Il palazzo che appassisce nella giungla dal declino dell’economia turistica giapponese

Non è particolarmente facile da presuppore l’inclinazione a sopravvalutare il potere del cambiamento che può materializzarsi da una bolla. L’emersione di una condizione, dal punto di vista socio-economico, prodotta da presupposti transienti, che trova la sua formazione e cresce, cresce a dismisura provocando vasti presupposti di ricchezza e sostenibilità operativa. Ma le ragioni del commercio, così come quelle che riescono a determinare i leciti passaggi di un’intera epoca, risultano essere il prodotto più che altro di un fondamentale senso di fiducia. Al disgregarsi del quale, nessun altra cosa resta, che seguirlo silenziosamente nell’oblio. Se davvero “silenzioso” può esser definito tutto questo? L’ansiogena e continuativa decadenza, messa in mostra con impressionante nitidezza dagli esploratori in stie-urbex degli agglomerati derelitti, ma anche di quegli elementi che in buona sostanza erano soliti ruotare, tutto attorno all’opulenza del passaggio delle antiche scintille di gloria. Morte non è il giusto termine per definirlo. Né fondamentale ed irrecuperabile dilapidazione. Dinnanzi all’effettivo aspetto di una cosa come questa, l’imponente, straordinario e fondamentalmente unico palazzo dello Hachijo Royal Hotel, un tempo la più grande e lussuosa delle strutture d’accoglienza nell’intera regione amministrativa tokyoita. Pur trovandosi effettivamente situata in mezzo al mare delle Filippine, presso le spiagge laviche e nerastre dell’omonimo isolotto di appena 63 Km quadrati. Abitato al censimento del 2018 da 7.522 persone, trasferitosi su questi lidi a causa del miracolo definito verso la metà del secolo recentemente occorso “Le Hawaii giapponesi” o “Hawaii orientali” in forza del suo clima tropicale, una cultura distintiva e massicci investimenti per creare resort di siffatta natura. Eppure nulla, strutturalmente, che possa effettivamente venire paragonato a questo: oltre 4.000 metri quadri di stridente architettura modernista, arredata come un palazzo rinascimentale della vecchio Francia e sormontato da un’improbabile cupola sferoidale, affine a quella di un luogo di culto del Medio Oriente. E di fronte una grossa statua equestre di… Qualcuno, che dopo ricerche maggiormente approfondite si rivela essere niente meno che il fondatore ed originale costruttore della struttura Eiji Yasuda, che negli anni ’60 seppe dimostrarsi in grado di condurre a sublime coronamento quello che potrebbe definirsi come il sogno di molti. Ma che oggi resta più che altro mineralizzato, stolido e indefesso dietro l’effettivo schermo impenetrabile di vegetazione plurima e virulenta…

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Pungente! Torna dal profondo un granchio dall’aspetto micidiale

