Come avvenne per il proverbiale iceberg, assassino di transatlantici dalle multiple paratie, non è sempre possibile concepire il vero aspetto delle cose. Poiché per quanto possa apparire chiara la superficie, è quello che c’è sotto, nascosto dalle onde spumeggianti, a dare il senso stesso di ciò che galleggia, oscillando, nel mare. Sono ormai due anni che, con brevi interruzioni del servizio dovute a manutenzione ordinaria e implementazione di nuove componenti, la più grande turbina concepita per funzionare grazie alle correnti marine opera nell’area nota in lingua gaelica come An Caol Arcach, quello che tutti gli altri chiamano “stretto delle isole Orcadi” o Pentland Firth. Benché non sia affatto un fiordo (firth) bensì una vera e propria autostrada, percorsa da dozzine di flussi d’acqua che s’intersecano, caratterizzati da nomi altamente caratteristici come gli Uomini Allegri di Mey, lo Swelkie e la Corsa di Duncasby. Un luogo in cui l’acqua può scorrere in direzione ovest per sei ore a una velocità di 5 o 6 nodi, quindi fermarsi per pochi minuti, per poi ripartire in senso contrario per l’intera giornata a venire. Un luogo pericoloso per le imbarcazioni, fin dalla notte dei tempi, ma anche una grande opportunità. Al punto che l’ex-primo ministro della Scozia, Alex Salmond viene spesso citato per aver definito quest’area geografica come l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili, con un chiaro riferimento all’importanza, nella moderna civiltà dei consumi, attribuita alla fonte di molto del petrolio impiegato nel mondo. Ma ormai tutti sappiamo, per una ragione o per l’altra, il modo in cui i carburanti fossili economicamente estraibili dalla crosta terrestre si sta rapidamente avviando verso il suo esaurimento, dimostrando la natura in realtà effimera di luoghi opulenti come la scintillante città di Dubai. Possibile, dunque? Che terminata l’epoca dei grattacieli del deserto, un nuovo tipo di torri possano giungere per connotare la raccolta di energia elettrica, questa volta posizionate in orizzontale sul mare?
Grazie all’opera della Scotrenewables, una delle molte compagnie che sono nate ed hanno prosperato sotto l’egida dell’EMEC, Ente Europeo per l’Energia Marittima, sappiamo oggi, bene o male, l’aspetto che tali oggetti potrebbero assumere, in funzione di un metodo costruttivo frutto di oltre una decade di progettazione e test estensivi a partire dal 2013, che hanno incluso l’implementazione di una versione in scala pienamente funzionante della loro innovativa SR2000, nell’area con allaccio alla rete elettrica nazionale sottoposta al monitoraggio di esperti del sito Fall of Warness. L’oggetto galleggiante non identificato, del tutto simile a un sommergibile per la sua forma allungata ma privo di una sistema di propulsione proprio, di un giallo intenso con lo scafo color mattone, ha una lunghezza di 64 metri con una larghezza, vista la forma cilindrica, misurata in base al diametro: 3,8 metri. Non ha cabine, ne sovrastrutture fatta eccezione per alcune postazioni di controllo e verifica, perché semplicemente, non è stato concepito per ospitare umani. Bensì per venire lasciato, una volta raggiunta la posizione idonea, ancorato al fondale per lunghi periodi, con la funzione di generare ingenti quantità di elettricità: nella fattispecie, secondo quanto misurato nei suoi periodi migliori, fino al 7% dell’intero fabbisogno delle isole Orcadi, equivalente al consumo di circa 800 case. Non credo che a questo punto, molti potrebbero esprimere dubbi sulle potenzialità che potrebbero derivare da una vera e propria flotta di questi apparati, disposti strategicamente nei bracci di mare più agitati del mondo, in Scandinavia, Canada, in Terra del Fuoco… E questo senza neppure prendere in considerazione l’opportunità, ipotizzata da lungo tempo, d’implementare un sistema d’immagazzinamento dell’energia basata sul processo d’idrolisi e le celle d’idrogeno, potenziale rivoluzione dell’intera industria marittima nel corso di due o tre generazioni.
