La bomboletta robotica e il futuro dell’arte sui muri

Svettante sopra la seconda città più popolosa d’Estonia, il vecchio camino industriale getta l’ombra del suo cupo grigiore, ormai da diverse generazioni. Questo perché la sua demolizione sarebbe, oltre che costosa, potenzialmente problematica, e richiederebbe la chiusura di alcuni importanti hub del traffico cittadino. Come disse qualcuno, dunque, se non puoi sconfiggerlo, assicurati che sia bello! E così pochi giorni fa, gradualmente, sopra la struttura è iniziato ad apparire una gigantesca e variopinta figura, di una donna che medita tenendo in mano una pianta in vaso. L’obbrobrio si è trasformato in un totem. Alquanto incredibilmente, senza alcuna traccia di impalcatura, né il dispiegamento di uomini e mezzi che ci si sarebbe aspettati, nelle circostanze in questione, per la realizzazione di un’opera tanto estesa e precisa. Tra il silenzio dell’alta quota operativa, fatta eccezione per il verso reiterato degli uccelli, un solo rumore: il ronzio di un paio di motorini, che muovono su e giù la Creatura di Tartu.
Mezzelune vertiginose che partono dai margini della tela, ricalcando i sentimenti dell’autore. Lievi pennellate parallele, che s’incrociano per definire spazi, sottolineare i chiaroscuri. Staffilate, di un pennello impugnato da lontano, come si trattasse di un fioretto, piuttosto che linee precise di un bisturi, nella realizzazione chirurgica dei dettagli più infinitesimali. L’opera manuale di un pittore è tanto complessa e varia, quanto fondamentalmente superflua dal punto di vista del risultato finale. Poiché non importa quanto sia intricato il soggetto di un quadro: in ultima analisi, esso è sempre riducibile a una serie di punti indipendenti tra loro. Non è forse questa la teoria filosofica dell’atomismo, trasportata dall’antica Grecia ai giorni nostri dell’Arte? Quanto piuttosto, l’eredità del grande Van Gogh, tra le cui tecniche più memorabili ricordiamo quella mutuata dal movimento francese del Pointillisme, in cui ogni centimetro quadro dell’opera era una mera combinazione di staffilate, la cui comunione lasciava che l’immagine emergesse alla giusta distanza d’osservazione… Ma guardiamo indietro, addirittura, a partire dalla situazione corrente, e potremmo scorgere qualcosa di ancora diverso: la risultanza del passaggio di una stampante a getto piuttosto che ad aghi, col caratteristico rumore prodotto da un elettromagnete che scaraventa più volte la testina contro il medium destinato ad accogliere la nostra testimonianza immanente. In un certo senso, l’arte è il prodotto del cuore e il cervello, che il pittore trasmette alla mani, permettendogli di veicolare la profonda pozza dei sentimenti. Da un’altro, è soltanto la fantasia di colui che fruisce, il cui occhio invisibile ha la capacità di scrutare l’ultimo dei significati. E per quest’ultimo, ha davvero importanza l’effettivo impegno di un suo simile fatto di carne e sangue?
Secondo una possibile chiave interpretativa della geniale venture commerciale, il prodotto principe e l’ultima invenzione della compagnia estone Sprayprinter, direi proprio di no. Loro che attraverso la visione dell’inventore Mihkel Joala, hanno applicato una serie di tecnologie distinte al fine di creare qualcosa di totalmente nuovo: un metodo che rende triviale l’arte, o per meglio dire, permette a chiunque di esserne il vate. Inteso come tramite passivo, portale attraverso cui si manifesta l’incorporea divinità, ovvero nel caso specifico, lo spettro che vive all’interno del mondo digitale. Tutto ebbe inizio, secondo la precisa mitologia aziendale, quando la figlia dell’autore gli rese manifesto il bambinesco desiderio di “Avere un unicorno sulla parete della sua stanza”. Al che l’immediata risposta, avrebbe potuto essere: “Tesoro, non sono in grado di disegnarlo.” Se non che un genitore farebbe tutto per la sua amata prole, incluso esercitare la sua poderosa capacità di demiurgo. Portando quindi costui, con somma sorpresa di ogni parte coinvolta, a combinare una valvola d’iniezione del carburante con un telecomando della console Nintendo Wii, per…

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È neozelandese il più innovativo concetto di mezzo anfibio

