Un cannone per distruggere la grandine a comando

Nonostante la sua collocazione in una zona strategica dello stato meridionale del Mississipi e il ruolo d’importante centro logistico per l’esercito dei Confederati, la cittadina di Canton (13.000 abitanti) non fu mai il sito di una battaglia. Con il risultato che i molti cannoni, per non parlare dei fucili, che a partire dal 1861 transitavano presso il suo svincolo ferroviario costituivano una vista inquietante si, ma mai realmente problematica per la popolazione. Una fortuna, questa, destinata a durare nel tempo. Ma non per sempre. Perché le persone sarebbero disposte a fare qualunque cosa pur di proteggere quello a cui tengono veramente. E caso vuole che le grandi corporazioni prive di un volto, entità multinazionali dai molti tentacoli serpeggianti, altro non siano che l’espressione portata ai massimi termini della volontà dell’individuo. Ingrandita a dismisura e proprio per questo, capace di arrecare molti più danni. Di sicuro nessuno aveva previsto, verso l’inizio del 2005, che il grande stabilimento della Nissan costruito in periferia avrebbe potuto costituire un problema: fonte di lavoro per gli abitanti locali, motore fondamentale dell’economia, grande occasione di fornire al popolo americano automobili economiche, funzionali e sicure. Poi è successo che i circa 12.000 nuovissimi veicoli, custoditi in ogni dato momento nel parcheggio antistante in attesa del momento della spedizione, sono stati improvvisamente battuti da un particolare tipo di precipitazione atmosferica, tutt’altro che rara a queste latitudini. Milioni di chicchi glaciali, caduti a gran velocità, capaci di danneggiare la vernice e rovinare la carrozzeria. Il che, considerati i circa 400 milioni di dollari di valore per l’intero caravanserraglio, ha dato origine nei manager responsabili a un profondo e potente sentimento. Riassumibile nella frase: “Volete la guerra… E guerra sia!” Fast-forward di qualche mese: il traffico leggero sulla strada di scorrimento statale procede serenamente verso la propria destinazione. Il timido sole d’inverno, all’improvviso, viene coperto dallo spettro di una piccola nube: questo è il segnale. Algoritmi barometrici nascosti alla vista determinano che c’è una probabilità del 33% dell’ennesima, distruttiva grandinata. Ed è allora, che i cannoni si mettono a sparare.
Una cannone antigrandine, per come si presenta nella sua configurazione più tipica, è formato un cono rovesciato, con la parte più alta puntata verticalmente verso il cielo, una camera di scoppio sottostante piena di gas acetilene ed un sistema elettronico di controllo. Secondo la prassi per così dire moderna (benché esistano versioni di questa idea a partire dagli ultimi anni del XIX secolo) tale marchingegno dovrà essere attivato in tempo utile al formarsi di un fronte temporalesco, per far fuoco al suo indirizzo con una cadenza regolare tra l’uno e i dieci secondi. Benché la frequente presenza multipla di svariati apparecchi in un singolo sito, generalmente, basti a garantire un frastuono praticamente ininterrotto fino allo spegnimento degli stessi. Il funzionamento, secondo quanto delineato per la prima volta nel 1890, da un certo Prof. Bombicci di Bologna, geologo, il quale aveva scoperto attraverso i suoi esperimenti che una deflagrazione diretta verso l’alto poteva trasportare sufficienti quantità di polvere, affinché la formazione del chicco di grandine all’interno della nube potesse essere in qualche maniera “disturbata”. Ma la figura che avrebbe portato fino alla sua più naturale conseguenza questa ipotesi, ritrovandosi indissolubilmente legata alla storia della sua evoluzione, sarebbe stato Albert Stiger, borgomastro ed agricoltore della Stiria austriaca, il quale aveva istituito bel 1896 la prima organizzazione di difesa contro la grandine, con sede presso il comune di Windisch-Feistritz. La prima sperimentazione, dunque, fu giudicata uno strabiliante successo, con una tempesta di chicchi di ghiaccio particolarmente distruttiva in quell’anno, capace di rovinare i raccolti dell’intera regione, che a