Reti neurali a Nazca: la tecnologia che in un colpo ha quasi raddoppiato i celebri geoglifi peruviani

Non è sempre scontato definire la difficoltà di un compito, soprattutto di fronte ai limitati metodi analitici del senso comune. Così come notarono i cultori di un certo ambito di scienze, per così dire, creative, alle prese con alcuni dei traguardi monumentali raggiunti dalle civiltà del mondo antico. Luoghi abnormi e fuori dalle convenzioni, ove l’applicazione di un’intelligenza allenata poteva agevolmente subentrare alla mancanza di strumentazioni tecnologiche fornite dai tempi odierni. Alieni, esseri ultradimensionali, miracolose intercessioni da un piano parallelo, sono solo alcune delle giustificazioni accampate a partire dagli anni ’60, per l’esistenza della letterale enciclopedia d’immagini dall’estensione superiore a quella di un campo da calcio a Nazca, Perù. Di uccelli, pesci, balene ed altri animali, ma anche meri intrecci geometrici o figure misteriose, la stragrande maggioranza delle quali tracciate con una precisione che parrebbe possibile soltanto mediante l’utilizzo di un punto di vista sopraelevato, come quello offerto dalle ali di un aeroplano. Lo stesso tipo di velivolo, incidentalmente, utilizzato fin da subito per redigere una mappa ragionevolmente completa di quel repertorio imponente, il cui scopo ancora adesso sembra particolarmente arduo da identificare. Un’operazione tutt’altro che semplice, in funzione degli oltre 50 Km quadrati coperti ed i 1.300 di linee complessive scoperte, almeno fino all’iniziativa compiuta da un team di scienziati dell’Università giapponese di Yamagata, utilizzatori di un approccio divenuto possibile soltanto grazie agli sviluppi tecnologici degli ultimi anni. I cui risultati, pubblicati sul finire dello scorso settembre sulla rivista scientifica PNAS parlano di un letterale cambio di paradigma capace di sovvertire largamente la portata dimensionale dell’intera questione. Grazie alla partecipazione di nuovo compagno accademico: l’intelligenza artificiale, chi altri?
Ora è necessario premettere, a tal proposito, un’importante distinguo. Nel mondo spesso imprevedibile di Internet, dove il recente successo degli algoritmi generativi sembra l’araldo di una crisi in atto dei presupposti creativi, questa particolare terminologia è stata interconnessa in modo dominante alla capacità dei mezzi informatici di mescolare e riproporre le opere portate a termine dagli artisti biologicamente ed esclusivamente composti. In maniera spesso illogica, non del tutto coerente, totalmente priva di un intento quando condizionata dallo stesso tipo di “allucinazioni” che notoriamente inficiano la qualità dei risultati offerti al pubblico dalle autonome controparti produttrici di parole. Una visione niente affatto compatibile con il lavoro di Sakai, Sakurai, Lu e Freitag, mirato a una revisione probabilistica dei pattern presenti nel suolo delle vaste pianure disegnate, rivelatosi capace di svelare un letterale repertorio precedentemente del tutto inesplorato. Quello di esattamente 430 nuove figure più piccole, realizzate dal popolo creatore con un metodo e finalità, presumibilmente, non del tutto identiche a quelle dei 700 geoglifi più vasti di quel misterioso territorio…

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La fortezza sotto assedio tra le foglie della tartaruga con l’elmetto da squalo