La linea inizia in alto a sinistra, prendendo una piega ellissoidale. Quindi, raggiungendo l’apice all’altro capo del diagramma, torna indietro in maniera piuttosto brusca, creando un perimetro inferiore dalla forma verticalmente speculare. Al ritorno verso il punto di partenza, poi non si ferma, ma crea un incrocio e prosegue per la sua via. Gli estremi non si sono incontrati. Sotto la figura, due piedi rivolti in avanti completano il ritratto stilizzato. Avete capito di che cosa stiamo parlando? È il pesce di Darwin, simbolo degli evoluzionisti americani. Che per quanto possa mancare dell’immediatezza e semplicità dell’ichthys, il graffito che identificava segretamente le chiese e le tombe cristiane all’epoca dell’Impero Romano, presenta indubbiamente una marcia in più rispetto all’alternativa: in quanto gli risulta possibile, in caso di necessità, emergere dall’Oceano e mettersi a camminare. Qualcuno giura che proprio questo deve essere successo in un preciso momento del nostro più remoto passato. Altri affermano che assolutamente* non può essere andata così, perché nella Bibbia c’è scritto che fummo creati a Sua immagine e somiglianza. Tutto ciò non si applica, d’altra parte, per quanto concerne le barche. “Ehi, ehi, attento! Non fare così…” In un attimo, l’intero pubblico della spiaggia delle Cannelle volta lo sguardo verso il piccolo dramma, di un bagnante che sta vedendo passare, a una ragionevole distanza di sicurezza, la forma scura di un grosso gommone. Il quale sembra puntato, senza la benché minima attenzione per il futuro, dritto verso la riva: “T’incaglierai!” Madri richiamano i figli, preoccupate. Cani abbaiano verso l’orizzonte. Qualcun’altro si avvicina, per meglio assistere alla catastrofe imminente. Man mano che si avvicina, diventa più facile riconoscere l’imbarcazione: Thunderbee ES-1, enuncia la scritta sul fianco. Il che la identifica come il battello di supporto del mega-yacht approdato ieri presso il porticciolo dell’Isola del Giglio. Le due persone a bordo, dalla provenienza probabilmente americana, non mostrano alcun tipo di rimorso apparente per il disastro che stanno per causare. D’un tratto, come a un segnale non visto, lei solleva il motore fuoribordo, mentre lui si dispone lateralmente ai comandi, quasi volesse attivare un sistema ausiliario di qualche tipo. Il gommone, inesplicabilmente, continua la sua marcia verso la perdizione. Raggiunta la riva, si solleva continuando a grondare acqua e dimostra l’ineccepibile verità: tre zampe poste in corrispondenza dei vertici lo mantengono separato dal suolo. Al termine di tali arti, ci sono altrettante ruote. Senza rallentare eccessivamente, il vascello fuoriesce completamente dal mare, proseguendo felicemente per la sua strada.
Può sembrare ovvio ma in realtà non lo è, affatto: aggiungi le ruote a una barca e quella acquisirà l’abilità di spostarsi fuori dall’acqua. Altrimenti, perché nessuno ci avrebbe pensato mai? La tipica espressione di un mezzo anfibio, sia in campo militare che civile, è da sempre la stessa. Si prende un affidabile mezzo di terra, lo si impermeabilizza tramite l’aggiunta di un vero e proprio scafo, si aggiungono i propulsori da usare nel momento in cui le ruote diventano inefficienti. Nei casi più tecnologicamente avanzati, ci si premura che gli implementi veicolari di terra siano montati su cardini retraibili, per venire ritratti al fine di massimizzare le qualità idrodinamiche del mezzo. Ma alla fine della fiera, la questione è sempre la stessa: si tratta di un’automobile che va nell’acqua. Giammai, il contrario. Il che risulta certamente ideale per uno scenario d’impiego in cui il proprietario intende recarsi al mare (o al lago) già guidando il suo natante su strada, operazione che richiede l’aderenza a determinati standard di sicurezza e funzionamento. Ma che dire, invece, di chi cerca soltanto una maniera semplice per lanciarsi nel mare o fare ritorno alla terra ferma, in assenza di un molo? Bypassando quel tipico, gravoso problema del dover tirare manualmente a riva il gommone etc. etc, facendo bagnare se stessi e gli altri, inclusi gli eventuali bambini ed anziani a bordo.
Una possibile risposta è questa. Nata dalla mente dell’imprenditore, ingegnere ed inventore neozelandese Maurice Bryham, fondatore negli ultimi 20 anni di un ampio ventaglio di aziende del settore tecnologico, tra cui quella di maggior successo, l’internazionale Sealegs. “Gambe di mare” Un nome, un programma; che sembra volersi riferire all’espressione proverbiale per identificare l’esperienza dei marinai veterani. Pur essendo, nel contempo, una descrizione diretta del loro prodotto eponimo, nonché linea di maggior successo commerciale. Lo stesso sistema che abbiamo immaginato a bordo della nostra virtuale Thunderbee ES-1.

