Dipinta di un rosso intenso che vorrebbe riportarla all’antico splendore. Come componente primaria di un progetto dal costo complessivo di 5,4 milioni di sterline approvato nel 2011, che ha incluso il totale ripristino delle mura e delle componenti tecniche del suo complesso, oltre alla costruzione di un centro visitatori completo di materiale didattico e divulgativo. Difficilmente sarebbe possibile immaginare un viaggio altrettanto valido nel passato auditivo di un luogo. E un suono più nostalgico di questo….
È sorprendente pensare quanto tardi, nella storia degli spostamenti via mare, si è potuto disporre di sistemi adatti a ogni clima per la segnalazione dei pericoli ai naviganti. Il faro di Alessandria, la torre di Ercole ad A Coruña, i bastioni illuminati di Ostia e Laodicea: tutti sistemi molto efficienti nel porre il fuoco vivo ad un’altezza e un luogo di potenziali scafi incagliati o arenamenti senza possibilità di scampo… A patto che, ovviamente, fosse possibile scorgerli con lo sguardo. Il che era facile di notte, meno facile durante il giorno e completamente impossibile in caso di nebbia. Pensate, di contro, con quale facilità una nube formatisi per l’accumulo di umidità all’altezza del suolo può bloccare persino la luce dell’astro solare, e quanto sia possibile invece contrastarla mediante l’impiego di fonti di luce create dall’uomo. Anche scegliendo di fare riferimento a sistemi contemporanei, come fari stroboscopici allo xenon o altri avveniristici marchingegni, in determinati frangenti l’avvistamento di un faro può risultare impossibile. Il che, in un’epoca in cui non esisteva la navigazione GPS, poteva voler dire “soltanto” un naufragio oppure due l’anno. A meno di trovarsi nel profondo nord britannico, oltre il braccio di mare che separa l’isola più grande dall’arcipelago sub-artico delle Shetland, dove in estate le correnti d’aria provenienti dal meridione vengono raffreddate dall’acqua, generando un quasi costante stato di foschia. Creando i presupposti di un luogo ideale, nel 1819, per collocare uno dei nuovi edifici di segnalazione ideati e perfezionati da Robert Stevenson, l’ingegnere civile nonno dello scrittore Robert L, autore de L’Isola del Tesoro. Era questa un’epoca in cui imbarcarsi su navi e galeoni era diventato un agire comune, sebbene ancora condizionato dai pericoli di una fenomenologia meteorologica ancora largamente misteriosi, le cui variazioni improvvise potevano avere un costo in termini di vite umane comparabile a quello di un moderno disastro aereo. E tutto quello che si poteva fare per proteggersi, era affidarsi a soluzioni tecnologiche in grado di rompere con il passato.
Pur essendo meno famoso del capolavoro di Stevenson, il faro di Bell Rock costruito a largo tra le onde del Firth di Tay, la torre di Sumburgh Head poteva vantare alcune delle stesse notevoli prestazioni tecniche. La lanterna all’ultimo piano, alimentata in origine con olio di paraffina, era fornita di una grande lente di tipo Fresnel, la maggiore montata in condizioni normali nel territorio di Scozia. Struttura ottica creata da Augustin-Jean Fresnel della Commissione Fari francese, che permetteva di concentrare la luce attentamente collocata in corrispondenza del suo centro e proiettarla in un singolo raggio al di là della scogliera. A tal fine era ovviamente fondamentale che la lanterna fosse sempre in movimento rotatorio galleggiando in un bagno di mercurio, per non trasformare l’intero implemento nell’equivalente moderno dell’arma di Archimede per incendiare le navi. La distanza raggiungibile da un simile fascio, in condizioni ideali, era di 23 miglia (37 chilometri) ma le condizioni ideali, come dicevamo, da queste parti tendevano ad essere piuttosto rare. L’occasionale incidente navale continuò dunque a verificarsi, nelle giornate di nebbia, almeno fino al 1905, quando l’amministrazione locale pensò finalmente d’importare una nuova invenzione, largamente utilizzata nel territorio dei distanti Stati Uniti: la sirena da nebbia, o Foghorn. Attrezzatura immaginata per la prima volta da Robert Foulis, uno scozzese emigrato in Canada, e che dunque per la prima volta, in questa occasione, stava facendo il suo ritorno in