È un’idea del tutto pertinente all’epoca seguente alla Preistoria, il fatto che le prede debbano possedere un aspetto mansueto, mentre le creature che si nutrono di esseri viventi aspirano ad indurre con l’aspetto il massimo timore nelle proprie prede o nemici. Se pensi al diplodoco, anchilosauro, stegosauro, triceratopo… Molti di essi possedevano corazze impressionanti e aculei assolutamente degni di nota, per non parlare degli artigli e della forza negli arti necessaria a muovere la loro massa ponderosa. Per fortuna abbiamo l’estetica di taluni rettili a ricordarci quel principio e d’altronde, chi non ha pensato almeno una volta che il miglior accessorio per una tartaruga, potesse essere il caratteristico elmetto prussiano con il rostro, chiamato pickelhaube. La natura, chiaramente, ragiona in termini di conseguenza e l’uomo ne è sostanzialmente una parte. E allora col vantaggio dei millenni, perché mai la selezione naturale non avrebbe dovuto perseguire una finalità equivalente? Ragion per cui una tale possibilità ed il suo risultato pratico convergono, quando si scruta attentamente dei particolari tratti del sistema fluviale Brahmaputra-Meghna, tra l’India settentrionale ed i moderni confini del Bangladesh. Dove si può scorgere in zone assolate, in placida contemplazione del meriggio, un’atipica presenza con il guscio declinata in dimensione digradante, dal capofila di circa una ventina di centimetri, graziato da un aspetto distintamente “triangolare”. Si, si tratta della Pangshura sylhetensis o tartaruga a tetto dell’Assam, con possibile riferimento a un altro tipo di metafora, per cui ricorda la struttura architettonica di una vecchia capanna. Ed una paragonabile immobilità, almeno finché non ritorna in mezzo ai flutti, dove tende a muoversi con tutta l’agilità di un’abile abitante dei settori paesaggistici ripariani. Mentre si aggrappa, con le rigide dita palmate, a tronchi, radici e mucchi di detriti, arrivando persino a muoversi in posizione capovolta, mentre cerca i migliori punti di appoggio da cui praticare le sue attività notturne di ricerca del cibo. Consistenti essenzialmente nel seppellirsi in parte sotto la sabbia dei fondali, con soltanto la testa a emergere al termine del grande collo flessibile, impiegata per ghermire tra le acque i pesci, crostacei e altre creature che passano veloci per l’effetto della corrente. Uno stile di vita ben collaudato e dal poco impatto naturale, sebbene ciò non sia bastante a mantenerlo ragionevolmente al sicuro. Trovandoci in poche parole innanzi, come provato dalla limitata quantità numerica di esemplari incontrati dall’uomo, ad uno dei geomidi più rari, e conseguentemente a rischio critico d’estinzione, di tutta l’Asia e del Mondo…

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Così trilla il chiurlo dagli occhiali, minuto dinosauro della dannazione

Secondo una storia degli Aborigeni Australiani che può essere paragonata al mito cristiano di Adamo ed Eva, nell’antica epoca del sogno una sola donna cieca era nata dal fango primordiale del regno della Creazione. Il suo nome era Mudungkala ed ella ebbe un solo figlio, il cui nome era Purrukapali. Successivamente alla nascita spontanea degli altri esseri umani, costui scelse una moglie di nome Bima, ed i due ebbero a loro volta una creatura di nome Jinani. Ma nell’accampamento era presente un giovane senza moglie, Japara, che seducendo la consorte di Purrukapali era solito persuaderla ad appartarsi assieme a lui nella foresta. In un tragico giorno, mentre i due compivano l’ennesimo adulterio, il piccolo Jinani era stato abbandonato per alcune ore, e sotto i raggi crudeli del sole australe, morì. Non appena il padre Purrukapali lo venne a sapere, si adirò in modo terribile, e prendendo in braccio il bambino, giurò che si sarebbe tolto la vita gettandosi in mare, condannando al tempo stesso l’intera umanità. Così dove s’immerse per il suo viaggio di non ritorno, tre gorghi terribili presero forma a largo dell’odierna isola di Melville, tanto potenti da poter inghiottire l’intero continente. Ma Japara, nel tentativo di placare l’ira di Purrukapali, usò la sua magia per trasformarsi nella Luna, e dalla volta celeste intraprese una battaglia contro il suo rivale che continua tutt’ora. Per questo la Luna è ricoperta di cicatrici, ed ogni mese “muore” per tre giorni, causando il sempiterno fenomeno delle maree. Ma per la madre sconsolata Bima, sconvolta dal senso di colpa, rimaneva un unico destino: vagando senza posa nella notte, ella vide crescere sul proprio corpo un manto di piume. Ed il suo lamento diventò un suono ritmico e ripetitivo, che gli abitanti delle isole avrebbero associato in seguito al volatile dal nome onomatopeico di Weeloo, o Willaroo. Temendolo come la morte stessa perché invero, tale annuncio naturale altro non è che un messaggio dell’ora della fine, latore di condanna al pari del verso della civetta nei contesti boreali, collegato a storie folkloristiche di mille streghe o esseri mannari mangiatori di carne umana.
Molti anni dopo, quando gli Europei fondarono la propria colonia penale di Botany Bay, i numerosi naturalisti che avevano accompagnato le prime spedizioni nell’entroterra scelsero un’associazione decisamente meno preoccupante per gli esponenti locali di questa genìa volatile, parte della grande famiglia cosmopolita dei Burhinidae: ribattezzandolo così stone curlews o “chiurlo della pietra” benché fossero decisamente pochi i punti di contatto con l’uccello trampoliere degli scolopacidi, vista comune mentre pesca su talune spiagge del Vecchio Mondo. Laddove questi pennuti d’Australia, anche detti occhioni per la grandezza ed efficienza dei propri organi oculari, sono cacciatori per lo più notturni d’insetti e piccoli vertebrati come roditori, anfibi o rettili, benché non disdegnino l’occasionale cattura di un granchio ghermito sotto le acque limpide, che quindi procedono a sbattere ripetutamente sul suolo ghiaioso, nel tentativo di porre rapidamente fine alle sue sofferenze. Del tutto inconsapevoli del preistorico bagaglio che accompagna, come un terribile presentimento, l’occasionale suono ripetuto della loro “mistica” presenza…

