Gli anziani custodi di un bosco nel cuore del deserto

“Quando andrò in pensione, potrò finalmente godere del meritato riposo.” Ecco qualcosa che l’abitante della Mongolia Interna ed ex-burocrate Toto Bartle, o sua moglie Taoshen, potrebbero aver detto in un momento lontano. Finendo poi per dimenticare un così estemporaneo proposito, dinnanzi al richiamo estremamente soggettivo della Necessità. Ovvero quell’idea estremamente chiara nei loro pensieri, fondata sull’immagine ormai quasi dimenticata, in cui una figura umana emerge dal mare vegetativo, sembrando fluttuare nell’aria per un qualche tipo di arcana stregoneria. Questo perché stretti tra le sue gambe, integralmente coperte dai tronchi, le fronde e le contorte diramazioni, si trovano i fianchi invisibili di un fidato cammello, grosso animale talvolta chiamato anche “la nave del deserto”. Ma un vascello non dovrà mai seguire un sentiero, per schivare l’ingombro alla navigazione di alberi o cespugli, elementi immoti ed inamovibili, durante il corso d’incalcolabili contingenze o generazioni. Tutto ciò, per lo meno, fino all’insorgere di un mutamento climatico di fondo, in grado di estrarre l’ultimo residuo contenuto d’umidità dall’atmosfera di questi luoghi, rendendoli inospitali persino per il leggendario albero del deserto, il saxaul. Haloxylon ammodendron, saksaul (саксау́л) o suo suo (梭梭) come viene tutt’ora chiamato nei più vasti paesi facenti parte del suo bioma d’appartenenza, benché nel corso degli ultimi anni abbia finito per costituire una vista ben più rara di quanto fosse mai stato in precedenza. Il che, in ultima analisi, costituisce un problema estremamente significativo, quando si considera il ruolo primario di questo albero nel bloccare l’avanzata delle dune di sabbia con il suo complesso e stratificato sistema di radici, agendo in conseguenza di questo come unico baluardo naturale contro il continuo espandersi dei deserti.
“Ovunque, ma non qui” sembra quasi, quindi, di sentir echeggiare nel grande vuoto del deserto di Badain Jaran, terzo più grande della Cina ma primo per l’altezza dei suoi dislivelli sabbiosi, ove i due succitati giardinieri, consorti amorevoli, hanno deciso di spendere fino all’ultimo quantum d’energia residua. Trascorrendo tra queste sabbie, da un periodo che ormai si estende per 15 anni, circa 300 giorni a ogni volgere del grande ciclo, indipendentemente da acciacchi, stanchezza e le veementi preghiere dei loro tre figli metropolitani, comprensibilmente incapaci di anteporre l’aleatorio concetto del “bene collettivo” ai loro beneamati genitori, che ormai riescono a vedere assai raramente. Contrariamente a quanto sarebbe possibile affermare per i loro più statici e vegetativi beniamini, i circa 60.000 arbusti piantati nel corso di una simile Odissea, tra le alterne fortune di una tanto ardua e ambiziosa missione. E quando dico ciò, intendo riferirmi a ostacoli davvero significativi…

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Il robot creato per far rimbalzare pietre piatte sulla superficie di un lago