seguito del fuoco di sbarramento messo in atto dai suoi oppositori umani avrebbe risparmiato soltanto ed unicamente quel particolare angolo d’Austria, tra il palese entusiasmo dei suoi abitanti. Tanto che, nel giro di appena una decina d’anni, proprio qui sarebbero stati collocati ben 200 bocche da fuoco a gas, capaci di generare un frastuono paragonabile a quello della sempre più prossima prima guerra mondiale. In Italia, nel frattempo, la particolare corrente di pensiero aveva avuto una diffusione a macchia d’olio, con svariate migliaia di questi cannoni disseminati lungo il territorio della penisola. Destinati a superare i 12.000 entro l’inizio del ‘900. Il resto d’Europa, nel frattempo, non era da meno, con validi esempi messi in funzione dalla Spagna alla Crimea, mentre sembrava che l’intera classe agricola, stanca di subire senza poter fare nulla, avesse letteralmente dichiarato guerra al cielo stesso di questo pianeta. A quel punto, inevitabilmente infastiditi dal frastuono, gli abitanti delle campagne che non possedevano le risorse finanziarie sufficienti a partecipare a questo capodanno infinito, chiesero a gran voce che la scienza facesse chiarezza: funzionavano veramente, queste terribili diavolerie dei tempi moderni? Fu allora che le cose iniziarono farsi decisamente più complicate…

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L’inventore che usò i piccioni per dare inizio alla fotografia aerea

C’era un uccello in più! Non riusciva a capacitarsene, così li contò di nuovo: indubbiamente, la quantità di code che sporgevano dai fori del contenitore dimostravano al presenza di un nuovo, imprevisto abitante del suo piccolo paradiso pennuto. Lo stimato farmacista Julius Neubronner chiuse ancora una volta la porta d’ingresso della sua colombaia, situata nel solaio della Streitkirche, chiesa cattolica un tempo abbandonata nella città protestante di Kronberg. Almeno finché lui, grazie alle finanze ereditate, non l’aveva acquistata ed eletta a sede dell’azienda di famiglia, abbastanza rinomata e prestigiosa da riuscire ad attrarre l’attenzione dei nobili del vecchio ducato di Nassau, ormai da vent’anni assorbito nella nascente potenza europea della nazione Prussiana. Così che lui era riuscito a farsi strada a corte, subito dopo la morte di Federico III, secondo e penultimo Imperatore di Germania deceduto nel 1888, il quale aveva lasciato lo scettro del potere in mano a sua moglie, la primogenita nonché omonima della regina Vittoria del Regno Unito, destinata a passare alla storia come  Kaiserin Friedrich. Eppure nel corso della vita, nonostante gli impegni più remunerativi, non aveva mai perso contatto con le sue passioni giovanili, prima fra tutte il fascino spontaneo che aveva sempre provato per una pratica di suo padre Sohn Wilhelm, finalizzata alla consegna e l’ordine di sostanze medicinali urgenti fino al peso di 75 grammi: l’impiego assiduo di quel vecchio amico dell’umanità, il piccione viaggiatore. Meditando così su passato, presente e futuro, Neubronner si avvicinò alla grande cesta centrale, in cui aveva disposto il becchime per i suoi preziosi beniamini. Molto lentamente inserì quindi la sua mano, per non spaventare gli animali: da principio estrasse Gunther, l’ultimo dei suoi messaggeri volanti, acquisito e addestrato con grande impegno nel corso dell’ultima stagione. Quindi estrasse Amelia, affidabile volatrice con oltre 30 consegne all’attivo. Accennando un sorriso, dispose i mansueti uccelli sul trespolo che si trovava alla sua sinistra. Quindi, al terzo tentativo, scoprì “l’intruso”. Se non che quelle piume a uno sguardo più approfondito, non gli erano affatto sconosciute, bensì appartenenti a qualcuno che da queste parti ci era già passato, prima di scomparire misteriosamente. “Arnold!” Esclamò il farmacista, con la bocca spalancata dallo stupore: “Sei… Tornato! Dopo tanti mesi…” Facendo lievemente oscillare la testa in una sorta di rudimentale cenno d’assenso, il piccione rispose: “Gruu, gru”. Mentre nella mente del suo padrone ritrovato, per via dell’insolita contingenza, iniziava a formarsi un’idea.
