déplacement (l’arte dello spostamento).
Pensa. Un creativo di fama prende un limone e lo mette sopra un piedistallo ornato, affermando: “Questa è una metafora della complessa condizione umana.” E ciò genera, tra i circoli dei critici del suo settore, fiumi di parole ed ambiziose discussioni, corroborate da un supporto filosofico di alta accademia. La società degli individui di cultura, o almeno chi tra loro segua simili questioni, ne esce corroborata ed in un qualche modo più ricca, più consapevole del suo contesto dei momenti successivi. Di chi è davvero, il merito di un simile successo? I piedistalli esistono da secoli, così come gli agrumi. Dunque non è stato certo il primo caso di un simile incontro tra le parti gialla e verticale, tanto pregnamente giustapposte da costui. Così dovrebbe dirsi del parkour, il rutilante, sobbalzante insieme di movenze, tecniche ed approcci al pericolo, che oggi sorregge una valida serie di valori del mondo moderno, esemplificati attraverso letteratura, cinema, fumetti e videogiochi (non si può, non mi riesce d’ignorare l’ultima categoria) la cui nascita è soavemente difficile da collocare. Che fu inventato, forse, in ambito militare, dall’insegnante di educazione fisica Georges Hébert (1875-1957) che credeva nella preparazione dell’individuo ad essere utile in qualsiasi situazione d’emergenza, grazie all’impegno quotidiano lungo un susseguirsi degli ostacoli in sequenza, quelli che sarebbero poi diventati le tipiche palestre all’aria aperta dei moderni parchi cittadini. Oppure nacque, in netta contrapposizione, dalle gesta spontanee di Raymond Belle, figlio di un dottore francese ed una donna vietnamita, separato dalla sua famiglia a causa della prima guerra indocinese (1946) che per imparare a sopravvivere tra le strade di Da Lat s’introduceva abusivamente nelle basi militari, usando in gran segreto quei circuiti di pioli, pneumatici e filo spinato. Perché non c’è parkour, senza un certo grado di ribellione e spirito contrario alle comuni norme della società civile. Ma bando al romanticismo: in quel regimento dei sapeurs-pompiers dell’esercito di stanza in Vietnam, lui quindi s’arruolò, diventando celebre come campione di scalate nelle dimostrazioni pubbliche di abilità.
Il parkour come pura arte, ovvero fine a se stesso o all’elevazione filosofica dei suoi fruitori (osservatori, presunti emulatori) arrivò soltanto con il figlio di quest’ultimo, quel David Belle nato nel 1973 a Fécamp in Francia, il fondatore e mente del famoso gruppo Yamakasi (dalla dicitura congolese ya makási, la “forza dell’individuo”) Che creò la serie di regole e precetti comportamentali che oggi formano la prassi operativa della disciplina. Ma se il filo conduttore ufficiale è questo qui narrato, che dire di tutti quegli altri, coraggiosi, scriteriati, folli scalatori delle mura certamente pre-esistenti? Accidentali scopritori, semplici scavezzacollo…Beh, a giudicare delle imprese su pellicola di quel John Ciampa, direi proprio di no.

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Il calligrafo dei loghi commerciali