patria. Il concetto di segnalazione auditiva in caso di poca visibilità era largamente noto nell’ambito navale coévo, benché per lo più connesso all’impiego del sistema tradizionale del cannone caricato a salve, il quale risultava decisamente poco pratico in un contesto come quello di Sumburgh Head, in cui la necessità era quella di continuare a farsi sentire per un’intera mattina, o giornata, al fine di prevenire l’eventualità più temuta. Mentre le campane, il più delle volte, non riuscivano a propagarsi al di là dell’effetto isolante delle particelle di nebbia. Il nuovo edificio dunque, abbinato alla residenza di un secondo guardiano che avrebbe lavorato di concerto assieme a quello del faro, fu fornito di una coppia di motori collegati ad altrettanti grossi serbatoi. E per il tramite di questi ultimi, alla cosa più prossima a una tromba dell’Apocalisse che fosse stata mai udita dalla variegata popolazione di volatili migratori, approdati in maniera (assai) temporanea sulla costa più cacofonica dell’intero territorio shetlandese…
Inghilterra
Il ruolo dell’ala pieghevole nella storia dell’aviazione
Tempo di pace, tempo di guerra. Se anche i totalitarismi sembravano al momento un ricordo lontano, mentre la guerra in Corea soltanto una remota ipotesi dei politologi più pessimisti, le manovre in mare non potevano in alcun cessare. Ogni momento era prezioso, ogni esperimento, potenzialmente risolutivo. L’aviere numero 8 imbarcato sull’eccellente portaerei di Sua Maestà Illustrious, nave dalle molte imprese in epoca bellica, sapeva perfettamente che cosa stava vedendo, eppure non riusciva ancora a capacitarsene in nessun modo. Dalle profondità del ponte-hangar, emerso sull’ascensore elettrico, c’era il più singolare aereo che avesse incontrato nella sua carriera. Temporaneamente reso simile a un elicottero disegnato sui codici di Leonardo da Vinci, ma ancor più vicino ad un insetto appena emerso dal suo bozzolo, le ali ripiegate sopra il dorso in attesa che la luce del sole potesse, al più presto, riuscire ad asciugarle.
Era il 19 settembre del 1949, data destinata a rimanere negli annali come primo volo del Fairey Gannet, nuovo aereo anti-sommergibili del rinomato produttore aeronautico di grandi successi bellici come il biplano aerosilurante Albacore (1938) e il bombardiere Spearfish (1945). Nonché l’ultima espressione britannica di un concetto tipicamente statunitense, l’idea di Leroy Grumman che si diceva avesse singolarmente cambiato il destino dell’epocale guerra nel Pacifico, quando il suo paese dovette affrontare un nemico nipponico già più largamente insediato, ed asserragliato, con una disposizione capillare di campi di volo disseminati lungo centinaia di migliaia di miglia di mare. Stiamo parlando, ovviamente, dell’unico possibile approccio al problema di massimizzare la quantità di aeromobili per il limitato spazio a bordo, il quale risultava tutt’altro che ignoto alla Royal Navy. Avendo essa stessa già ricevuto, nel 1940, più di un esemplare del risultante velivolo, il caccia di nome Wildcat, ribattezzato per l’occasione Martlet. Per non parlare di come anche la Fairey avesse già costruito un modello di aerocombattente, il Firefly, dotato dello stesso sistema brevettato dall’americano in questione. Un meccanismo noto come Sto-Wing a cui, secondo la leggenda, Grumman era giunto facendo esperimenti con una gomma da cancellare ed un paio di graffette infilate e fatte roteare, rispondendo alla domanda: come è possibile togliere di mezzo le ali, con un singolo perno di rotazione? Da cui conseguì l’idea secondo cui l’unico modo possibile fosse sollevare ed avvicinare le stesse in senso verticale, essenzialmente riprendendo la metodologia naturalistica di un qualsivoglia uccello terrestre. Un sistema valido, ma problematico. Poiché operando con tolleranze tanto insignificanti, questi aerei richiedevano spesso l’aiuto manuale di un addetto di terra, che aiutasse l’ala a dispiegarsi e bloccarsi adeguatamente. Tanto che una vista comune, sul ponte di volo delle portaerei inglesi ed americane, sarebbe diventato un manico di scopa, usato per dare l’ultima spinta agli apparecchi più recalcitranti. Tempo di evolversi? Tempo di cambiare?
