“Mettete fiori nei vostri cannoni” è un detto degno di trovare larga applicazione in una civiltà universale dove il gusto e il senso del combattimento è in apparenza ritenuto degno di concretizzarsi ad ogni manifestazione, anche minore, di dissenso tra multiple fazioni contrapposte. Con il limite fondamentale di non funzionare a ritroso, qualora ci si sposti lungo l’asse temporale fino a un tempo antecedente all’invenzione di quel meccanismo, concepito per lanciare i suoi proiettili grazie alla deflagrazione di una polvere che trasforma in movimento l’aggressività. È dunque possibile, nella maggior parte delle circostanze, trasformare l’arma bianca in un’aiuola? Ovvero mettere le rose, viole, margherite sulle spade o sopra le asce, tra gli anelli concatenati del mazzafrusto? Forse si può mettere il terriccio sopra ad uno scudo e poi provare, con pazienza, a coltivarci sopra il muschio o un verdeggiante praticello all’inglese. Mentre per quanto concerne la bonifica dei sistemi d’offesa pre-moderni, non c’è possibilità migliore di riuscire a procurarsi quella particolare tipologia d’orpello, che per gli aborigeni era l’impugnatura di una lancia, ma all’interno dei giardini può costituire solamente il più apprezzato degli ornamenti. Il tipo di struttura che botanicamente saremmo inclini a classificare come una sorta di spadice, se soltanto non fosse libera dal vestimento di un singolo abito riproduttivo, essendo essa stessa il basamento di un’intera infiorescenza, nonché (piccolo dettaglio) lunga fino alla misura notevole di 3-4 metri. Abbastanza per il suo creatore bukkup o yakka, che contrariamente a come potrebbe sembrare dal punto di vista fonetico non è una manifestazione del Grande Spirito Aborigeno o il custode degli antenati nella terra insostanziale, bensì il nome in lingua locale dato ad una sorta di cespuglio simile ad un riccio di mare, per la forma tondeggiante ed appuntita della sua bassa chioma color verde oliva. Sostenuta da un tronchetto cupo e tozzo, fino all’altezza in media poco superiore a quella di una persona. Fatta eccezione per l’occasionale piuma battagliera sulla sommità del campo, che tende a comparire all’improvviso in seguito a stagioni particolarmente calde e derelitte, causa il ripetuto palesarsi ed ingrossarsi dei gravi incendi boschivi australi. Una funzione naturale di quel tipo d’ambiente, ulteriormente aggravata dalla comprensibile tendenza a preservare queste affascinanti piante che gli occidentali chiamano semplicemente albero-erba o i loro scienziati Xanthorrhea (“resina gialla”) che nel fuoco trovano la forza e il fluido necessario a realizzare ogni ultima aspirazione dei lunghi secoli della loro esistenza. Un centimetro all’anno, giorno dopo giorno, verso il raggiungimento di una forma sufficientemente grande da ospitare e trarre beneficio dalle schiere d’insetti, uccelli ed altre piccole creature prossime allo smarrimento. Dopo che l’ambiente è diventato soltanto cenere, e molti giorni prima che il corso naturale degli eventi possa ricostituire lo stato di grazia antecedente alla deflagrazione finale. Sarà quindi al primo dipanarsi delle lingue di fiamma, tra la morte e la devastazione, che il piccolo uomo nero sorgerà di nuovo in modo analogo alla leggendaria mandragora, sommamente ricercata all’epoca degli alchimisti europei…
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L’argentea profezia della foresta completamente ricoperta dalla seta di falena
Circa una decina di anni fa, uno dei giardinieri che si occupavano del parco pubblico di Shipley Hall, nel quartiere Frizinghall della città britannica di Bradford, ebbe una strana e tutt’altro che piacevole sorpresa. Recandosi come tutte le mattine ad innaffiare le aiuole, notò una zona bianca ai margini del campo visivo, corrispondente ad una macchia di circa 15 alberi adulti di pado, i ciliegi a grappolo piantati in questo luogo principalmente con finalità ornamentale. E che adesso non svolgevano più efficacemente quel ruolo, data la maniera in cui erano stati privati quasi totalmente di foglie e almeno in apparenza, ricoperti di un sottile quanto impenetrabile strato di ghiaccio. Ah, ho già menzionato che la temperatura media, essendo estate, superava facilmente i 30-32 gradi? Un’evidente contraddizione in termini, se soltanto l’anomalia botanica avesse avuto origine dalla classica contingenza climatica della rugiada cristallizzata, piuttosto che il vezzo evolutivo di una singola, operosa creatura. Ovvero l’esemplare sub-adulto di Yponomeuta evonymella, più comunemente detta falena ermellino, per la sua colorazione candida e l’addome peloso, gradevolmente ornato da una serie di puntini progressivamente dislocati lungo l’estendersi delle sue aggraziate ali. Ma che tutti conoscono in Europa, più che altro, per l’effetto collaterale delle larve attive principalmente verso l’inizio della primavera, quando letterali migliaia di piccoli bruchi non più lunghi di un pollice (i proverbiali