Le stagioni passano ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Per un martello, qualsiasi cosa è un chiodo. E qualora l’attrezzo dovesse mancare, sarà la natura ad accorrere in aiuto, con l’alternativa valida di oggetto globulare ed oblungo, talvolta ruvido al tatto (ma non sempre). Il sasso in grado di delimitare un sentiero, ovvero la strada anche detta Via, che conduce all’ultima realizzazione di un pregevole obiettivo: dimostrare il proprio predominio sulla fisica dei corpi in movimento, intesi come cosa piatta che rimbalza, in qualità sua massima prerogativa, lungo la superficie lievemente increspata di un corso/specchio d’acqua, per molteplici e inarrestabili volte. Ma generalmente non più di dieci. Intere generazioni di fanciulli dediti al cosiddetto rimbalzello, sia in termini d’anni trascorsi dalla loro nascita che per l’età mentale soggettivamente percepita, hanno tentato di superare quel fatidico numero, accedendo alla fama del proprio limitato consorzio generazionale. Finché il globalismo dei moderni sistemi comunicativi, unito al senso della competizione contemporanea che ogni cosa pervade, non hanno aperto come una chiave la porta del perfezionamento, dimostrando che una persona sinceramente impegnata poteva ottenere molto, molto più di così. E che dire, dunque, di un ESSERE ARTIFICIALE?
“Creatore, qual’è il mio scopo?” Risuona metaforicamente la voce priva d’intonazione di una macchina, soltanto vagamente antropomorfa (beh, più che altro una scatola con testa ed arti) costruita al fine di essere trasportata presso il lago Cavanaugh nello stato settentrionale di Washington da niente meno che Mark Rober, l’eclettico ex-ingegnere della NASA famoso online, tra le molte altre cose, per aver partecipato alla progettazione del Rover Curiosity che oggi si trova su Marte, prima di passare al costume di Halloween con la coppia di iPad che proietta il “buco” attraverso la sagoma riconoscibile di zombies, fantasmi o altre creature da incubo temporaneamente resuscitate su questa Terra. Lui che si trovava qui impegnato, con il nutrito pubblico dei suoi giovani nipoti e mi sentirei anche d’ipotizzare, vista la quantità di gente, anche qualche amichetto di scuola, nel dimostrare in maniera pratica alcuni metodi del processo creativo al centro della sua carriera, particolarmente verso l’ottenimento di una configurazione finale finalizzata all’ottenimento di un record numericamente importante. Grazie a Skippa, l’essere mostrato in apertura, in realtà frutto dell’adattamento di una macchina per l’allenamento nel baseball, con il braccio alterare per non lanciare più il tipico pegno sferoidale di un tale sport, bensì un oggetto piatto riconducibile, sostanzialmente, al discobolo di Mirone: cerchietti d’argilla essiccati al sole. Per lo meno, in questa fase preliminare dell’intrigante progetto, finalizzato a dimostrare le vette sportive raggiungibili da un dispositivo creato artificialmente, quando le condizioni d’impiego risultino perfettamente prevedibili ed uguali per ciascun singolo tentativo. Una qualcosa di perfettamente riconducibile anche alla pratica umana di un simile campo d’interesse, quando si considera come nel solo ed unico campionato mondiale di stone skipping o skimming (come viene alternativamente chiamato nel mondo anglosassone) tenuto ogni anno a settembre presso l’isola scozzese di Easdale, uno degli aspetti chiave sia l’impiego di pietruzze quasi perfettamente identiche, tutte provenienti dallo stesso materiale dell’ardesia un tempo estratta da quel territorio, prima che il modificarsi del paesaggio portasse le antiche miniere a ritrovarsi completamente allagate. Poco male, considerata la nuova attività-simbolo di queste persone…

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Il bolide corazzato capace di sfidare le convenzioni degli anni ’30

Il Fato dà, il Fato toglie. Ciò è insito nella stessa concatenazione di causa ed effetto che governa il corso progressivo degli eventi. Ma è talvolta impossibile fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe successo, se soltanto il battito d’ala della farfalla, alterando in maniera impercettibile il moto dei venti, avesse prodotto un effetto contrario al proverbiale uragano, impedendo il verificarsi dell’uno, oppur l’altro punto di svolta nello svolgersi di una particolare vicenda. Permettendo, per venire a noi attraverso un esempio, al rampollo ribelle Rust Heinz dell’eponima famiglia produttrice delle celebri “57 varietà di ketchup americano” fosse riuscito a superare nel 1936 l’esame presso l’università di Yale sul tema dell’architettura navale che avrebbe costituito la goccia in grado di far traboccare il vaso, portandolo a interrogarsi sul significato di un futuro già deciso dalle gesta del nonno e grande fondatore, mirante a ereditare l’azienda di famiglia senza nessun tipo di sforzo o difficoltà, né un importante lascito nei confronti del mondo. Oppure se soltanto, tre anni dopo, una fronte di bassa pressione capace di trasformarsi in alito d’atmosfera non avesse trascinato via il cappello trillby del suo amico temporaneamente al volante, di una potente Buick sopra il ponte di Westinghouse in Pennsylvania, portando quest’ultimo alla pericolosa manovra d’inversione che avrebbe portato all’impatto con un veicolo sconosciuto e il conseguente ferimento di cinque passeggeri, oltre alla morte di lui, l’uomo che alla tenera età di 24 anni aveva già una moglie, un figlio e un’idea (forse) capace di cambiare il mondo.
Già perché quando un pluri-miliardario per nascita decide di lasciare il nido e gettare via le catene imposte dalla sua eredità, generalmente, lo fa con un piano preciso e un progetto capace di garantire la propria indipendenza, pena il compiersi di un gesto del tutto privo di significato. E caso vuole che la passione, nonché il sole nascente del giovane Mr. Heinz fossero le automobili, particolarmente quando potenti, esteticamente notevoli o dotate di una qualsivoglia caratteristica fuori dalle normali concezioni veicolari precedentemente acquisite. Come la formidabile Cord 810 della Auburn Automobile con cambio automatico, fari a scomparsa e ben 125 cavalli di serie, prodotta nello stato dell’Indiana, al volante della quale aveva lasciato il Connecticut per recarsi ad Hollywood, come tanti altri giovani della sua generazione, con le stelle a brillargli negli occhi e il fermo desiderio di realizzare il Grande Sogno Americano. È cognizione ormai largamente acquisita il fatto che a questo punto, un tale personaggio avesse già ben chiara nella mente, se non addirittura disegnata all’interno della sua valigia, quella che sarebbe in seguito diventata la Corsair Phantom, una delle concept car capaci di lasciare il più indelebile segno nello stile e i propositi progettuali dell’intero terzo decennio del ‘900. Nonostante l’inaspettato concludersi della sua vita, per l’imprevedibile quanto fatale incidente, avrebbe portato la rilevante avventura ingegneristica a concludersi con la produzione del solo prototipo. Ma di che automobile stiamo parlando, signori miei!

