I bruchi carnivori, pericolosi predatori delle Hawaii

Eupithecia

Per un paragrafo, sarò la vespa parassita. Bzz, piacere mio: “Chrysidoidea, per gli amici, Apocrita” un lavorìo pressante, un compito davvero faticoso. In volo. È una vita difficile, quella di colei che deve far la predatrice. Occasionale. Alla ricerca di… Voi bruchi non avete idea. Perché siete soltanto lo stato larvale di quell’altra classe di creature, dalle ali grandi e variopinte, sempre allegre sopra il fiore. Amatissime…Farfalle o falene, bah. Cos’hanno fatto quelle lì, per tutti noi? Certo, qualche volta, impollinano; ma se fanno nascere una pianta che gli sopravviva, a dir tanto, è unicamente dopo che hanno consumato una decina, un centinaio di foglie in ottima salute. Così, Zzb. Vendetta. A beneficio dell’ambiente. Per il popolo degli imenotteri, che ben conoscono l’impegno quotidiano. Punizione per colui che striscia consumando e non produce: gli venga dunque inflitta, l’incubazione. È una splendida prassi operativa della nostra ronzante e saggia e furba genìa: perché deporre uova dentro a un nido duramente costruito e fragile come la carta, o ancora peggio, nel substrato marcescente dell’ombroso sottobosco? Dove abbondano, di certo, le sostanze nutritive, ma con esse, pesci e cimici, scorpioni d’acqua…Che non chiederebbero null’altro dall’inizio di giornata, che far colazione con i figli della Chrysidoidea. Tanto meglio, se possibile, trovare l’equivalente mobile di una divina cassaforte, l’inerme bruco che striscia, zampettante, per corrodere abusivamente la vegetazione. Eccolo, eccolo. Ne vedo uno. Bzb. Già mi avvicino lieve, posando le sottili zampe sulla sua verde dimora. Quasi non lo noti: ha il colore uguale a quello della pianta, probabilmente per non essere visto, da me. Ingenuo! Sono secoli, oramai, che noi vespe abbiamo sviluppato dei migliori organi di senso, fino al punto di essere, per qualche tempo almeno, in vantaggio sulla concorrenza. Dunque, aprile. Tempo di figliare. Già ho preso attentamente le misure. La vittima si è voltata dall’altra parte, restando quasi totalmente immota. Aspetto qualche secondo, per avere la conferma che non sia già morta; quella si, che sarebbe una pessima sorpresa, per l’affamata nuova generazione. Ma la bestia è ancora viva. Estraggo e preparo l’ovopositore, già grondante del simbionte polydnavirus, fiero alleato biologico che bloccherà il sistema immunitario del lepidottero, rendendo la sua carne pronta alla consumazione. Ora, nell’avvicinarmi quattamente, qualche vibrazione è inevitabile. Ed io già so che…Ecco, doveva succedere! Il bruco si è accorto di me. Proprio adesso, in equilibrio sul suo patetico gruppetto di zampe posteriori, sta cercando la minaccia