Ora sarebbe logico, del resto, interrogarsi sull’effettivo funzionamento di questo insolito dispositivo. Poiché per quanto concerne l’idea tipica di un generatore basato sui moti sommersi, quello che la storia recente dell’ingegneria ci ha permesso di considerare non è stato nient’altro che un equivalente della tipica pala eolica, piantato nel fondale come una sorta di surreale arbusto di cemento. Mentre in questo caso, l’effettiva realtà è l’esatto inverso: poiché le due pale girevoli previste dall’SR2000 (in grado di ricordare eliche giganti) si trovano in realtà sospese al di sotto, come altrettanti frutti pendenti a portata di squalo. Per lo meno se il pesce cartilagineo in questione fosse lungo come due autobus, e potesse vantare dei denti costituiti da un’indistruttibile lega aliena…
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La ferrovia che s’inerpica sulla montagna dei draghi
Per essere la chiave di volta che sorregge l’incastro, ed amplifica la suddivisione, tra Italia, Francia, Austria e Germania, il paese strettamente continentale della Svizzera è un luogo notoriamente piuttosto tranquillo. Politicamente neutrale per lo meno fino all’inizio dell’epoca contemporanea, economicamente solido in forza dei suoi istituti bancari, con una fiorente industria dedita, in maniera particolarmente celebre, all’arte utile dell’ingegneria meccanica applicata alla vita di tutti i giorni. Il che significa, in altri termini, la costruzione di orologi… Ma ci sono specifici casi in cui questa propensione al culto della precisione si trova riflessa nella stessa presenza d’infrastruttura che, sotto determinati punti di vista, sarebbero difficili da immaginare in qualsiasi altro luogo al mondo. Volete un esempio? Prendete atto, grazie al qui presente video del National Geographic, della presenza secolare della Pilatusbahn. La strada ferrata che parte da Alpnachstad sulle rive del lago dei Quattro Cantoni, per proseguire verso la vetta Esel del monte Pilatus, ad un’altitudine di 2.073 metri sul livello del mare. Il che comporta, in effetti, un’ascensione di 1600 metri in poco più di mezz’ora, con una pendenza massima del 48%. Eppure l’osservatore attento ai dettagli potrebbe notare, non senza un comprensibile moto di sorpresa, l’evidente assenza di qualsivoglia cavo di traino, l’imprescindibile segno di quanto ci si sarebbe ragionevolmente aspettati: l’applicazione del sistema della funicolare, qui poco pratico a causa della particolare conformazione topografica, che impediva la costruzione di una linea di ritorno per fare da contrappeso. Evidenziando come l’unica possibilità sia che i piccoli treni elettrici si muovano sul suddetto tragitto mediante l’impiego della potenza sviluppata dai loro stessi motori. Il che, dal punto di vista prettamente fisico, sarebbe generalmente impossibile. Non soltanto per la quantità di potenza ed energia necessarie, ma anche per la semplice attrazione esercitata dalla forza di gravità, del tutto superiore alla capacità di sviluppare attrito da parte di una serie di ruote a contatto con rotaie di tipo convenzionale. Ecco perché è qui, prevedibilmente, che ha luogo la proverbiale magia, intesa come sovvertimento di quanto l’intera storia dei treni abbia previsto fino al 1885, l’anno in cui Eduard Locher, rinomato ingegnere civile di Glarona, decise di rischiare la sua reputazione e la carriera presentando al mondo un’idea che avrebbe portato l’opinione comune di allora, senza particolari remore o esitazioni, a dubitare della sua effettiva sanità mentale. Una linea con sette tunnel e binari dotati di ancoraggi d’acciaio, per raggiungere la singola località svizzera più amata dai turisti di allora, l’unico hotel su un picco montano, con vista su decine dei massicci più prossimi e i confini distanti di quattro diversi paesi europei.