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Enrico Fermi e la maledizione atomica della terza sfera

Un uomo muore di attacco cardiaco a 55 anni, nel 1966. Patologia ereditat da suo padre, oppure…? Un altro di leucemia mieloide acuta sul finire del 1965. Mentre il terzo, incorre in complicazioni fatali dell’aplasia midollare al volgere del 1973. Fu piuttosto fortunato: aveva 83 anni. Eventi all’apparenza del tutto scollegati tra di loro, se non per il fatto che costoro, in un preciso momento dell’anno successivo al termine della seconda guerra mondiale, si trovavano tutti nella stessa stanza. Assistendo all’evento estremamente rapido che avrebbe portato all’avvelenamento letale da radiazioni del loro stimato collega canadese Louis Alexander Slotin, abbastanza sicuro di se, o folle, da “infastidire ripetutamente la coda del dragone” con lo strumento inadatto di un cacciavite. Nonostante una simile bestia avesse, nei fatti, già fagocitato la vita del suo esimio predecessore.
Terribilmente delicata risulta essere la chiara cognizione secondo cui l’essere umano, come creatura pensante che abita questo pianeta, sia fondamentalmente una presenza ragionevole, o prudente. Poiché una tale posizione filosofica avrebbe la necessità di radicarsi nell’acquisita, o in qualche modo giustificabile certezza, che ogni particolare errore, qualora sufficientemente grave, non venga commesso più di una singola volta. E che ogni morte evitabile venga, a seguito del suo verificarsi, inserita nel catalogo di quelle che saranno a partire da quel momento evitate. Risulterebbe allora assai difficile, per chiunque abbia un’opinione critica della storia, giustificare una duplice tragedia come quelle di Hiroshima e Nagasaki. Subìte da un paese nemico in guerra già fiaccato ed incapace di combattere benché, nell’opinione presunta dallo stato maggiore americano, avesse l’intenzione di sacrificare fino all’ultimo uomo in uniforme. Molto meglio provvedere, quindi, all’annientamento eclatante di una parte considerazione della sua popolazione civile residua, no? Del resto, fu successivamente ricercata come giustificazione, nessuno conosceva “l’orrida potenza” di un “terribile ordigno” capace di scatenare l’energia incalcolabile della fissione atomica, alla compressione del suo nucleo di plutonio ricavato da pericolosi impianti di raffinazione del minerale. E per quanto riguarda la seconda volta, beh, probabilmente non c’era stato abbastanza tempo per rendersene conto…
Vi sembra un’affermazione credibile? Forse non a tutti i possibili livelli. Ma almeno ad uno, di certo: quello degli scienziati direttamente coinvolti nel progetto Manhattan. Coloro che per vie molto diverse tra loro, a seguito della fatidica lettera di Albert Einstein e il fisico di origini ungheresi Leo Szilard al presidente Franklin D. Roosevelt (1939: “Investi nella ricerca atomica, o la guerra sarà perduta”) si ritrovarono a lavorare nell’impianto top secret di Los Alamos, guardati a vista da sorveglianti armati, per tentare di comprendere il segreto che avrebbe condotto alla realizzazione dell’arma più potente dell’intero Sistema Solare, per lo meno a quanto ci è dato di sapere fino al momento corrente. Si trattava di un gruppo eterogeneo, composto in egual misura da stimate figure del mondo accademico, statunitensi per nascita o naturalizzate tali, professori universitari ed ogni sorta di esperto di quel campo vertiginosamente innovativo che era lo studio dell’energia nucleare. Ma molti di loro erano giovani, il che tendeva a renderli spregiudicati e proprio per questo, inconsciamente convinti della propria sostanziale immortalità. Figure come l’armeno-americano Harry Daghlian, che dopo essere cresciuto a in un piccolo paese del Connecticut con la sorella ed il fratello, si dimostrò sufficientemente geniale da accedere alla prestigiosa istituzione del MIT a soli 17 anni, per laurearsi in scienze e iniziare a lavorare sui ciclotroni nel 1942. E da lì all’installazione nel deserto del Nuovo Messico, come accennato nel nostro racconto, il passo fu breve. Portandoci al drammatico antefatto della nostra vicenda principale: il brillante scienziato, dell’età di appena 24 anni, che successivamente al concludersi dell’orario di lavoro maneggia una serie di sfolgoranti mattoncini di metallo alla tenue luce del laboratorio e sotto lo sguardo attento della guardia che gli era stata assegnata. In mezzo ai quali, in maniera alquanto sorprendente, figura una sfera. Si tratta del terribile oggetto che fin troppo presto, sarebbe passato alla storia con il nome inquietante di Demon Core (il Nucleo, o Nocciolo Demoniaco).

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