Il fabbricante di bottiglie con la quarta dimensione sotto il pavimento

Klein Bottles Cliff Stoll

La tipica villetta a schiera statunitense monofamiliare ha una forma estremamente riconoscibile, da fuori: il prato verde e ben tenuto, una grande finestra nel salone, un vialetto per raggiungere con l’auto il garage. La staccionata dipinta (si spera di bianco) e almeno un albero (di mele?) a ridosso della siepe che delimita lo spazio dei vicini. Più tre stanze da letto, due bagni e una grande cucina. Nient’altro potrebbe essere più ameno, ed anonimo di così. Ma nel contempo gli anni ed anni di racconti pseudo-fantastici, gialli, horror e d’altro tipo, ci hanno insegnato che l’assurdo più sfrenato tende a nascondersi proprio dietro a quelle mura in legno e intonaco, oltre cui la patina della normalità tende a dissolversi nel vento della soggettività, formando una particolare nebbia che corrode le rigide norme della razionalità. Può così succedere, facendo il nostro ingresso nella casa dell’astrofisico, ingegnere informatico ed hacker Clifford Stoll, di venire introdotti in un mondo totalmente inusuale. Affacciandosi da uno stretto pertugio, posto nel seminterrato di detta struttura, da cui è possibile accedere all’interfaccia tra l’edificio e il duro suolo. La lunga intercapedine che, se sufficientemente isolata dall’umidità, occasionalmente si trasforma in una sorta di cantina di riserva, sempre molto utile a chi nella vita di chi apprezza accumulare cose. Vi premetto, se non aveste ancora dato uno sguardo al video, che quest’uomo è una persona molto inusuali, così come tendono a esserlo le sue particolari collezioni (vedi ad esempio quella di calcolatrici meccaniche, su cui scrissi precedentemente). E quindi che dovremmo fare, a questo punto? Strisciare come vermi, o berretti verdi all’epoca della guerra del Vietnam, per entrare a testa bassa nel suo santuario sotterraneo? Niente affatto. C’è il robot semi-automatico con telecamera, per farlo. Un attrezzo auto-costruito per questa specifica ragione d’impiego.
Proprio così: progetti. La mente fervida s’impegna in molte cose. E un vero scienziato può essere, al tempo stesso, ricercatore, insegnante, ingegnere, o perché no! Risolvitore di problemi estremamente delicati. Ancor più famosa della dissertazione accademica sul moto dei pianeti scritta da Stoll, inclusiva di spunti piuttosto innovativi, fu infatti l’aiuto che diede nel 1986 al governo degli Stati Uniti, nella scoperta e cattura della spia russa Markus Hess, che aveva ottenuto illecitamente l’accesso illimitato ai server dell’università di Berkeley, oltre a quelli di altri 400 computer di varia importanza per gli Stati Uniti, con lo scopo di sottrarne le informazioni rilevanti prima di tornare in patria. Se non che fu proprio il nostro visionario amico, come contorno al suo lavoro, a tracciare alcune chiamate remote e permetterne la cattura, storia raccontata nel suo libro, mi dicono piuttosto romanzato, intitolato The Cuckoo’s Egg: Tracking a Spy Through the Maze of Computer Espionage. Trascorsa quindi l’era della gloria e delle sfide quotidiane, fra guerre di bottoni invece che fucili, ciò che resta fuori dal lavoro è solo tempo libero. Il che non significa, del resto, che sia necessariamente improduttivo.
Tutto ebbe origine, secondo il racconto enfaticamente esposto nel soprastante video, “qualche tempo fa” quando Stoll fu chiamato da un suo amico artigiano per aiutarlo a programmare il computer Macintosh da impiegare per il controllo remoto dell’ultimo modello di forno per la vetrofusione. Operazione al termine della quale, il professore scelse di essere pagato direttamente in natura: “Niente soldi.” Disse costui: “Costruiamo, invece, qualcosa”. I due presero quindi ad estrudere e plasmare il vetro, formando un bulbo tondeggiante con il collo stretto e lungo, simile a un cilindro. Quindi detta forma venne fatta curvare come un manico di teiera, e riportata a saldarsi con la superficie della bottiglia stessa. L’altra estremità di questa, nel contempo, è stata aperta sotto e ribaltata, andando a congiungersi con l’altro lato del cilindro. Avete capito di cosa sto parlando? No? Allora vi conviene continuare a leggere. Scoprirlo sarà per voi, ritengo, alquanto interessante.