percepita, oscillando lievemente a destra, poi a sinistra. Mmmh. Tanto, che può fare… Lanciarsi verso il suolo? Io lo seguirò. Mordermi con le sue minuscole mascelle? Io lo pungerò. E poi che potrebbe fare con quelle minuscole ganasce, appena sufficienti a consumare la materia vegetale? Non scherziamo. Una altro passo, le ali che sui tendono pronte a fuggire. “Ci vorrà solo un’attimo, non farà male (per i prossimi due-tre giorni, ah ah, poi morirai in maniera orribile…)”. Oooh, ma guarda. Oooh, il bruchino si è… Voltato? Guardalo, che spalanca le sei zampe anteriori, in un probabile tentativo di spaventare, spaventare me. Ma non farmi ridere. Però, che strano. Al termine di ciascun arto, la vittima selezionata sembra presentare rostri acuminati, come altrettanti affilatissimi coltelli. Chiaramente, dev’essere un’illusione ottica. E poi sembra…Sembra felice? Lo scruto molto attentamente, quindi quel…quel…Parte all’improvviso. Prima lo vedevo, adesso non lo vedo più. Morta, sono. Z.
Hawaii. A circa 4.000 chilometri dalla maggiore terra emersa, sulle isole boscose del Pacifico, nascono e muoiono creature totalmente inusuali. Trascinate dai venti e dalle correnti marittime, assieme a quei detriti che per qualche generazione avevano chiamato casa, gli insetti approdano, poi scoprono il diverso senso della vita. Là, dove l’unica costante è l’uomo, e non esistono, ad esempio, mantidi religiose. E i ragni, benché presenti, tendono a restare nella tela, senza andare in cerca di preziosi pasti tra le piante abitative. Creando la sussistenza, intramontabile e continuativa, di quella che potrebbe definirsi la testuale “nicchia evolutiva”. Tutte quelle mosche, vespe, grilli, scarafaggi e falene, che svolazzano senza preoccupazioni al mondo! Tanto cibo potenziale, troppo, per lasciarlo lì a sfuggire al suo destino. E chi poteva rispondere a una simile chiamata se non lei, la larva tipica degli appartenenti al genere Eupithecia, tipici chirotteri notturni nello stadio adulto, che tra l’altro sono attestati in moltissimi paesi del mondo. Ma che qui, nel mezzo dell’assoluto nulla isolano, indisturbati e liberi di crescere nei loro presupposti ed abitudini, hanno appreso un metodo per avvantaggiarsi in mezzo al flusso impietoso dell’ecologia. Questo metodo: il mangiare carne. È stato calcolato che le 19 specie di larve assuefatte a un simile stile di vita nel territorio hawaiano, in media, raggiungano lo stadio di pupa tre volte più velocemente dei loro cugini continentali. E che al momento di farlo, i bruchi siano notevolmente più grossi, in salute e desiderosi di dispiegare le ali dell’età adulta. Persino una crudele vespa, di fronte a tutto ciò, non potrebbe far altro che emettere un ronzio d’ammirazione.