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I 18 super alberi della città di Singapore

Sotto un cielo prossimo al tramonto, cammino all’altezza di un palazzo di 6 piani, lo sguardo rivolto ad enormi conchiglie di ferro e vetro. Dinnanzi a me, uno skyline urbano particolarmente elevato, semi-nascosto dall’eterna foschia. Mi trovo su una lunga passerella serpeggiante, circondato da un florilegio vegetale importante. Davanti e dietro a me sorgono degli arbusti improbabili, con il tronco rastremato che culmina in fronde visibilmente stilizzate, con la forma approssimativa di un circuito stampato. A dominare il panorama, il colossale monolito di tre torri squadrate, sovrastate da quella che potrebbe sembrare un’imbarcazione di linea trasportata lì così, per caso. Ad un tratto, come per una congiunzione astrale imprevista, dal maestoso edificio si accende un potente fascio di luce, che punta dritto verso un altro gigantesco arbusto, alla mia sinistra. E allora quello si accede, letteralmente, di milioni di luci, mentre una musica indistinta inizia a suonare nell’aria. È un concentrato di tutti i generi più popolari degli ultimi 15 anni, Pop, Rock, Hip Hop e un pizzico di Heavy Metal, rimbombante come il canto di uccelli della dimensione approssimativa di un aereo biposto Cessna Skyhawk. Progressivamente, l’intera “foresta” inizia a dare il suo contributo, danzando e cantando in quest’inno allo gioia contemporanea…
Immaginate quale potenza economica possa concentrarsi all’interno di una città stato. Un singolo centro, solitario e unico, che ospita allo stesso tempo il suo governo centrale, il 90% della popolazione nazionale, le sue più estreme periferie. E questo sul suolo di un’isola geograficamente separata dalla Malesia, in cui storicamente passarono tutti i commerci degli stretti marittimi d’Asia. Singapore, il cui nome significa letteralmente la “città del leone” costituisce oggi una delle maggiori metropoli cosmopolite al mondo, in grado d’influenzare l’alta finanza del suo intero panorama limitrofo ed oltre, essendosi trovata a costituire uno dei principali players economici dell’Asia meridionale. Si tratta di un modello tutt’altro che unico, in effetti, con episodi storicamente simili verificatosi anche a Taiwan ed Hong Kong, entrambe padrone del proprio destino. E se c’è una cosa che accomuna, indissolubilmente, questi luoghi così distanti, è la seguente: formidabili servizi ed infrastrutture. Non poteva davvero essere altrimenti, quando il loro governo ha un solo conglomerato di cui occuparsi, senza altri progetti sul territorio, onerosi da produrre e mantenere come strade provinciali, autostrade, ferrovie… Una modalità talmente semplice ed efficace di organizzare l’erario, che il difficile diventa, addirittura, trovare una valvola di sfogo per il surplus a disposizione. Ed in questo, la nazione isolana a maggioranza di etnia cinese e religione buddhista, dotata di un potente esercito ed uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, ha scelto una via esteriore particolarmente visibile da ogni capo del mondo. In un certo senso, si potrebbe dire che desideri diventare come Dubai. Un intero parco dei sogni, straordinariamente lussuoso ed al tempo stesso accessibile per il turista, ricolmo delle più strabilianti meraviglie che la tecnologia e il design moderno possano concepire. Ma con un tema, giustamente, diverso: la città-giardino o per meglio dire, la “città nel giardino”. Questo breve slogan, coniato attorno al 2005 dal governo, ha segnato l’inizio di una ricerca di spazi verdi che superi nettamente la media globale, arrivando a costituire un vero e proprio filo conduttore dell’intero sforzo urbanistico locale. Culminante nei tre Gardens by the Bay (Giardini della Baia) fortemente voluti dal tutt’ora Primo Ministro Lee Hsien Loong, che li vedeva come un passaggio obbligato per incrementare la qualità di vita della popolazione locale. Attraendo, nel contempo, nutrite e danarose schiere di turisti. Nel 2006 venne indetta dunque una competizione internazionale, per determinare chi avrebbe avuto l’onore di costruire su questo generoso ritaglio di terra riconquistata dal mare, creata in maniera non dissimile dall’isola artificiale tokyoita di Odaiba. L’appalto fu vinto da due colossi dell’architettura inglese, Dominic White e Grant Associates. I secondi avevano un’idea molto particolare, di che cosa avrebbe potuto conquistare l’immaginazione della gente…