Fu questo il preciso momento, secondo la leggenda, in cui Neubronner ricordò. Di come, da ragazzo, avesse acquistato di nascosto uno degli avveniristici macchinari costruiti sul progetto di Henry Fox Talbot, lo scienziato britannico inventore di un processo per imprimere su carta gli effetti della luce catturante mediante una camera oscura, creando immagini perfette ed imperiture. E del modo in cui, nonostante i primi fallimenti, si fosse procurato in seguito macchine fotografiche sempre più piccole e moderne, fino all’ultra-portatile Ticka, strumento costruito in legno in grado di entrare nel taschino della camicia. Per non parlare del peso, sostanzialmente inferiore a quello che lui era solito incorporare nel pacco aerotrasportato da parte dei suoi uccelli ammaestrati. Da lì alla curiosità, di sapere quali giri facessero esattamente quei piccoli operatori postali, il passo era breve, e così iniziò ad elaborare la parte logistica della sua idea. In primo luogo, costruì un sistema pneumatico, in grado di attivare autonomamente l’otturatore dopo il trascorrere di un lasso di tempo predeterminato. Quindi abbinò il tutto ad una speciale piccola imbracatura, capace di mantenere in posizione la piccola macchina sul petto di un piccione in volo. Trascorsero i mesi fino al momento lungamente atteso: seguìto dalla moglie cortesemente interessata col sorridente figlio Carl in braccio, poco più che neonato, Julius fece il suo trionfale ingresso nella colombaia. Usando gesti esagerati, come un prestigiatore, l’uomo presentò ai due Arnold il volatile, pienamente bardato e pronto per la sua breve escursione fotografica. Per accomodare il suo carico addizionale, il foro d’ingresso era stato allargato, e un grosso tappeto imbottito campeggiava al centro del solaio. Nel corso di questo primo esperimento, tutto ciò che l’uccello avrebbe dovuto fare era prendere il volo e compiere un rapido giro del quartiere. Mentre il pater familias si avvicinava all’unica finestra della vecchia chiesa, sentì ridacchiare delicatamente il bambino. “Questo è il segnale!” Pensò tra se e se. Lasciando scivolare fuori l’amico pennuto, l’uomo sussurrò a beneficio dei suoi familiari: “Vola, mio prode. La Storia stessa, ti attende…”

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Skyshelter, grattacielo d’emergenza costruito da una mongolfiera

Sono 13 anni, ormai, che con cadenza regolare la rivista di architettura eVolo presenta i risultati del suo concorso internazionale “Skyscraper Competition” rivolto a tutti i giovani designer, studenti di architettura o perché no, i veterani che non hanno perso l’impulso di sognare. Con risultati degni di comparire, in rapida sequenza, sulla copertina di dozzine di romanzi di fantascienza. Già, perché il soggetto selezionato di volta in volta, al di la di fornire una contestualizzazione di tipo estremamente generico (quest’anno il tema è “sostenibilità”) lascia completa carta bianca ai diretti interessati, con l’intesa non scritta che qualsiasi ipotesi plausibile, per quanto non probabile, è passibile di partecipare e persino, con le giuste condizioni, vincere il premio finale. Onore riservato, verso la metà di aprile, a Damian Granosik, Jakub Kulisa e Piotr Pańczyk, creativi con un’idea davvero particolare, con il merito ulteriore dell’attualità. “Le statistiche dimostrano che ogni anno” Esordisce il breve video di presentazione: “….Si verifica una quantità maggiore di disastri naturali: inondazioni, vulcani, terremoti. Ma fornire i soccorsi dovuti spesso non è facile, a causa di problemi logistici e relativa inaccessibilità.” Di certo costruire un campo profughi richiede il verificarsi di determinate condizioni, soprattutto all’interno di un territorio rovinato dal recente verificarsi di simili eventi: si richiede, tra le altre cose, acqua corrente, energia elettrica e soprattutto, uno spazio sufficientemente grande da erigere una quantità di tende proporzionale al numero di chi ha urgente necessità di assistenza. Il che significa, all’intero di un’ipotetica città devastata: A – Scegliere un luogo che sia lontano dalla maggior concentrazione di feriti, oppure B – ritardare le operazioni, al fine di rimuovere le macerie e fare spazio ai servizi umanitari richiesti di volta in volta. Ma è mai possibile, nel tecnologico 2018, che esista un terzo e più risolutivo sentiero?