Un oceano vario e diversificato, un abisso senza fondo e quasi totalmente privo d’illuminazione. Dove innumerevoli punti di vista virtuali, le finestre semoventi offerte dai ricercatori con le loro videocamere divulgative, mostrano abbaglianti esseri perduti nell’oscurità, creature inusitate dalla forma ed una vita particolarmente difficili da concepire. Qualche volta, inevitabilmente, gente compie l’errore perdonabile di ritornare sui propri passi. Nel vasto e inusitato spazio che è il Web. Così il titolo, fatto rimbalzare a gran voce: “Nuova specie scoperta nel Mar dei Caraibi! Siòri vènghino, a veder la belva tremebonda che somiglia a un mostro alieno da sconfiggere al completamento di un videogioco!” Omesso il nome, proporzioni, luogo esatto e circostanza dell’avvistamento in questione, perché poco conduttivi all’incremento delle interazioni del pubblico e conseguenti opportunità di guadagno (di consensi? Entrate pubblicitarie?). Oltre al “piccolo” dettaglio che l’intera sequenza d’immagini potrebbe o dovrebbe rappresentare nello schema generale delle cose un ritorno nostalgico ai bei tempi andati. In quanto una più attenta datazione avrebbe collocato l’esatta contingenza ad un periodo di otto anni fa, durante una delle spedizioni pregresse di quella che costituisce probabilmente al giorno d’oggi la singola nave da ricerca oceanografica più famosa al mondo. E c’è parecchio da condividere, per l’ennesima, nei commenti empatici del giovane equipaggio dell’EV Nautilus, di fronte al primo contatto con questa creatura qualche centinaio (o migliaio?) di metri sotto la superficie dello stretto di Anegada, un tratto di mare particolarmente burrascoso situato tra le Isole Vergini ed Anguilla famoso per i suoi vulcani sommersi ormai sopiti da tempo, tanto inviso ai marinai dell’era coloniale da esser stato soprannominato “Oh-my-god-a Passage”. Una forma rosea e spigolosa oltre ogni modo, con plurime ramificazioni sovrapposte dislocate alla maniera di un frattale. Ed otto zampe visibili, l’ultimo e quinto paio ben nascosto sotto il carapace che a una più puntuale analisi, si trova rivolto con il dorso in direzione dell’obiettivo del ROV (drone sottomarino) di turno. Dimostrando e dichiarando in fine al mondo di trovarsi nella fattispecie innanzi all’ennesimo risultato di qualche millennio di carcinizzazione, ovvero quel processo di convergenza evolutiva che conduce in modo inesorabile ciascun crostaceo ad assumere attraverso le generazioni la forma di un granchio. Il che non toglie, d’altra parte, l’opportunità di osservare stili e soluzioni particolarmente varie, inclusa la corazza dagli aculei strabilianti di questo animale rivelatosi all’epoca impossibile da catturare con i metodi convenzionali dell’aspiratore di esemplari a controllo remoto, e perciò classificato empiricamente come un probabile rappresentante del genere Neolithodes. Nient’altro che un granchio reale rosso, in altri termini, del tutto affine a quelli catturati in significative quantità da un industria della pesca largamente internazionale, famosa all’opinione pubblica per il tramite del reality televisivo Deadliest Catch. Sebbene neanche i più esperti protagonisti della serie sarebbero stati felici, di trovarsi a dover districare dalle reti una creatura dagli aculei dislocati in una così problematica maniera…

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La tana del drago nell’occhio del Mar Cinese Meridionale

C’è una dose non indifferente di saggezza nel sapere popolare, che affondando le radici oltre i confini dell’antichità permette, molto spesso, di trovare una via d’accesso alternativa alla verità. Folklore, dicerie, discorsi tramandati, cognizioni come quelle che in un sito a largo delle isole di Paracelso, arcipelago situato tra il Vietnam e le Filippine, potesse sorgere il palazzo del Re Drago dei Mari Orientali, un Dio delle Tempeste portatore di tifoni ed altre immisurabili devastazioni ai danni dell’umanità. Ovvero il luogo dove Sun Wukong, l’importante personaggio letterario noto in Occidente come il Re delle Scimmie, al principio del suo viaggio più famoso si recò per prelevare l’arma micidiale del Ruyi Jingu Bang, un colossale pilastro dall’estremità dorata del peso di 7,960 Kg, capace di assumere la grandezza di un bastone quando veniva brandito o addirittura ridursi a quella di un’ago, per essere riposto dietro l’orecchio dell’indisciplinato eroe. Ma cosa c’era effettivamente, in questo particolare tratto di mare, da poter permettere una simile associazione d’idee? Nient’altro che un buco (azzurro) formato da processi preistorici e a dire il vero sufficientemente profondo, coi suoi 300,89 metri, da risultare il più significativo al mondo. Tecnicamente una dolina, in altri termini, benché probabilmente non formata da meri processi carsici, bensì l’ancestrale risultanza di una grande glaciazione, al termine della quale il cambiamento del livello delle acque e le temperature vigenti causarono un grande vuoto dalla forma approssimativamente conica, semplicemente troppo vasto per essere colmato dai sedimenti. Tra il dire e l’esplorare ad ogni modo, come avrebbero potuto confermare i tre compagni dell’epocale itinerario verso l’India compiuto da Sun Wukong alla ricerca dei sutra buddhisti, c’è di mezzo un’effettiva presa di coscienza del mondo accademico e l’accumulo di fondi sufficienti, poiché organizzare spedizioni verso il mondo degli abissi non è cosa facile, né in alcun modo alla portata di tutti. Il che permette di collocare un primo approfondimento alla questione soltanto a partire dalla metà degli anni 2010, quando una serie di studi sono stati pubblicati in rapida successione ad opera di enti oceanografici ed università cinesi, atti a documentare per la prima volta scientificamente il luogo destinato ad acquisire fama internazionale con il nome di Dragon Hole (let. Il Buco del Drago) o la dolina di Yongle (永樂) dal nome del terzo imperatore della dinastia Ming. Con la prima spedizione compiuta nell’agosto del 2015 ad opera dell’Istituto per Protezione dei Coralli mediante l’utilizzo di una particolare barca dal fondo piatto, ancorata in modo tale da restare stabile nel centro esatto del foro, mentre un sottomarino telecomandato Video Ray Pro 4 si occupava di fare quello che nessun altro, dopo il divino scimmiotto immortale, si era mai azzardato a fare: oltrepassare il punto divisorio dell’aloclino, dove l’acqua con una concentrazione salina differente manca di riuscire a mescolarsi con quella del mare circostante. Formando una barriera per l’ossigeno, i pesci ed ogni altra forma di vita tipica del Mar Cinese Meridionale…