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Cosa c’era all’inizio di un perfetto acquedotto romano

Il mondo brucia quando Roma brucia e tutto quello che può essere fatto, a quel punto, è tentare di spegnerla con vasto dispendio di uomini, mezzi e legioni. Nella sua accezione più estemporanea, si tratta di una metafora: l’Urbe che può rappresentare l’ordine, il centro, il cardine del piccolo universo degli uomini civili. Ma ci furono molte volte, in effetti, in cui Roma bruciò davvero. Forse una delle più memorabili sopraggiunse nel 537 d.C, quando il possente generale Belisario, sbarcato in Africa per volere del suo sovrano, Giustiniano dell’Impero d’Oriente, risalì la penisola sbaragliando a più riprese le armate del regno dei Goti. Finché all’ultimo, con marce serrate e con ferrea disciplina non portò i suoi soldati fin’oltre le mura del sacro luogo dove tutto era iniziato, riportando, dopo oltre 60 anni, i sette colli sotto il controllo dei romani. Ma le armate di re Vitigio non erano ancora state sconfitte, e riorganizzatasi dal grande centro Ravenna, si apprestavano a contrattaccare. Prima di farlo, tuttavia, misero in atto uno stratagemma: distruggere con crudeltà metodica tutti gli acquedotti che rifornivano la città. In questo modo, ritenevano, un assedio sarebbe durato davvero poco. Poiché se anche Roma aveva la sua riserva di acqua potabile, come avrebbe potuto far funzionare i vitali mulini del Gianicolo, da cui veniva tutto il pane destinato a nutrire le bocche dei temuti avversari? La gente si disperò, preparandosi a mangiare le più orribili cose. I soldati si guardavano l’un l’altro, preparandosi alla sanguinosa e disperata battaglia. Belisario nel frattempo, recandosi presso il suo corpo di genieri, esterno e fece quanto poteva per mettere in atto un’idea. Nelle zone più rapide del Tevere, dove l’acqua scorreva veloce, fece ancorare delle coppie di barche. Fra ciascuna di esse, quindi, dispose che venne costruita una ruota, parzialmente immersa nel corso del fiume. La ruota era costellata di recipienti di terracotta. E costantemente, girava…
La copertina delle guide turistiche riecheggia del senso visibile delle Ere: a Roma il Colosseo, così come a Parigi la Tour Eiffel. Mosca ha il Cremlino e Londra, beh, probabilmente il Big Ben. Ma chiedetelo all’ex primo ministro Tony Blair, che nel corso del suo lungo mandato stanziò i fondi, manovrò le lobby, prese accordi e pose le basi per il rinnovamento dell’area circostante i Jubilee Gardens, nella più grande city e caput mundi del Regno Unito, egli vi risponderà probabilmente che nel suo cuore, quel posto è occupato dal London Eye (oggi grazie a una sponsorizzazione, rinominata Coca-Cola London Eye). La più alta e maestosa ruota panoramica mai costruita, che svetta sul fiume Tamigi in uno sfoggio di appassionata decadenza, nella sua favolosa, magnifica ed inutile immensità. Sia chiaro ad ogni modo, che questa non è la prima città a poter vantare un record in merito a grandi cose girevoli messe in posizione verticale. Ci fu un altro tempo, ed un luogo, in cui la capitale del regno aveva la ruota più grande del mondo. Ed anche la seconda, la terza e la quarta, con un’altezza media di 20 metri. Quel regno faceva capo agli Ayyubidi, una dinastia curdo-musulmana tutelata dai mamelucchi Abbasidi, che dopo la cacciata delle orde mongole, prese un piccolo villaggio sulle rive del fiume Orontes e lo fece grande. Siamo nella zona centrale della Siria, un luogo tutt’ora scosso da sanguinosi conflitti, attorno al XII secolo d.C. Ormai da tempo, la vecchia Bisanzio tremava sotto il peso dei secoli e l’urto delle civiltà avverse, eppure, la sua conoscenza viveva ancora. Assieme al segreto per costruire le norias, un particolare tipo di ruota idraulica, spinta innanzi dalla forza del fiume stesso. Un approccio al problema che, per quanto ne sappiamo, aveva un’origine antica.

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