L’idea alla base del grattacielo Skyshelter, il cui nome completo risulta essere “Skyshelter.zip” (con un riferimento vagamente démodé al formato di archiviazione dei file inventato nel 1989 da Phil Katz) è disporre di un qualcosa che non soltanto risulta essere prefabbricato, ma anche dotato di una forma compatta estremamente facile da trasportare, ad esempio tramite l’impiego di elicotteri, fino al punto di sua maggiore necessità. L’edificio compresso nelle dimensioni (da cui il suffisso del nome) viene quindi saldamente ancorato al terreno mediante l’impiego di apposite fondamenta meccanizzate, poco prima di essere connesso ad un serbatoio semovente di elio o altri gas più leggeri dell’aria, al fine di riempire lo spazio cavo, fino a poco prima appiattito, che occupa lo spazio corrispondente ad un terzo della sua elevazione complessiva. Dando origine a quello che non sarebbe esagerato definire come una sorta di gioco di prestigio sovradimensionato: nel giro di una manciata di minuti, l’oblungo dirigibile inizia a salire, trascinandosi dietro le “mura” della struttura, in realtà nient’altro che stoffa polimerica con un’intelaiatura di pannelli creati grazie alla stampa 3D, in grado di fornire l’adeguato grado di isolamento dalle intemperie o le basse temperature. Con una progressione verso l’alto che potrebbe ricordare, essenzialmente, il funzionamento di una fisarmonica gigante. A quel punto, una volta raggiunta l’altezza desiderata in proporzione al numero dei bisognosi (che potrà anche non essere la quota massima prevista) il pallone verrà assicurato con dei cavi d’acciaio capaci di resistere ai venti trasversali, diventando un soffitto solido quanto qualsiasi altro. Ma, con un trovata certamente in grado di rientrare tra quelle che hanno concesso ai tre visionari il premio di quest’anno, dotato di un buco verticale in mezzo, con un depuratore situato nell’estremità inferiore, capace di raccogliere e purificare l’acqua piovana a vantaggio degli occupanti, oltre a fornire l’irrigazione a eventuali orti verticali che questi ultimi dovessero decidere di installare all’interno, nel caso in cui la loro residenza dovesse trasformarsi in una sede semi-permanente. Mentre nell’ipotesi migliore, che la situazione dovesse risolversi in un tempo ragionevole, il grattacielo potrà essere rapidamente sgonfiato, pronto per il sollevamento mediante la stessa serie di elicotteri che l’aveva portato fino a lì…

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Il sogno di un robot che ti monta il catalogo dell’IKEA

“Francamente, non capisco proprio quale sia il vantaggio.” eRosy Lyft III si trovava sul tetto del suo appartamento galleggiante da 128 mq fornito dal governo, assieme al marito Ulfriczoltan Jr. Seychelles, di ritorno dalla sua spedizione presso l’antica area commerciale della città, situata ai confini estremi del golfo di California (grossomodo corrispondente alla zona nord di San Francisco, prima che la principale città della Costa Ovest facesse la fine di Atlantide a causa del maggior territorio della storia). “Come hai detto che si chiamava, quel posto? IKEA?” Voltandosi momentaneamente per aprire il portellone posteriore della sua auto-drone a sei rotori, Ulfric sorrise sotto i baffi annuendo, prima di recitare lo slogan che aveva ritrovato nei suoi libri di storia del marketing, risalenti a prima dell’adozione su larga scala delle fonti energetiche con celle d’idrogeno autorigenerative: “La Casa è il Posto più Importante del Mondo, mia cara. Non possiamo lesinare sull’arredamento.” Lei fece compiere un rapido giro di esasperazione esplorativo alle due pupille: certo, dopo tutto era anche questo che amava del suo consorte. In un anacronistico impeto di momentaneo sforzo fisico, la coppia prese quindi a scaricare gli scatoloni ordinatamente inseriti nell’aeromobile, in tutto soltanto tre. “Voglio dire, potevi ordinare tutto da Internet, come facciano sempre. Il tavolo e le sedie da pranzo sarebbero arrivate già montate, e…” Fu allora che mentre si voltava sbuffando, la moglie notò l’appuntita espressione di lui, furbesca al punto da sembrare quasi volpina, mentre con un saltello tornava a lato dell’automobile volante, soltanto per spalancare la portiera destra. Una sagoma si erse in piedi, con la statura approssimativa di un umano alto 1 metro e 75, creatura che avrebbe pienamente ricordato se non fosse per la pelle argentea, gli occhi simili a telecamere e la quasi totale assenza di lineamenti. L’androide indossava una maglietta gialla con strisce blu scuro e risvolti del colletto della stessa tonalità, sopra un paio di blue-jeans del tutto privi di strappi, come si usava circa un paio di secoli fa. Le sue braccia, con mani simili a tenaglie, ruotavano in senso longitudinale per tutti e 360 i possibili gradi. Le gambe si flettevano avanti e indietro in maniera ritmica, come quelle di un personaggio di Betty Boop. Con voce metallica quasi musicale, quindi, pronunciò le seguenti parole: “IKEA-bot 58.362 al vostro servizio, signori. Dove posso portare ed ASS-EM-BLARE gli acquisti effettuati?”