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Una visita virtuale al nuovo museo delle uova di Fabergé

Faberge Museum

A San Pietroburgo, dentro al palazzo del ‘700 di Naryshkin-Shuvalov, inizialmente progettato dall’architetto italiano Giacomo Guarenghi per quella che sarebbe diventata una delle amanti di Alessandro I di Russia (1777-1825) dal 2013 si trovano nove degli oggetti più incredibili nell’intera storia dell’umanità. Che non possono definirsi rari, semplicemente perché sono unici, per l’abilità, la scelta segreta dei metodi e lo specifico volere di colui che li creò, nonché in forza del contesto completamente irripetibile che poté permettere la loro straordinaria concezione. Sono davvero pochi, al giorno d’oggi, a non conoscere la storia quasi leggendaria delle uova di Fabergé, nate dall’incontro di un gusto estetico che sarebbe impossibile non definire, a pieno titolo, Barocco, con l’inesauribile pool di risorse, tecnologiche e procedurali, offerte dalle prime propaggini tentacolari della modernità. Quando il celebre gioielliere con madre danese e padre tedesco Peter Carl Fabergé realizzò per la prima volta, su richiesta del 1885 del penultimo zar di Russia Alessandro III, un ineccepibile regalo di Pasqua per la sua amata moglie Marija Fëdorovna, lo fece nelle sue vesti del più prestigioso fornitore ufficiale della casa reale. Una posizione che dava diritto a numerosi vantaggi economici e di status professionale, tali da garantire che ogni minimo dettaglio dell’oggetto fosse realizzato con un’attenzione ai particolari totalmente priva di precedenti. La costruzione di un singolo uovo della lunga serie che sarebbe iniziata così, secondo quanto ci è dato di sapere, poteva in effetti richiedere molte settimane o mesi, al punto che alcuni dei migliori richiesero, secondo fonti ufficiali, l’intero anno a seguire dal momento in cui fu consegnato l’uovo precedente. E sarebbe forse un’esagerazione giungere a definire, tali dimostrazioni di sfarzo ed opulenza, come un segno preliminare dell’incipiente globalizzazione. Ma è anche vero che per costruire i suoi pezzi più celebrati, Fabergé importò materiali da mezza Europa, rivolgendosi ad esempio in Svizzera per i meccanismi, e fino ai paesi scandinavi per trovare dei pittori degni di realizzare le miniature che talvolta venivano incluse nel pezzo. Sfruttando quel sistema d’internazionalizzazione dei commerci che era stato costruito e mantenuto efficiente, nei lunghi secoli precedenti, proprio da quella classe dirigente di cui facevano parte i Romanov, ormai percepita come totalmente slegata dal concetto del vivere comune. E naturalmente, questi oggetti ci affascinano e colpiscono la nostra fantasia! Dove mai, prima d’allora, sarebbe stato possibile trovare una concentrazione simile di spunti drammatici e persino risvolti fiabeschi, alimentati, piuttosto che annientati come sarebbe dovuto succedere nell’idea dei Bolscevichi, dalla tragica fine a cui andò incontro questa intera famiglia…
Così oggi, due secoli dopo, è possibile fare il proprio ingresso dal portone principale di questo edificio neoclassico, sito sul fiume Fontanka nel centro della seconda città di Russia ed ammirare fra gli altri un uovo. L’Uovo. Il primo di tutti, alto 64 mm ovvero poco più di quello di una gallina, che appare perfettamente bianco ma è in realtà d’oro smaltato. Il quale poteva essere aperto, per rivelare al suo interno una sfera rappresentante il tuorlo, gialla e splendente come si confà a quello stesso metallo in cui era stato realizzato. Ma le meraviglie di questa ragionevole approssimazione della realtà aviaria non finivano certamente qui: aprendo tale forma infatti, sotto gli occhi della zarina si sarebbe palesata una scatola a forma di gallina, con al suo interno un gioiello che oggi è andato perduto, probabilmente una spilla o degli orecchini. Perché fu sostanzialmente questa, l’unica regola imposta dallo zar al suo gioielliere: che le sue opere contenessero sempre, come si confà alla tradizione pasquale, un qualche elemento totalmente imprevisto e sorprendente. E l’idea ebbe un tale successo che da quel momento, i laboratori di Fabergé non smisero mai di produrre delle nuove versioni dell’idea, sia ad uso e consumo della nobiltà che, annualmente, su specifica richiesta del regnante zar. Una prassi mantenuta viva anche dal suo figlio primogenito Nicola II, che regnò a partire dal 1894, per la morte imprevista di Alessandro III sopraggiunta all’età di soli 49 anni. Con una significativa differenza: a partire da quel momento, le uova annuali furono due, una per la madre Marija e l’altra per sua moglie, Aleksandra Fëdorovna Romanova. Da lì, insomma, iniziò un crescendo…

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Il tiro più difficile nella storia del frisbee golf