L’idea prevista in prima battuta, chiaramente l’unica possibile, fu quella d’impiegare una ferrovia di tipo a cremagliera, ovvero dotata di ruote dentate più simili ad ingranaggi, concepite per sfruttare l’incastro con dei binari del tutto simili a scale a pioli, analogamente a quanto trovava l’impiego per determinati tratti della Vitznau-Rigi-Bahn, la più celebre strada ferrata della regione. La quale vedeva un’applicazione del mecanismo Riggenbach, brevettato nel 1863, successiva evoluzione di quanto tentato in precedenza, in grado di sfruttare un sistema d’incastro particolarmente sofisticato, benché costoso da implementare. I primi test, tuttavia, evidenziarono subito l’inadeguatezza di un simile approccio, visto come la pendenza assai superiore del Pilatus tendesse a far sollevare letteralmente la ruota dal binario durante la marcia, perdendo l’incastro e provocando condizioni potenzialmente conduttive al deragliamento. Locher lavorò a lungo, quindi, su una maniera per sovvertire il problema, finché una sinergia particolarmente fortunata non condusse la storia ingegneristica d’Europa a convergere, famosamente, presso la città di Parigi, per la singola Esposizione Universale più importante di quel secolo e tutti quelli passati fino ad esso. Era il 1889 e già la Tour Eiffel, recentemente ultimata all’estremità nord-occidentale del Champ de Mars, gettava la sua ombra sul VII arrondissement mentre il Salone delle Macchine, svettante edificio in vetro tenuto in piedi da una struttura reticolare in acciaio, ospitava il catalogo delle macchine più “sensazionali ed innovative” o in altri termini, il sangue stesso della pervasiva epoca industriale. Eduard Locher, in cerca di finanziatori, aveva ottenuto uno spazio espositivo, in cui cui capeggiavano i suoi disegni ed un modellino di treno mai visto prima. In esso, la cremagliera alla base del meccanismo delle ruote non era più orientata in senso verticale, bensì orizzontale, con gli ingranaggi-ruota, a coppia di due, che abbracciavano letteralmente una rotaia centrale disposta in ripida diagonale “montana”. Un’idea destinata a colpire a tal punto, alcune delle persone rilevanti, da giustificare la costituzione di una compagnia privata, che avrebbe costruito e gestito al versione su scala effettiva dell’intrigante idea: il Consiglio di Amministrazione della Pilatus Bahn AG.
Breve lezione dal campione del mondo di aerei di carta
Una caratteristica estremamente rilevante nel mondo degli aerei di carta competitivi, probabilmente inaspettata da parte di molti, è la propensione dei record mondiali a durare anni, ed anni, ed anni. Piuttosto che trattarsi di un campo in cui l’ultimo arrivato, con un colpo di fortuna fulmineo, può riuscire a superare la concorrenza, qui contano principalmente l’attenzione ai dettagli, l’esperienza e la precisione acquisita attraverso un lungo percorso individuale. E in effetti quando nel 2012 l’aeroplano “Suzanne” di John Collins, attuale detentore del record assoluto di distanza, percorse i 69 metri che l’avrebbero fatto atterrare dritto nella storia di un simile… Sport? Ciò avvenne spodestando Stephen Kreiger, che deteneva il primato a partire dal 2003. Stiamo parlando di una media di 8-9 anni, praticamente un’eternità per quello che dovrebbe essere, nell’ideale comune, un semplice passatempo per bambini. Ma la pura vittoria dei numeri non fu l’unico spunto d’innovazione che venne espresso quel giorno. L’aeroplano costruito dall’allora cinquantunenne di Sausalito, in California, fu il primo vincitore di un record mondiale a non essere più concepito come una sorta di freccetta lanciata con forza alla stregua di una pallina aerodinamica, al fine di penetrare l’aria e giungere, auspicabilmente, là dove nessuno era arrivato prima. Trattandosi questa volta di un aliante dalle ampie ali, in grado di sfruttare il mutamento progressivo della velocità di volo per incrementare il tempo di sospensione in aria. Inoltre, questione destinata a far discutere molto negli anni a venire, Collins decise di non lanciare personalmente il velivolo, affidandosi piuttosto alle doti di un quaterback del football universitario, Joe Ayoob, noto per i suoi passaggi estremamente svelti ed efficaci. Una scelta che venne ufficialmente criticata dal suo rivale, ingegnere di 23 anni, il quale si era allenato per un intera estate incrementando la massa muscolare del braccio destro, con grande fatica e sacrifici continuativi nel tempo. Eppure, il comitato decise di dare ragione a sistema dello sfidante: la ragione va ricercata nel significato stesso che si dovrebbe attribuire agli aerei di carta. Non è forse vero che essi costituiscono, o dovrebbero principalmente costituire, una prova delle capacità di progettazione? Laddove l’esecuzione, per così dire, della teoria empirica, sarà necessariamente la piegatura del foglio di carta stesso. Mentre il lancio introduce in se stesso un’ulteriore barriera, quella delle prestazioni fisiche, che non ha effettive corrispondenze nel mondo reale del volo.