Si tratterà di un’evoluzione semplice, nonché naturale. Una volta inventata l’intelligenza artificiale, e sia chiaro che ad ogni momento che passa ci andiamo più vicini, l’umanità si rivolgerà ai suoi primi fratelli artificiali per farsi aiutare nella mansione più difficile che abbia mai dovuto affrontare nel corso della sua intera storia: assemblare i mobili pre-confezionati del più famoso produttore svedese, ormai da tempo sinonimo di un arredamento funzionale, esteticamente gradevole e poco costoso. O almeno, è così che sembra da un certo punto di vista, in una società moderna che tende costantemente a drammatizzare. Perché fa ridere, perché nessuno ci crede veramente, ma anche perché suscita un vago pensiero sulla falsariga del “Chi me l’ha fatto fare!” Schiavizzando se stessi e sfidando la propria essenza di consumisti, alla ricerca di un solido senso di soddisfazione, ci s’interroga dunque sull’esistenza ed il mondo stesso delle idee. Tutto quello che possiamo fare, verso l’arrivo di un nuovo livello di civilizzazione casalinga, è porre le basi. Un po’ come si sono approcciati al problema gli addetti di un gruppo di ricerca della prestigiosa Scuola d’Ingegneria della Nanyang Technological University (NTU) il politecnico di Singapore. Nella fattispecie, Francisco Suárez-Ruiz, Xian Zhou e Quang-Cuong Pham, autori dello studio intitolato “Possono i robot montare una sedia dell’IKEA?” Pubblicato con grande fanfara mediatica sul numero di metà aprile di Science Robotics, importante rivista del settore. Capace di colpire la fantasia del pubblico, come spesso capita, non tanto per il contenuto testuale, quanto per il materiale multimediale di accompagnamento, ossia soprattutto un video di circa 20 minuti, accorciato e montato per la stampa, nel corso del quale un paio di braccia prive di corpo, ma dotate di telecamera, osservano attentamente i singoli pezzi necessari per l’assemblaggio di una sedia modello Stefan, disposti alla rinfusa attorno a loro. Per poi mettersi, industriosamente, a costruirla. Ora, come molti di voi potrebbero già sapere, il montaggio di questo particolare oggetto può rientrare nella categoria delle cose semplici soltanto all’apparenza, in funzione dei suoi pochi pezzi e il numero non troppo elevato di viti. Ma alla stessa maniera degli altri prodotti di arredo del colosso scandinavo, è pur sempre necessario un certo grado di precisione, tale da indurre, nei poco orientati alla metà manuale del mondo, un senso latente e duraturo di scoramento. Aggiungete pure a questo il fatto che in genere, quando ci si approccia alle “semplici” Stefan, si è già trascorsa un’intera giornata a sgobbare dietro a ben più ostici divani, librerie ed altro, ponendoci nella condizione fisica meno ideale per affrontare una simile sfida.
al che deriva che, immaginare un futuro in cui i robot potranno risolvere tale questione per noi, riporta con la mente alle fantasticherie di un ventennio fa, quando si pensava che nel 2000 gli esseri artificiali avrebbero pulito casa per noi e risolto le altre faccende quotidiane (un traguardo a cui forse soltanto adesso, ci stiamo avvicinando). Eppure, mi sembra già di sentirlo, che cosa c’è di speciale alla fine? Tutti hanno bene impressa nella mente la scena della tipica catena di montaggio, ad esempio del settore automobilistico, in cui una serie infinita di braccia articolate s’industriano nello svolgere mansioni assolutamente predeterminate. Potrebbe non risultare subito chiara, dunque, quale sia la differenza con una versione più piccola, e adibita ad uso privato, di quella che bene o male sembrerebbe esattamente la stessa cosa. Soltanto che in effetti, non è così: la principale differenza va rintracciata nel contesto, assai più simile a quello del cosiddetto “mondo reale”….

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