Disc Golf Albatross

È successo lo scorso 11 giugno durante il torneo nazionale del Beaver State Fling, un evento dell’Oregon ufficialmente sancito dalla federazione della PDGA, ovvero la Professional Disc Golf Association (da non confondere con la più famosa PGA, dove per l’appunto manca il DISC). Si è trattato di uno di quei momenti, più rari di una congiunzione astrale, in cui il gesto di un singolo praticante riesce a scuotere le fondamenta stesse del suo sport. Sarà stato fortunato? Puoi scommetterci: non vedeva neanche la “buca”. Ma quanti al suo posto sarebbero riusciti anche soltanto a porre le basi di un simile trionfo? Pochi, pochissimi…
Basket e baseball soprattutto, football americano, hockey, qualche volta addirittura, Calcio: il particolare segmento della seguitissima Tv sportiva americana ESPN dedicato alle “migliori 10 giocate della settimana” è tanto eclettico quanto la propensione degli abitanti d’Oltreoceano ad appassionarsi con enfasi alle attività di squadra più diverse, specie comparativamente alla maggior parte dei paesi europei, dove in genere c’è un solo tipo di pallone che sovrasta tutti gli altri. Ciò che invece latita, in tali supremi momenti d’intrattenimento, è in genere il momento dei trionfi personali sul campo verde con 18 buche, ove molto spesso gli sportivi si guadagnano somme considerevoli offerte dagli stessi organizzatori, proprio perché in tali ambiti gli sponsor giocano un ruolo comparativamente meno significativo, e l’interesse del pubblico generalista risulta, purtroppo, inferiore. Di conseguenza, quando capita che una giocata di questo sport diventi parte della carrellata in questione, si può contare sul fatto che essa sia, in più di una singola maniera: A – sportivamente ineccepibile B – facilmente spettacolare, anche per chi non dovesse conoscere i tecnicismi del settore. Ma ora, prendete coscienza di quanto segue: l’altro giorno, con estrema sorpresa forse degli stessi montatori del programma, nell’albo d’oro dei partecipanti è entrato a far parte Philo Brathwaite, abilissimo praticante di quello che internazionalmente viene definito il Disc Golf. Uno sport fantastico ma quasi sconosciuto fuori dall’America, che viene spesso giocato nei parchi pubblici e consiste nel giungere a colpire nel minor numero possibili di lanci un bersaglio apposito, mediante l’utilizzo di un numero variabile di frisbee ad alte prestazioni. Un qualcosa, insomma, di ben lontano dal senso comune del tradizionalismo di settore, e che molti videogiocatori italiani avranno forse conosciuto, a loro tempo, tramite la buffa interpretazione di Nintendo per Wii Sports Resort. E che ora, certamente, si guadagnerà dei nuovi estimatori, grazie a un tiro che è stato…Beh, giudicate voi!
Il video, disponibile anche online, inizia con l’ormai irrinunciabile carrellata della buca via drone, la quale pur creando un iniziale vago senso di spiazzamento, risulta valida a rendere palesi le distanze di cui stiamo parlando: 850 piedi, ovvero poco meno di 260 metri. Si tratta dunque, per utilizzare la terminologia del golf per così dire “normale”, di un Par 5, ovvero un luogo in cui far buca in un solo colpo non sarebbe soltanto improbabile, ma umanamente fuori da ogni probabilità. Ed infatti, non è questo il successo conseguito da Brathwaite, che con il primo lancio del suo frisbee giunge un poco oltre la metà del campo, e si prepara per il suo secondo tiro d’avvicinamento, che dovrà superare la curva a sinistra del fairway per giungere nell’area generale del traguardo. Egli giudica le distanze dunque, prende la mira ed effettua un lancio attentamente calibrato. Ciò che segue, sfida l’immaginazione: il disco vola prima verso destra, evitando gli alberi, poi di nuovo a sinistra sfiorando le alte fronde, per dirigersi come un missile a ricerca termica diritto nella cesta con catene, che costituisce per chi non lo sapesse il bersaglio ultimo delle attuali buche professionistiche di frisbee golf. Con un gran fragore metallico, l’attrezzo arresta la sua corsa. Il pubblico di circa una decina di persone, basìto, tace. Per uno, due secondi. Quasi tre. Quindi, spontaneamente, erutta in scrosci d’applausi e congratulazioni con il vento, le nubi, la fisica stessa della natura. Nel momento in cui lo sportivo supera la curva del boschetto, sorridendo perché ha già compreso quello che è successo, egli è diventato, a tutti gli effetti, un eroe.