La storia non ricorda il Fairey Gannet come un aereo militare alla storia particolarmente gloriosa. Esso mancò di essere coinvolto in operazioni di particolare rilievo, per lo meno note al pubblico, prima di essere rimpiazzato nel suo ruolo dal Breguet Atlantic nel 1966. Eppure in quel momento della storia dell’aviazione, all’inizio degli anni ’50, esso fu significativo come prima espressione non più americana di un nuovo approccio alle ali pieghevoli, già visto nei due aerei post-bellici Douglas A-1 Skyraider e il McDonnell F2H Banshee (uno dei primi jet prodotti in serie) che prevedeva la chiusura delle stesse con un semplice sollevamento verso l’alto, in una maniera che tendeva a dargli, una volta parcheggianti, l’aspetto di un perfetto triangolo con le ruote. Ma l’aerosilurante aveva un ulteriore segreto. Poiché in funzione della sua stazza significativa (16,56 metri di apertura alare) si era dovuto affrontare un problema relativamente nuovo: come evitare che diventasse, una volta ripiegato, più alto di una torre di assedio medievale. Così fu deciso che le sue ali si sarebbero piegato non una, bensì due volte. Ma abituarsi alla vista di una simile stranezza, con doppia Z di Zorro in posizione raccolta sopra la splendente carlinga, non era per niente facile…
L’antica belva meccanica del sultano di Mysore
“Comunque vada a finire questa storia, la natura è dalla mia parte.” Quanti governanti, di un paese possibilmente orientale, si sono ripetuti un simile precetto mentre le armate nemiche avanzavano sul loro territorio. Perfettamente consci di come la natura inospitale di un tale luogo, immancabilmente, pretendesse una dura tassa ad ogni chilometro di marcia da parte degli stranieri. Caldi, freddi, malattie infettive. La pioggia copiosa dei monsoni. E in determinati casi, le bestie selvatiche in agguato. Per le forze coloniali inglesi dell’epoca rinascimentale, inviate ai quattro angoli del globo, tutte questioni appartenenti alla sfera del possibile. Per un sultano sulla strada della loro implacabile sete di conquista, una cupa soddisfazione rinnovata nel quotidiano. E una speranza. Era la fine del XVIII secolo, quando Tipu Sahib, sovrano islamico del più vasto regno del meridione indiano, discendente dell’antica famiglia di Wodeyar, chiamò a raccolta alcuni dei migliori artigiani facenti parte della sua corte, per assegnargli il difficile compito di dare una forma fisica ad un simile sentimento. Così che gli uomini, tra cui si trovavano anche alcuni tecnici di provenienza europea, potessero costruirgli il singolo oggetto più strano, nonché pregevole, della sua intera collezione di strumenti musicali. Se così vogliamo davvero chiamarlo: dopo tutto, non è vero che le grida di terrore possono costituire, anche loro, un musica celestiale? Se a emetterle è colui che, con armi e catene, viene ad usurpare quanto abbiamo ricevuto in eredità per diritto di nascita e l’indiscutibile volere del Cielo.
A seguito della battaglia di Seringapatam, città non troppo distante dalla capitale del regno, che pose fine alla quarta ed ultima guerra anglo-mysore con l’assalto diretto del palazzo estivo del sultano, da parte di una forza congiunta di svariate centinaia di soldati occidentali assieme alle truppe del Nizam di Hyderabad, traditore del suo stesso signore, i molti tesori contenuti all’interno di quelle mura furono catturati come spoglie di guerra, al fine di riportarli nella patria di Sua Maestà. Era il 1799. Scrive quindi l’anno successivo in un resoconto, James Salmond, ufficiale subordinato alla Compagnia delle Indie Orientali: “Questo disegno ritrae un meccanismo raffigurante una tigre a dimensioni naturali che divora un europeo coricato in terra. Ci sono alcune canne d’organo nella tigre, e una serie di tasti per l’emissione delle note convenzionali. I suoni prodotti dall’organo, tuttavia, sono concepiti per assomigliare ai lamenti disperati di un essere umano morente, inframezzati dal ruggito terribile della tigre. […] Mi sembra ragionevole pensare che una manifestazione tanto palese dell’odio del sultano Tipu contro la nazione inglese possa costituire un’aggiunta di valore alle sale della Torre di Londra.” Descrizione a cui è doveroso aggiungere come durante l’utilizzo, il braccio della figura umana in legno, dipinto con un’uniforme simile a quella dei soldati inglesi, si sollevava in maniera ritmica, tentando inutilmente di proteggersi dalle fauci del suo torturatore. È stato successivamente ipotizzato che per il truculento giocattolo ligneo, custodito con orgoglio assieme al resto dei suoi strumenti musicali, il committente avesse tratto l’ispirazione al fatto di sangue avvenuto nel 1781, successivamente alla battaglia di Porto Novo (Parangipettai) nella quale il padre dello stesso sultano, Hyder Ali, era stato sonoramente sconfitto dall’esercito inglese. Ma qualche tempo dopo il figlio del tenente-generale Sir Eyre Coote, vincitore del confronto, era stato attaccato ed ucciso da una tigre reale del Bengala (Panthera tigris tigris). Un animale il quale, in maniera tutt’altro che casuale, era sempre stato considerato tra gli emblemi della casa reale di Mysore, in particolare a seguito della presa di potere del loro ultimo rappresentante, che ne utilizzava l’effige su tutti gli stemmi, le armi, le uniformi delle guardie di palazzo. Giungendo a possederne, addirittura, svariati esemplari in carne, pelo a strisce ed ossa. Quale migliore occasione giunti a quel punto di svolta, dunque, per comunicare al pubblico inglese la sua cocente sconfitta! Che impadronirsi di un apparato così carico d’odio, e utilizzarlo per suonarvi continuamente musica patriottica e l’inno “Dio salvi la Regina”…