Ad aver aiutato nell’attribuzione del premio deve aver senz’altro contribuito il carisma innato di Collins, noto per aver lavorato, parecchi anni fa, come presentatore televisivo e per le molte conferenze e lezioni tenute nei contesti più diversi, dalle scuole elementari ad alcune delle più grandi e prestigiose università statunitense. Con uno stile pacatamente entusiastico che riemerge ancora una volta, in tutto il suo fascino, nell’intervista rilasciata verso la fine del mese scorso alla rivista Wired, nella quale ci espone, in maniera semplice e chiara, la metodologia per ricreare tre dei suoi progetti più famosi: il Boomerang, un aereo capace di ritornare da colui che l’ha lanciato, il Bat Plane, che batte le sue ali durante il volo come un pipistrello e ovviamente il Suzanne, dal come di sua moglie, l’aereo capace di raggiungere il bersaglio in fondo al corridoio di qualsiasi scuola, non importa il numero degli studenti. E c’è qualcosa di profondamente spontaneo, nel modo in cui l’autore da ad intendere attraverso il suo sito ufficiale di appartenere alla nuova cultura dei makers, “costruttori di cose”, senza per questo mettersi su un piedistallo al di sopra di passatempi moderni fin troppo spesso criticati, vedi i videogiochi, Internet e gli smartphone. Affermando piuttosto come l’attività da lui praticata e promossa da così lungo tempo dovrebbe affiancare le altre, come via d’accesso privilegiata al metodo scientifico, e tutto ciò che questo comporta nel modo di affrontare le piccole sfide quotidiane della vita. Aeroplani che richiedono dedizione, dunque, ma anche creatività e fantasia. Lui stesso afferma come i suoi allievi a distanza non dovrebbero copiare pedissequamente i contenuti dei video o degli svariati libri precedentemente pubblicati, quanto modificarne le proposte al fine di costruire un qualcosa di ancora migliore. Nella speranza programmatica, per lui fondamentale, di vedere il celebre record prima o poi superato. Poiché questo non sarebbe altro che l’apice, di una lunga e riuscita carriera in un campo tra i più eclettici e al tempo stesso, divertenti…
Lo scomparto segreto del tavolo automatico da Mahjong
Non tutti i giochi nascono uguali: ve ne sono di placidi ed eleganti, fatti di movenze cadenzate accompagnate da ritmi lenti. Mentre altri sono frenetici, dominati dalla cacofonia dei suoni e il vocìo dei loro partecipanti. E ci sarebbe molto da dire, sul caratteristico stile dei giocatori di Mahjong o Mah Jong (麻将) il gioco che ha avuto origine durante la Cina della dinastia Qing (1644-1912) per poi espandersi e conquistare tutta l’Asia Orientale, seguìta dagli Stati Uniti e in tempi più recenti, persino determinate regioni d’Europa. La maniera in cui le tessere in legno, metallo o resina (un tempo si usava l’avorio) facenti funzione delle carte da gioco nostrane, sbattono sonoramente tra di loro, mentre i giocatori chiamano in a gran voce i loro tris, kang e le combinazioni supreme, chiamate onori. Qualcuno potrebbe persino affermare che la caratteristica modalità d’interazione che fa parte della cultura di quel paese, in qualche modo, abbia colorato e modificato il senso di questo gioco, rendendolo un portale di accesso per un modo di essere che fondamentalmente, non ci appartiene. O in qualche maniera non riconosciamo. Così che risulta essere piuttosto raro, nonostante la sua popolarità, trovare questo gioco all’interno di un Casinò dell’Asia. Almeno, per ora: poiché come in qualsiasi altro campo, potrebbe venirci in aiuto la tecnologia. Che