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Gatti cosmici miracolosi, un miagolio propizio dalle ceneri del “nuovo” Giappone

Infiniti mondi possibili e altrettanti valichi tra i loro confini, spazi e intercapedini tra la semplice visione razionale dell’Universo. Tutto ciò il tipico felino domestico, nell’opinione popolare di molte culture indipendenti, può riuscire a percepire ed interpretare tramite il potere innato di relazionarsi con l’ineffabile, impercettibile, trasversale realtà immanente. Luoghi dove il rapporto tra le dimensioni contrapposte di creature ed oggetti, spesse volte, trasformano l’assodato in semplice apparenza, permettendo a simili creature di diventare progressivamente più grandi e trasfigurarsi, fino a raggiungere l’aspetto di strane e memorabili decorazioni urbane. Felini… In tuta spaziale… Alti 2 metri e 50, che osservano il passaggio della gente in vari luoghi della cittadine di Hakata (Fukuoka) e Nihonmatsu (Fukushima) sorvegliandone l’aspetto più traslucido e gli inconoscibili pensieri. Quasi come se l’estranea energia accumulata durante le ore diurne, successivamente al tramonto dell’astro solare, potesse permettergli l’accumulo energetico inerentemente necessario. Per accendersi e risplendere, come fari di speranza in un oceano di potenzialità vanificate, strade senza sbocco nel tristemente frainteso stradario del tempo. L’errore che denuncia e denunciava nei suoi trascorsi, in modo ancor più enfatico, l’autore di una simile scultura Kenji Yanobe, che della sua particolare interpretazione della pop-art contemporanea ha fatto una sorta di bandiera, utilizzabile per coniugare certi aspetti della comunicazione giapponese con la presa di coscienza del nostro presente, avvenire e quello stato di casualità incombente che prende il nome di “passato-futuro”. Così come, per tornare alla visione sempre propedeutica di strani mondi in strane linee temporali, il mondo negli anni ’90 potrebbe essere stato devastato dall’occorrenza della spesso paventata Catastrofe Nucleare. Relegando gli uomini, donne, bambini e i loro animali domestici a vivere all’interno d’indumenti o rifugi protettivi, del tipo a cui l’autore fu associato per svariate decadi attraverso la sua caratteristica produzione d’artista. Mentre le sue più recenti sculture feline, di cui esistono una mezza dozzina di versioni cromaticamente distinte, dislocate a partire dal 2017 in diversi luoghi tra lungomare portuali, centri cittadini, un ostello della gioventù ed il Dannohorin-ji buddhista di Kyoto parlano se non altro di una possibile rinascita e visione di speranza, nella maniera largamente esemplificata dal titolo dell’opera seriale: Ship’s Cat (il Gatto della Nave) dove l’auspicabile battello, impreziosito e reso interessante dalla presenza del peloso e antico amico dell’umanità, si presenta nella guisa prevedibile di una creazione in grado di vagare non soltanto per i mari terrestri, ma anche e soprattutto oltre i permeabili confini dell’atmosfera, fino a potenziali nuovi luoghi di scoperta e realizzazione dove, almeno questa volta, vorremmo riuscire a non introdurre accidentalmente le voraci piccole zanne del ratto nero. Facile? Probabilmente no. Magari persino impossibile. Ma tutto resta sempre possibile, nel favoloso & variopinto regno dell’immaginazione…

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