inchworm) di un colorito biancastro fatta eccezione per la testa ed i trattini neri al centro del dorso, emergono dalle profondità della corteccia degli alberi, ove avevano trovato la collocazione nella forma originale di un uovo. Verso il settembre scorso, quando i genitori sfarfallanti avevano deposto la singola generazione annuale, come si confà agli insetti dalle abitudini univoltine, categoria alla quale soltanto una piccola parte dei lepidotteri di questo mondo può effettivamente affermare di conformarsi. E dando inizio ad una prassi che potremmo agevolmente definire come ancor più distintiva, persino maggiormente degna di nota: quella di costruire una letterale grande tenda sotto cui restare al sicuro da sguardi indiscreti e l’indesiderabile fluttuazione termica degli orari notturni. Una letterale barriera nei confronti dei pericoli di questa Terra, ovvero in altri termini, una tenda. Visione forse non così rara, soprattutto nel Nord Europa benché specie appartenenti allo stesso gruppo tassonomico siano attestate anche nell’Italia settentrionale, benché sia impossibile negare l’effetto scenografico che può restituire ai non iniziati: quello d’interi tronchi, per non parlare delle rocce o anche strutture create dall’uomo il cui colore agevolmente tende a scomparire, sotto lo strato di una tale stoffa così apparentemente simile alla ragnatela. Ma molto meno appiccicosa in quanto indicata per lo svolgimento di un diverso tipo di mansione, molto meno aggressiva. Mentre coloro che l’hanno costruita e continueranno a farlo fino al raggiungimento dello stadio vitale di pupa, imperterriti e indefessi, consumano con entusiasmo la materia verde sotto una simile trapunta intrisa dello spirito dell’entropia vegetale…
Sull’ali aperte dell’aninga, il singolare serpente piumato del Nuovo Mondo
Il dato strettamente interconnesso al concetto stesso di un iceberg è che ciò che vedi al di sopra del livello delle acque, nella maggior parte delle circostanze, non è affatto rappresentativo del resto. Perché allora quando osserviamo una creatura parzialmente sommersa, tendiamo a pensare immediatamente al contrario? Pensate al caso dell’ippopotamo, identificato fin dai tempi dell’antica Grecia come un “cavallo di fiume”, per il mero aspetto delle sue orecchie e il grosso paio di nari. Oppure il mostro di Loch Ness, sospettato da oltre 10 secoli di essere una sorta di di pesce oblungo o plesiosauro redivivo, benché le certificazioni acclarate del suo aspetto risultino necessariamente limitata a meno del 10% della sua massa fisica complessiva. E chi può dire dunque, se la sua propensione a scomparire totalmente per intere generazioni non derivi, in effetti, dall’abilità di spiccare agevolmente il volo nelle prime ore dell’alba o successive al tramonto, come un pipistrello vampiro delle proporzioni di un autobus, diretto alla scuola magica di Hogwarts attraverso il più affollato corridoio aereo di Scozia?
Tutto è possibile, una volta che si fuoriesce dai confini della scienza fondata su fattori certi e verificabili, operazione diventata progressivamente più difficile con l’avanzare degli strumenti oggettivi a nostra disposizione, inclusa una tassonomia e studio dei processi biologici che possa dirsi puntuale ed approfondito. Metti il caso, ad esempio, che prima dell’epoca di Isaac Newton un adepto della cosiddetta Filosofia Naturale si fosse trovato al cospetto di uno splendido esemplare di Anhinga anhinga, l’uccello che gli americani sono soliti chiamare darter per la sua abilità nel nuoto subacqueo e per l’aspetto del becco simile, beh, a una freccetta (dart) nonché privo di narici, relegando la respirazione al solo impiego di un’epiglottide (!) particolarmente sviluppata. Egli non avrebbe certo esitato nel credere di aver finalmente trovato la mitologica risultanza di un uovo di gallina covato da un rospo o un serpente, la temuta coccatrice dallo sguardo in grado di pietrificare i cavalieri più coraggiosi. Come spiegare, altrimenti, l’aspetto sinuoseggiante di quel lungo collo, in proporzione almeno il doppio di quello di un cigno. Per non parlare dell’indole naturalmente aggressiva e territoriale condivisa con quest’ultimo, di una creatura comunque non inferiore agli 80-90 cm di lunghezza, almeno in parte dovuta all’abitudine non proprio salutare di deporre le proprie uova all’interno di un nido costruito a livello del terreno, tra i giunchi a margine del proprio laghetto elettivo d’appartenenza. La provenienza stessa del suo nome scientifico, successivamente attribuito per antonomasia ad altre specie simili di regioni geografiche assai distanti, si colloca contestualmente nella lingua Tupi degli indigeni brasiliani, in cui parrebbe significare “uccello demone” probabilmente in forza di una presunta capacità di portare sventura e dannazione. Il che probabilmente giustificava, almeno in parte, l’eccidio energico che ne veniva fatto, per un immotivato entusiasmo gastronomico nei confronti delle sue carni.