Seb Lester

Il punto dello scibile umano è che può anche essere, come dice la parola stessa, diviso, ma assai più spesso è un solo tratto che fluisce, come la punta di una penna usata nel corsivo. Così come non esiste una separazione netta tra l’acqua e l’aria di un oceanico orizzonte (poiché l’ossigeno fluisce tra l’una e l’altra) neanche si può affermare che attività come la pittura, la tipografia e la grafica non abbiano diversi punti di contatto, giungendo a sostenersi l’una con l’altra esattamente come i muri di un indistruttibile edificio. Il quale, anzi! Cresce a dismisura, con ciascuna ennesima espressione del bisogno di dar forza all’arte. Toccala, tracciala, mettila da parte. Come ha fatto il creativo pubblicitario Seb Lester in questi ultimi quattro anni, prendendo lo spunto da impreviste e tutt’altro che positive casualità del fato, per spegnere il computer e impugnare la sua versione forse più portatile, il semplice tubo con l’inchiostro dentro ed una punta che…Ascolta, non è veramente necessario usare una complessa descrizione. Qui si tratta solamente di tracciare, sulla base di nozioni ormai acquisite, l’asta e il trave della A, le doppie gobbe della B, l’asola aperta di C-olei che viene dopo. Finché a un certo punto, come sa chiunque abbia mai giocato a scacchi, Sudoku o Tetris per un tempo medio, l’astrazione porta alla sinestesia. Ciò che era un semplice segno sulla carta, gradualmente si guadagna nuove, imprevedibili connotazioni. La D è impostata, quanto stolidi pinguini all’aeroporto. E poi si va per Favole, Grandi Hits per Internazionale Latitudine del Mondo e così via, fino Nirvana dell’Ottima Calligrafia […] Ma non è un gioco, questo. Qui si tratta di trovare vie d’accesso differenti, con l’obiettivo specifico di farsi un nome e una carriera.
Basta prendere in considerazione la particolare scelta dei modelli: non chi è venuto prima, l’insegnante, il collega esperienziato, lo scrittore tecnico di manuali, ma colui/lei che è già arrivato e il suo successo giace, come niente fosse, sotto gli occhi di noi tutti. O per meglio dire, sopra l’etichetta di ciò che davvero consideriamo importante nella vita: le nostre bibite, scarpe, scatole di hamburger carichi di salse e foglie di lattuga. Vedere l’inglese Seb Lester che traccia questi loghi, provenienti in buona parte dal mondo del commercio ma anche direttamente dalla carta intestata di alcune produzioni cinematografiche o gruppi musicali, permette di capire al primo sguardo la complessa situazione tipografica in cui siamo. Come un bambino che non sappia comprendere la provenienza del barattolo di tonno (cresce sugli alberi? Viene dalle fabbriche?) Il cliente tipo tiene in mano oggetti con dei piccoli emblemi, oppure sfoggia stemmi sul vestiario; e non per uno, né per alcuno di essi, si applica a schematizzare la fondamentale essenza. È la dannazione del creativo moderno, che per sopravvivere rinuncia alla sua identità. Così come non esiste l’inventore della “sedia” oppure del “cucchiaio”, il ricciolo aerodinamico e il doppio archetto d’oro sono, rispettivamente, parte di altrettanti brand totalizzanti, così pervasivi che hanno un suono ed un contesto estremamente definito. Sono diventati, per ogni principio delle circostanze, essenzialmente: pittogrammi. Siamo come gli aruspici della Cina arcaica, che leggevano il futuro nelle ossa delle tartarughe, ma neanche lo sappiamo. Tutti, tranne chi, istintivamente, traccia il segno dell’Imperatore sulla carta, senza alcun tipo d’assistenza digitale tranne quella del minuto, del secondo e l’ora della verità. Ed anche se è difficile applicare, in questo caso, il tipico paradosso ipotetico della cessazione immediata d’ogni gruccia tecnologica: “Immagina, un giorno: niente più corrente elettrica, questi grafici moderni son finiti…” (Ma in assenza di mass media, a cosa serve la pubblicità!?) Va pur detto che tracciare con la penna veramente stretta nella mano non è un semplice strumento per la crescita interiore. Può offrire, anzi, ottimi spunti verso determinati approcci, un tempo semplicissimi e diretti, oggi sorpassati dallo strapotere dei vettori bi-tri-quadri-dimensionali; diciamo, perché il Nuovo è sempre meglio del Vecchio? Però pensa pure a questo: se tutti vanno nella stessa direzione, il visionario e innovatore si ritrova come l’ultima persona nella fila. Attardandosi e pensando, anch’egli, al suo futuro.

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