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L’oceano in miniatura dell’Università di Edinburgo

Flowave

Pur facendo parte dell’ecosistema di un pianeta ricoperto al 71% d’acqua, gli umani conoscono questo elemento estremamente poco. Persino con l’assistenza di sofisticate simulazioni informatiche o sensori, tutt’ora vengono scoperti degli effetti di marea o correnti transcontinentali che semplicemente esulano da un qualsiasi tipo di approfondimento in grado di raggiungere il nucleo del problema. Perché nell’Atlantico del Sud c’è un flusso d’acqua dalle caratteristiche facilmente riconoscibili, che parte dall’Argentina e raggiunge il Sud Africa, per poi virare verso il Settentrione assumendo il nome di Benguela? E perché la corrente equatoriale del Pacifico, una volta aggirate le isole dell’Indonesia e delle Filippine, pare compiere una giravolta, sfiorando la punta meridionale del subcontinente indiano? Un mistero indefinito. Che sussiste perché, anche se sappiamo molto bene quali siano le cause situazionali di ciascuna singolarità, tra cui l’effetto Coriolis della rotazione planetaria, il cabbeling (separazione di un fluido sulla base del gradiente di densità) le disuguaglianze in materia di temperatura e/o salinità, l’attrazione del Sole e della Luna, non ci è davvero possibile tradurre in formule matematiche in che misura ciascuno di questi fattori colora e definisce le aree che circondano le nostre terre emerse. Tutto ciò che possiamo fare in-situ è osservare, prendendo qualche nota rilevante da mettere a confronto. Nel frattempo è pur vero che esiste un diverso approccio per conoscere una parte delle verità, recentemente reso accessibile dai moderni progressi della tecnica, che consiste nell’entità artificiale di un bacino idrico, di ampiezza e capienza variabili, concepito per dare sfogo a quell’istinto di chi si è formato come tutti con il gioco, ed oggi fa il ricercatore in prestigiose istituzioni: la simulazione. “Fare finta” di per se, nonostante lo stigma che permane in tale via d’accesso alla sapienza, può servire a molte cose. E se dovesse sembrarvi ridicolo il concetto di una piscina meccanizzata di forma circolare, fornita di 168 pale motorizzate ad assorbimento energetico tutto attorno, provate prima a considerarne le più valide implicazioni sperimentali. Oltre ai vantaggi ingegneristici abilitati dalla sua semplice esistenza.
Lo stabilimento denominato FloWave è una recente aggiunta completamente auto-finanziata e posseduta al 100% dall’università più nota della Scozia, costruita sotto la supervisione del suo Istituto rilevante, all’avanguardia nel settore dello studio di mezzi alternativi per produrre e immagazzinare l’energia. È stato inaugurato il 5 agosto del 2014. Oggi, oltre che nella creazione di video dal notevole interesse visuale come quello di apertura, il sistema viene posto, caso per caso, al servizio di progetti potenzialmente utili nell’immediato e diversi tipi di esperimenti, anche di natura particolarmente inusuale. Si tratta dopo tutto di uno dei piccoli oceani artificiali più avanzati al mondo, creato sfruttando alcuni espedienti estremamente interessanti. Le molteplici “dita” poste ai confini del suo spazio circolare dal diametro di esattamente 30 metri, contenente 2,4 milioni di litri di acqua, possono generare ogni sorta di onda secante o monocromatica, facendole scontrare sulla base del bisogno dato da un particolare esperimento. Inoltre, quando ritenuto necessario, hanno la capacità di adeguare le loro oscillazioni al moto sincronico della piscina, fermando di fatto, nel giro di pochi secondi, quasi qualsiasi onda precedentemente generata. Ed è forse proprio questo l’aspetto più affascinante ed unico del dispositivo, che se anche non viene messo in mostra nel video qui riportato o nell’altro simile risalente al 2014, è un tratto che permette una notevole semplificazione del processo di utilizzo, aumentando esponenzialmente le opportunità di test per ciascuna singola sessione. La piscina è inoltre dotata di alcune eliche con flusso parallelo al suolo, impiegabili per la generazione di una corrente costante non dissimile a quelle già citate, mentre l’acqua, una volta raggiunto il bordo dello spazio a disposizione, viene risucchiata da appositi bocchettoni, poi spinta grazie alla pressione in uno spazio sottostante e separato, dal quale potrà fuoriuscire all’altro capo del Flowave. Tale semplice espediente si rivela utile, nei fatti, ad eliminare la necessità delle ulteriori piscine normalmente usate in simili installazioni, come quella lunga e stretta del towing tank (usato per trainare i modellini) e il tunnel di cavitazione, una versione idrodinamica e sommersa di quello usato per testare le automobili, dedicato ai propulsori della navi. Proprio così: il concetto che qui vediamo messo in atto con una simile semplicità progettuale esiste, nei fatti, almeno dai tempi della seconda guerra mondiale, benché la precisione e la varietà delle turbolenze utilizzabili fosse naturalmente assai inferiore. E il suo impiego originario trovasse sfogo, neanche a dirlo, nel campo della tecnologia applicata agli armamenti.

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Howmet TX: il breve sogno dell’auto a turbina