Che i gourmet moderni, a dire il vero, considerano molto meno attraenti persino rispetto a quelle di una coriacea ed insapore anatra di mare. Dopo tutto, siamo di fronte a un agguerrito carnivoro, assai vicino al culmine della catena alimentare, anche grazie alla notevole forza concessa al becco dalla conformazione di un osso situato nel collo, che lo rende capace di serrarsi come una vera e propria tagliola….
A largo della Florida, il selvaggio sabba oceanico dell’invadente insetto in luna di miele
Sussiste uno stereotipo, su Internet, secondo cui la Florida sarebbe un luogo di fantastici eccessi e terribili deviazioni dalle aspettative legittime delle umane circostanze, coadiuvate da una sorta di atmosfera che in qualche maniera riesce a deviare ed influenzare la realtà. Così che basta inserire su Google il nome dello stato peninsulare, proteso come una magica passerella sull’Atlantico, possibilmente accompagnato da parole d’uso comune come “man“, “alligator” o “sheriff“, per inoltrarsi in una rassegna che sfiora il surrealismo e cambia radicalmente le logiche interconnessioni degli eventi. Al punto che imbarcandosi e lasciando dietro di se le coste sabbiose di una tale landa, a bordo di una conveniente imbarcazione da diporto, può sembrare di essersi temporaneamente liberati da una simile foschia, ritornando almeno per qualche ora dei perfettamente ragionevoli, e del tutto rilassati rappresentanti della civile società contemporanea. A patto di non essere… Sottovento. Direzione verso cui tra aprile e maggio, agosto e settembre e qualche volta anche a dicembre, le correnti ascensionali prendono in custodia un vasto popolo d’interconnessi volatori, nel senso di esseri costantemente e saldamente attaccati l’uno all’altro per la parte posteriore dei loro corpi, a due a due. Sono i famosi e odiati “insetti in luna di miele”, “insetti innamorati” o “f***ing bugs” (in più di un senso) che come una pioggia biblica finiscono per ricadere un po’ da tutte le parti, incluso a quanto sembra questo motoscafo a largo della baia di Tampa, i cui occupanti non possono far altro che alzare le proprie braccia contro un cielo vendicativo, mentre si ricoprono letteralmente di una pioggia quasi biblica dei piccoli invasori, lunghi non più di 6-9 mm dalla testa con le antenne alla parte finale del proprio addome. Orrore, stupore ed anche un po’ di meraviglia, sebbene siamo innanzi al tipo di creature che tornando puntualmente ogni anno, hanno finito per diventare un simbolo inscindibile perfettamente rappresentativo di una buona parte del meridione statunitense.
A partire da quando, nell’immediato dopoguerra, iniziarono ad essere notati allo stesso tempo dagli entomologi non soltanto floridiani ma anche di Texas, Alabama, Mississippi e Louisiana, che non poterono far altro che notarne l’arrivo dall’America Centrale passando per lo stato messicano dello Yucatan. Diventando una visione pressoché costante fino all’apice della loro presenza verso la metà degli anni ’70, momento in cui parevano essersi moltiplicati fino a ricoprire letteralmente ogni centimetro di cielo nel corso dei loro frequenti eventi migratori da un lato all’altro del continente. E tutto questo senza arrecare danni degni di nota all’agricoltura, pur trattandosi di nettarivori, principalmente interessati a piante erbacee come meliloti, solidaghi e pepe brasiliano, per il semplice ma fondamentale aspetto della breve durata della loro vita: appena 3-4 giorni per i maschi, poco più per la femmina; abbastanza per portare a termine il compito per cui sono stati creati, culminante con la deposizione di una significativa quantità di uova (100-350) negli strati marcescenti di legno, torba o altra materia biologicamente feconda…