Gli architetti di Londra si sfidano nella città di marzapane
Secondo la tradizione dalle origini incerte della casetta realizzata in materiale commestibile pepparkakor (biscotto aromatizzato con Zingiber officinale) il creativo è libero di esprimere il suo spirito natalizio nella maniera che gli riesce più spontanea. Non ci sono regole in merito all’aspetto, tipologia e ornamenti dell’edificio, che si presenterà spesso con l’aspetto di una baita di montagna, ma può anche rappresentare un palazzo, un granaio, un monumento… E secondo il gusto dell’estetica post-moderna, anche un’astronave di Guerre Stellari, la cabina spazio-temporale del Dr. Who, l’automobile di Ritorno al Futuro… Di pari passo, una simile evoluzione è stata sperimentata dal concetto basilare del “museo”. Un tempo lo spazio espositivo destinato a particolari reperti storici ed opere d’arte contemporanee, piuttosto che l’attuale luogo d’incontro/svago, spesso dotato di bar, lounge, libreria e sala per l’osservazione degli audio-visivi… Diamine in effetti, volendo seguire una particolare visione delle cose, non è neppure necessario che ci siano delle mura e un tetto chiaramente definite. Vedi il caso del Museo dell’Architettura di Londra, una definizione che nei casi in un cui viene direzionata a un qualcosa di diverso dall’universalmente rilevante Victoria & Albert del quartiere Brompton di Londra, ricade spesso su un’entità senza fissa dimora che potrebbe effettivamente essere definita come una semplice associazione culturale, se non fosse per la sua capacità di polarizzare, anno dopo anno, tutta l’attenzione dei principali studi di settore nella capitale di appartenenza, con nomi come Foster and Partners, FDP, Bell Phillips Architects, Capita etc. che partecipano annualmente ai loro eventi e conferenze, spesso capaci di attrarre grande attenzione mediatica su ciascuno dei temi trattati di volta in volta. Impresa particolarmente riuscita guarda caso proprio in corrispondenza del Natale scorso, quando per un’iniziativa di Melissa Woolford, fondatrice e direttrice del “museo”, si è scelto di far competere alcuni rappresentanti dei principali studi cittadini nella costruzione dell’iconico arredo commestibile particolarmente popolare nei paesi del Nord. Mentre oggi la sfida giunta ormai alla sua seconda edizione, e trasferita in un prestigioso locale in affitto nei pressi della stazione di South Kensington, sembra aver condotto a delle vette realizzative persino più elevate.
Il tutto, ovviamente, secondo regole e con presupposti chiaramente definiti: trattandosi infatti di un progetto finalizzato a far conoscere al grande pubblico di tutte le età alcune regole base dell’urbanistica, gli organizzatori avevano prima di tutto stilato, con l’aiuto dei loro sponsor dello studio Tibbalds, un piano generale che prevedeva la suddivisione del terreno dell’expo in una serie di zone dai nomi spiccatamente gastronomici, tra cui la città vecchia di Crumble Square (da un piatto inglese che può essere sia dolce che salato) e il distretto finanziario di Central Baking (to bake=cuocere in forno) oltre a un quartiere ecologico ed un’altro dedicato all’approvvigionamento energetico, presumibilmente per l’alta quantità di luci utilizzati nei vari edifici in gara. Con il risultato che l’insieme finale, pur mancando necessariamente di un certo grado di coesione, si è trasformato in una favolosa accozzaglia di virtuosismi archi-dolciari, utili a dimostrare, se non altro, le insospettate capacità d’innovazione culinaria che possono essere estrinsecate da chi normalmente lavora con i progetti e le opere in muratura. O forse, ipotesi altrettanto probabile, l’abbondanza di risorse di grandi entità operative come quelle fin qui citate, più che in grado di assumere temporaneamente dei mastri pasticceri soltanto per farsi aiutare nel trionfare sulla pubblica piazza, con un riscontro mediatico misurabile ed un’ottima, per quanto settorializzata pubblicità. “Lasciate che il bello sia vario” sembra così affermare nell’aere incorporeo, la voce inespressa del progetto in questa sua microscopica applicazione. Non è forse vero, del resto, che la stessa macroscopica città di Londra si configura ormai da diversi anni secondo un modulo espressivo del tutto similare? Con edifici splendidi se considerati come delle entità separate, notoriamente posizionati senza preoccuparsi eccessivamente di rispondere allo stesso modulo dell’estetica cittadina. O farsi parte dell’unicum di un progetto di definizione degli spazi continuativo. E così pure, la piccola città di marzapane…