semplifica ed elimina, talvolta, i problemi, come quello altamente caratterizzante di una partita con i 144 parallelepipedi, nel corso della quale al termine di ogni mano, occorre ripristinare il muro. Che non è tanto una divisione difensiva tra i popoli come quella costruita, a suo tempo, dai fedeli sottoposti del primo imperatore, bensì un doppio quadrato sovrapposto, costituito da un segmento per ciascun lato corrispondente a un diverso giocatore, da cui quest’ultimo dovrà pescare ad ogni turno. Per la cui costituzione i molti volti che si renderà necessario, il dispendio di minuti risulta essere tutt’altro che indifferente. Soprattutto quando si considerano i possibili incidenti, come tessere cadute a terra, persone che ne prendono troppe o troppo poche dal mucchio centrale, possibili accuse verso qualcuno che potrebbe aver sbirciato il seme o il numero di un determinato pezzo di gioco. Con conseguente aumento esponenziale del senso di chaos ed incontrollabile sequenza degli eventi, per non parlare del rumore prodotto dai giocatori. Ma i problemi non sono soltanto questi: mescolare a tal modo le tessere, semplicemente, non è in alcun modo professionale. Tanto che agli albori dell’epoca moderna, non era semplicemente pensabile la figura di un aristocratico che giocava a Mahjong.
Quale sarebbe dunque, la succitata bacchetta magica (o ventaglio piumato dello stratega) che potrebbe aspirare a risolvere tutto questo? Nell’opinione di una vasta gamma di aziende produttrici, tutte orientate sulla stessa linea con la tipica costanza dell’industria cinese, si potrebbe riuscire a trovarla in uno dei grandi misteri della fisica, ovverosia il magnetismo. Tramite l’approccio dimostrato da quella che potremmo descrivere, con un certo grado di associazione, come una vera e propria lavatrice orizzontale. Il tavolo automatico da Mahjong, una realtà oggi diffusissima, benché letteralmente sconosciuta prima degli anni 2000, è un sistema elettrico ed elettronico che attraverso una variegata selezione di artifici, permette di superare la ponderosa necessità sopra descritta. Al che i quattro “punti cardinali” umani della partita, al termine di ogni mano, non dovranno far altro che premere l’apposito pulsante al centro del piano, vendendo sollevarsi una sezione paragonabile al prototipico tappo della vasca da bagno. Per poi procedere (auspicabilmente con pacatezza) a spingere giù le tessere nel buco risultante, come nel processo di un vulcano geologico all’incontrario. Al che, premendo il secondo dei pulsanti presenti sulla piccola plancia, degli sportelli nascosti in corrispondenza di ciascun lato si apriranno rapidamente. Lasciando emergere, come per magia, la sfavillante presenza di un muro già pronto alla prosecuzione della partita. E pensate che nei modelli più avanzati, è persino presente uno scomparto trasparente per il lancio dei dadi, metodologia ufficiale per determinare chi avrà l’onore della prima giocata! Eliminando in questo modo, un’ulteriore fonte di discussioni o disordini a danno della quiete generale.
Resta perciò indubbio che il tavolo automatico da Mahjong sia un valido ausilio all’implementazione di uno stile di gioco maggiormente spedito e pratico nelle procedure. Nonché la valida presenza di un “arbitro imparziale” (addirittura, robotico) che s’incarica di eliminare potenziali “errori” più o meno voluti che possano compromettere il risultato della partita. Ma non viene anche a voi la curiosità di scoprire quale sia, esattamente, il suo funzionamento?