Howmet TX

La prima cosa che noti è il rumore. Non proprio un rombo che sale, quanto piuttosto il sibilo di un compressore, che spinto nel vortice gassoso dell’ossigeno e dell’aria, accelera, ancora e ancora, fino a 20/30.000 giri al minuto. Come un aspirapolvere gigante, o per meglio dire, un aeroplano a reazione, praticamente fermo sul posto. Il secondo punto degno di nota: l’estetica. Quest’auto del 1968, di cui furono prodotti soli tre esemplari, ha il fascino curvilineo della seconda Batmobile, con una presa d’aria e fari tondi sul retro con protezione ad Y, così conformi al gusto vagamente retrò di certe super-macchine dei nostri giorni. La presa d’aria sul tetto, invece, ricorda nello specifico certi modelli contemporanei della TVR. La Howmet, dopo tutto, fu disegnata e messa assieme praticamente da un solo uomo, l’ormai leggendario Bob McKee della McKee Engineering, l’uomo che afferma nel presente video: “Costruire qualcosa a 30 anni e vederla girare su pista ad 80, queste sono le soddisfazioni della vita!” Osservando il quale, gradualmente, si comprendono le prestazioni ed i vantaggi di questa particolare soluzione tecnica, che pur essendo molto in voga nel secondo dopo guerra, ed ancor maggiormente a seguito di alcuni prototipi costruiti dalle grandi aziende motoristiche negli anni ’50 e ’60, finì per essere subordinata al classico motore coi pistoni, più semplice da integrare negli chassis, soprattutto se ad alte prestazioni, maggiormente familiare al mondo della meccanica, e diciamo la verità: nella maggior parte delle situazioni, decisamente meno assetato di benzina. Eppure, se soltanto le cose fossero andate in modo leggermente diverso….
La Howmet TX (Turbine eXperimental) nacque da un’idea del pilota Ray Heppenstall, che trovò terreno fertile presso il suo sponsor principale, l’azienda metallurgica Howmet Castings, in quegli anni alla ricerca di un metodo per colpire la fantasia del grande pubblico. Non si trattava, ad ogni modo, di un progetto totalmente nuovo. Già nel 1954 la nostra Fiat, presso la pista del Lingotto a Torino, aveva sperimentato soluzioni comparabili con una concept car denominata Fiat Turbina, in grado di raggiungere i 250 Km/h. Nel frattempo la Chrysler, all’altro lato dell’Atlantico, preparava un progetto ambizioso per giungere a produrre una berlina di serie con questa tecnologia, che avrebbe avuto dei vantaggi significativi sulla concorrenza: una necessità d’interventi tecnici decisamente minori, una vita del motore più lunga, l’80% di componenti in meno per ciascun veicolo, l’immediata partenza in qualsiasi condizione climatica senza alcun tempo di riscaldamento e un peso notevolmente inferiore. Ne furono prodotte in totale 55 unità, di cui 5 prototipi e 50 “auto di prova” fatte avere ai loro clienti di fiducia, per una prova a lungo termine su strada, durante la quale molti rimasero colpiti dall’estrema efficienza del mezzo, benché fosse frequente l’errore di premere l’acceleratore troppo presto dopo l’accensione, inondando il motore di carburante e ottenendo quindi un effetto contrario al desiderato. Nel giro di qualche anno, tuttavia, il governo degli Stati Uniti cambiò i regolamenti in materia di emissioni d’azoto nel 1963, rendendo di fatto l’intero progetto obsoleto. La Chrysler richiamò i veicoli e li smonto pezzo per pezzo, quasi dal primo all’ultimo: attualmente, soltanto 6 di queste automobili sopravvivono, all’interno di musei e collezioni private. Un tale evento, se possibile, rese ancor più chiaro quello che in molti avevano iniziato a pensare: se le turbine automobilistiche avevano un futuro, sarebbe stato nel campo delle gare su pista, dove il costo per singolo esemplare conta poco, e soprattutto ai quei tempi, era possibile sfidare l’immaginazione con trovate inusuali ed impreviste, senza la necessità di adeguarsi a norme eccessivamente stringenti. Nel corso della prima metà degli anni ’60, quindi, i team Rover e BRM unirono le forze per costruire alcune auto a turbina, che parteciparono alla prestigiosa 24 di Le Mans, senza tuttavia riuscire ad ottenere dei risultati particolarmente degni di nota. Il primo grande (quasi) successo ebbe quindi a verificarsi nel 1967, con una particolare vicenda che sarebbe rimasta scritta a lettere di fuoco nella storia dell’automobilismo americano.

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A caccia di fantasmi nella vecchia villa vittoriana