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L’oblungo re dal muso equino che sovrintende al popolo dei salmoni marini

Fulmine-che-cresce si alzò in piedi sulla piccola canoa di legno, nel tentativo d’individuare il segno rivelatore. Secondo l’usanza Qwidicca, delle genti “degli scogli e i gabbiani” il suo piano era contare gli sbuffi prodotti dal grande abitatore delle profondità, al fine di determinare se fosse appropriato scagliare il proprio arpione nel fianco della balena. Gli spruzzi delle onde rendevano più arduo compiere l’impresa, mentre persino Piccolo-lupo, il suo compagno in questa caccia necessaria alla sopravvivenza del villaggio, sembrava scomparire in mezzo alla foschia mattutina della baia di Neah, verso le propaggini di quello che gli Europei avevano iniziato a chiamare il canale di Vancouver. Scorto all’improvviso un dorso scuro della lunghezza di almeno un paio di metri, sollevò impugnando lo con ambo le mani il suo appuntito arpione in legno: egli ben conosceva il rischio, sempre presente, che la coda del cetaceo colpisse la canoa, causandone il rovesciamento e conseguente naufragio. Ma mentre guardava verso Piccolo-lupo, nella speranza che il compagno fosse al sicuro, scorse qualcosa di spaventoso ed altrettanto inaspettato. L’animale marino a ridosso del suo scafo non era infatti ciò che gli era parso in un primo momento, bensì un pesce oblungo dal grande occhio gelatinoso, il volto cavallino, la cresta lungo l’intera estensione assai più simile al profilo di una catena montuosa. Entrambi si trovavano, in effetti, al cospetto di un sacro spirito protettore: il Re dei Salmoni, che conduceva i suoi soggetti fino all’imbocco dei fiumi. Lanciò un grido d’avviso, sperano di essere abbastanza udibile tra lo scroscio incessante degli elementi. Poi, lo vide. Dal fondo della sua imbarcazione, l’amico aveva sollevato un lungo tubo metallico, l’arma tonante dei bianchi provenienti da Est. In qualche modo, in qualche momento, Piccolo-lupo si era procurato un fucile. E non avendo ancora compreso l’effettiva situazione in essere, aveva tutta l’intenzione di usarlo! Mentre si apprestava ad allineare quel bastone demoniaco al sovrano, Fulmine-che-cresce gridò ancora, capì di non essere stato udito. In un ultimo gesto disperato, lasciò cadere l’arpione in mare ed impugnò con entrambe le mani i remi. Se quello che temeva fosse capitato, molto probabilmente, il suo intero popolo ne avrebbe pagato le conseguenze…
Lungamente si era discusso secoli prima di quel momento, nella teologia, di un mondo all’altro capo dell’Atlantico, del serpente marino o manifestazione subacquea dell’Apocalisse. Fino a raggiungere il consenso che sebbene fosse impossibile verificare i racconti dei pescatori, qualcosa d’ineffabile ed inconoscibile la sotto persisteva realmente. Una creatura che attorno alla metà del XIX secolo, fu possibile identificare nei mega-pesci lampriformi della famiglia Regalecidae, capaci di raggiungere la lunghezza di 8 metri. Sulle coste del Pacifico, dell’Atlantico e di più distanti oceani più recentemente raggiunti dalla società dei Lumi, ne persisteva tuttavia un possibile fratello minore, quello che nel 1859 sarebbe stato classificato dall’austriaco Kner come il Trachipterus altivelis o pesce a nastro gigante. Fino a 2 metri (sebbene persistessero esemplari più imponenti) di assoluto e strabiliante Terrore…

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