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Il dolce canto della donna che protegge gli elefanti

Lek Chailert

Note amorevoli, una voce rasserenante, l’armonia delle migliori ninna nanne. Lei che l’abbraccia all’altezza delle grosse zampe, quindi la colpisce delicatamente con un panno, in un gesto forse concepito per assomigliare a una carezza. È del resto assai probabile che con una pelle spessa 2 cm e mezzo, un lieve tocco possa risultare facilmente inadeguato. Quindi, finalmente, le parole misteriose della nenia di Sangduen “Lek” Chailert iniziano a sortire l’effetto desiderato, con la controparte che un poco alla volta si sdraia per terra, stando estremamente attenta a non stritolare l’amica per l’effetto della sua massa considerevole, quindi chiude gli occhi e…Sogna?
C’è molto di umano nel comportamento di Faa Mai, la pachiderma di 7 anni che per prima rappresenta una generazione successiva degli animali custoditi presso l’ENP di Chiang Mai, Thailandia, il più singolare e notevole santuario per la riabilitazione del maggiore animale di terra del pianeta. Perché proprio una creatura simile, in forza del suo metabolismo relativamente lento, può raggiungere tranquillamente i 70 anni di vita, e ciò nonostante una massa potenziale di 4,5 tonnellate (5 se si fosse trattato di un maschio). Non è quindi troppo irragionevole, per la gigantessa buona il cui nome per inciso significa “Un Nuovo Giorno” immaginare un lungo periodo d’infanzia e prima adolescenza, che potrà portarla, come del resto abbiamo fatto noi, a comprendere i suoi genitori e diventare, almeno in parte, simile a loro. Ed è in tale aspetto che la vita di questa creatura si profila come originale, perché di modelli femminili nella vita, lei ne ha almeno due: da una parte la madre biologica Mae Bua Tong, nata attorno agli anni ’70 e tratta in salvo da una triste vita passata al servizio dei turisti, cavalieri spesso ingrati e quel che è peggio, inconsapevoli dei duri metodi che vengono impiegati per addestrare gli elefanti in certi luoghi dell’Estremo Oriente. E dall’altra, una persona con due piedi e totalmente priva di proboscide.Ovvero un essere umano in carne ed ossa, pienamente consapevole di ciò che fa. Perché l’eroina famosa su scala internazionale con il solo soprannome di Lek Chailert, più volte premiata dal National Geographic, dalla Ford Foundation, dalla Humane Society… Ha avuto una vita certamente complessa e travagliata. Ma sempre dedita ad un singolo, fondamentale obiettivo: permettere a questi grandi animali di condurre un’esistenza placida ed amena, nonostante i traumi spesso subìti, e di raggiungere uno stato ideale di realizzazione psichica dell’individuo. Che tale certamente resta, in forza di una sofisticata filosofia e una capacità d’introspezione, forse meno palesi delle nostre, ma comunque notevolmente cariche di significato.
Voglio dire, basta osservarle all’opera. Non appare forse chiaro che la gioia dell’elefantessa, così straordinariamente cosciente della sua situazione lieta e dell’attimo di pace assoluta che stava vivendo nel momento qui raffigurato, si rifletteva pienamente nello stato momentaneo della sua seconda madre (adottiva) in un continuo feedback di ritorno valido a costituire l’assoluta gioia ed assenza di perturbazioni…. Una sorta di stato di grazia, sostanzialmente sconosciuto a molti di noi. Si potrebbe persino definire, questo lungo momento, come la ricompensa di coloro che amano gli animali, e dall’incontro con essi traggono dei benefici perfettamente commisurati al servizio che stanno rendendo all’Universo. Un elefante dopo tutto, ci spiega la Chailert orgogliosamente sul suo sito ufficiale, ha un olfatto più sviluppato del nostro, ed ha l’udito probabilmente più sensibile tra tutti gli animali della Terra, riuscendo quindi a vivere sotto diversi aspetti puramente fisici, più intensamente di noi. E se non domina incontrastato nel suo regno del selvaggio, l’unica responsabilità è la nostra, di uomini che gli hanno anteposto un mondo carico di costrizioni, doveri, limiti situazionali. Stiamo del resto parlando di un paese, la Thailandia, in cui la storia dell’uomo è strettamente legata a quella del suo fratello più imponente, al punto che nell’antichità questi esseri costituivano cavalcature regali, doni degni di un’ambasceria di pregio, macchine agricole o da usarsi per la raccolta di materiali… Quando nel 1989, in forza di un eccessivo disboscamento del paese rilevato dagli esperti provenienti da ogni parte del mondo, il governo nazionale impose severe limitazioni all’industria privata del legname, molti elefanti si ritrovarono immediatamente senza lavoro. Colossali bocche da sfamare, ingombranti e problematiche, che sempre più spesso i vecchi proprietari tendevano a vedere come grosse riserve di carne ambulante, da macellare in base alle necessità. E fu allora che Lek, all’epoca un’imprenditrice dal rispettabile successo con un negozio a suo nome, decise che avrebbe dovuto fare qualcosa per salvarli. Pena la perdita del contatto stesso con la sua realtà, ciò che davvero sentiva nel profondo dell’anima e l’obiettivo che desiderava conseguire nella vita.

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