Creepy Mansion

Un tetto aguzzo in mezzo alla campagna, con finestre alle mansarde ed un comignolo merlato. Se c’è un luogo che possa ricordare maggiormente il tipico ambiente di avventure spaventose, come il fantastico ed orribile viaggio del primo Resident Evil, o l’iconica bicocca degli Addams, non saprei descriverlo così, su due piedi. L’esplorazione urbana è quella pratica, ultimamente sempre più di moda, per cui si cerca su Internet o dalle conoscenze sul campo un luogo derelitto e in qualche modo decaduto. Edifici abbandonati, luoghi pubblici dismessi, abitazioni rovinate dall’effetto degli ambienti atmosferici o il semplice passar del tempo. Per poi varcare quella soglia, telecamera alla mano, e documentarne il contenuto a beneficio di…Chicchessia. Attività questa, talvolta pericolosa e quasi sempre abusiva, che conduce a un ricco ventaglio di scoperte, sul chi fossero i nostri antenati più recenti, come vivessero, qual’erano le loro preferenze in materia di tappezzeria. C’è ben poco che la muffa, o qualche morso di topo, possano nascondere a chi ha voglia di creare un corpus documentaristico sulle risorse storiche di un luogo. O a tutti gli altri che, come parrebbe qui configurarsi l’opera del noto filmmaker Dan Bell, desiderano più che altro dare il proprio contributo a un’aura di leggenda latente, che permea tali e tante trasandate mura. Già, metterci paura. Una missione non facile, considerato il modo in cui veniamo bombardati quotidianamente da racconti horror nei formati più diversi, oltre al taglio dei moderni reality ed altri programmi, inclusi taluni telegiornali. Preoccupati che “non cogliessimo le implicazioni del messaggio” i produttori mediatici più diversi hanno ormai sviluppato metodi per trasferire i sentimenti lungo le onde elettromagnetiche, inducendoci all’immedesimazione in personaggi che dovrebbero rappresentare le nostre pulsioni maggiormente basiche, scevre di cognizioni precedentemente apprese. Così, il terrore che si riceve a distanza, che sia reale o meno, non è mai silenzioso né interiorizzato, ma fatto di una cascata di descrizioni, parole enfatiche, improbabili montature. È andato perso il gusto della sobrietà.
Ed è in ciò che colpisce, soprattutto, il nuovo video di questo YouTuber da quasi 20.000 sottoscrizioni in continua crescita, che pur scegliendo la strada del sensazionalismo e qualche forzato espediente narrativo, riesce a creare 15 minuti di scoperte preoccupanti, nel contesto di un viaggio esplorativo tra i residui di un’epoca ormai (per fortuna?) trascorsa. Di sicuro, molto del fascino della sequenza deriva dalla location scelta per l’operazione, lasciata rigorosamente segreta, come si confà nell’opera di chi, come lui, s’introduce in luoghi non propriamente aperti al pubblico. La grande casa, perché di ciò si tratta in questo caso, viene descritta dal protagonista/cameraman come “Un ex-manicomio per bambini affittato ad una qualche altra organizzazione negli anni ’90, poi abbandonato almeno a partire dal 2000”. E inevitabilmente viene posta l’enfasi su quel primo capitolo della sua storia, descritta unicamente in questi sommi capi, benché nel corso dell’intero sopralluogo non vengano mostrati altri oggetti o suppellettili rimasti da quel triste impiego, tranne che una singola sedia con cinghie arancioni. Mentre la qualità delle rifiniture architettoniche, la grande scala in legno, i camini decorati con maioliche e le variopinte vetrate fanno piuttosto pensare ad un luogo molto amato, come la seconda casa di una famiglia dalle alte disponibilità economiche, soltanto poi adibita a un qualche tipo di uso pubblico, capitolo comunque dimostrato dalla presenza di segnaletica di divieto e indicazioni varie a parete. La scritta sopra la porta d’ingresso principale, in particolare, che recita in lettere dallo stile latino: “God’s Providence Is Mine Inheritance” (La Divina Provvidenza è la mia eredità) era la firma dell’architetto londinese Ewan Christian (1814–95) che non fu mai operativo negli Stati Uniti, ma la cui residenza personale di Hampstead, costruita nel 1882 e nota con il nome di Thwaitehead, presentava più di un punto di contatto con la misteriosa villa qui rappresentata. L’architettura Vittoriana, dopo tutto, ancora prima che uno stile attentamente definita fu una moda, portata in auge dalla crescente disponibilità ed economia di certi materiali e metodi, un tempo appannaggio esclusivo di chi avesse pure 20 o 30 servitori. Nel Nuovo Continente, in particolare, se ne diffuse tra il 1870 e il 1910 una versione più pragmatica, definita Folk Victorian, in cui le torrette erano meno pronunciate, gli abbaìni non del tutto esuberanti e il complessivo equilibrio delle forme, concepito per assomigliare meno ad un mini-castello o cattedrale. Ciononostante, qui permangono determinati elementi che avvicinano la struttura alla variante più estrema dello stile Queen Anne, influenzato dal Barocco rivisitato dell’architetto Richard Norman Shaw (1837–1901). Ma quanti luoghi magnifici da conoscere, si nascondono dietro una facciata di altre epoche, sporca e cadente? E allo stesso modo, innumerevoli sono i video che vanno perduti sul web, per la mancanza di un titolo o uno stile dialettico in grado di suscitare l’interesse collettivo. Ritorniamo, dunque, alla questione delle strane presenze…

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