Per quale ragione non ci sono squali bianchi negli acquari?

Great White Aquarium

Diffuso e intramontabile, ben radicato nella mente di ciascuno: il preconcetto, qualche volta valido, secondo cui le cose o le persone problematiche costituiscono un fattore semplice da togliere dall’equazione. O in altri termini, si tende a pensare che l’erba cattiva non muoia mai. E cosa c’è di più malefico, terribile o pericoloso a questo mondo? Qual’è la singola creatura che per prima getta lo sconforto dentro al cuore degli umani, come ultimo e più grande predatore della Terra, o per essere specifici, del vasto, vasto mare… Carcharodon carcharias (persino il nome fa paura) o come amano chiamarlo qualche volta sulle coste del suo ambiente naturale, la “morte bianca” che sopraggiunge sotto l’onde alla velocità di 56 Km/h, ribalta barche piccole o non tanto piccole, quindi balza fuori e afferra al volo i marinai sconvolti, prima di sminuzzarli quanto basta coi suoi denti orribilmente acuminati; certo, come no! Intendiamoci: non è che il pesce in questione non possa farlo, per lo meno da un punto di vista fisico se non mentale. Ma le fantasticherie del grande film Spielbergiano, liberamente tratto dal romanzo del defunto Peter Benchly (che da grande amante degli oceani, si pentì di averlo scritto per l’intero resto della sua vita) sono ben lontane da un tipo di situazione che il mostro in questione potrebbe considerare non soltanto desiderabile, ma anche soltanto valida a condurlo a sazietà nel quotidiano. I carnivori semplicemente non possono, e non vogliono, impegnarsi in avventure che possano in qualsivoglia modo considerarsi “rischiose”. In natura, una capra lievemente infortunata può brucare l’erba del prato più vicino, mentre attende il recupero delle sue forze. Dal canto suo un puma, se incapace d’inseguire la sua preda perirà immediatamente, senza il tempo di pensar neppure “Forse avrei dovuto lasciar stare il porcospino…” Appunto. Forza non vuol dire resistenza. Innata ferocia non è sinonimo di adattabilità. Anzi, i due valori in questioni potrebbero essere considerati come punti avversi di una scala graduata, in cui l’aumentar dell’uno, causa un’immediato calo di quell’altra. Finché la bestia più POTENZIALMENTE letale del pianeta, alla fine, non si rivela anche la più fragile, letteralmente in grado di morire per lo squillo di un telefonino.
Ho già parlato in precedenza di quel fatto largamente noto, che si applica al grande bianco ma anche a molte altre specie di squalo (non tutte) per cui questi pesci cartilaginei non si sono evoluti possedendo la capacità, molto diffusa nel mondo ittico, di aprire ritmicamente la bocca per pompare l’acqua nelle proprie branchie. Il che significa in effetti che, per ricevere un’ossigenazione adeguate delle stesse, ed invero dell’intero spaventevole organismo, esso necessita di muoversi costantemente a gran velocità, affinché l’inerzia faccia il necessario ed il previsto. Il che presenta un notevole problema già in fase di cattura, specie nel caso in cui lo squalo venga preso, in modo intenzionale o meno, all’interno della rete di una barca di pescatori. In tal caso, infatti, esso tende a soffocare ancor prima di essere tirato fuori dall’acqua, o anche nel caso in cui si agisca abbastanza in fretta per liberarlo, subire uno shock sistemico dalle conseguenze immediatamente letali. Le organizzazioni di tipo scientifico che hanno sperimentato con la necessità di catturare, per vari motivi, uno di questi splendidi animali, hanno quindi elaborato una serie di artifici procedurali che sortiscono, comunemente, dei risultati per lo meno funzionali. Lo squalo deve essere agganciato gentilmente con un amo, in un tratto di mare relativamente prossimo all’acquario, o al recinto marittimo, in cui dovrà trascorrere il suo futuro periodo di cattività. Quindi verrà immediatamente inserito in un serbatoio di trasporto speciale, dotato di un meccanismo che pompa grosse quantità d’acqua in corrispondenza dei suoi organi respiratori; durante questa intera trafila, è fondamentale che il pesce sia tenuto in posizione assolutamente orizzontale: la classe dei Condritti infatti, o pesci cartilaginei, presenta degli organi interni che non sono saldamenti assicurati al resto della struttura fisica dell’animale. Se uno squalo dovesse essere inclinato in avanti, dunque, esso potrebbe letteralmente svuotarsi alla maniera di una tazza piena d’interiora, con delle conseguenze che, ritengo, troverete facili da immaginare. Ora si, che tornano a sembrarvi delle creature assolutamente terrificanti, nevvero?
Non che quelli citati fino a questo punto siano degli ostacoli insormontabili, s’intenda. La scienza moderna, per sua naturale propensione, è in grado di creare soluzioni complesse ad ogni sorta di problema, e ad oggi non c’è letteralmente nulla che impedisca ad una equipe di esperti, ben finanziati e tecnologicamente forniti, di catturare persino un massivo esemplare adulto (le femmine possono raggiungere anche i 6 metri di lunghezza e le 2 tonnellate di peso) inscatolarlo e portarlo a destinazione più rapidamente di una boccetta di profumo ordinata col servizio “consegna in giornata” da Amazon. E infatti ci sono acquari con squali tigre, squali pinna nera del reef, squali toro e squali limone, che riescono a sopravvivervi in salute per periodi anche superiori ai 10 anni. Alcuni dei più vasti e rinomati acquari, come Sea World di San Antonio, in Texas, o l’acquario di Okinawa in Giappone, hanno persino costruito delle vasche da svariati milioni di galloni in grado di ospitare il più grande pesce vivente, l’enorme squalo balena (20 metri, 18 tonnellate) Tuttavia, al momento nessun acquario del mondo ospita un grande squalo bianco, e molti dei tentativi fatti in passato sono finiti estremamente male per il predatore in questione. Continuate a leggere se volete scoprire il perché.

Leggi tutto

Strane creature: trenta metri di tubo sotto il mare

Huge Pyrosome

È una visione rara che tuttavia, quest’anno, pare essersi presentata a più di un sub del tutto impreparato a dargli un senso ed una logica contestuale. Stando al più famoso blog di biologia marina, Deep Sea News, è dal 7 giugno che presso l’arcipelago delle Azzorre, nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, si stanno ripetendo alcuni avvistamenti di una delle specie animali più rare e strane del pianeta, la creatura così insolita da esser stata definita, in passato, “unicorno di mare”. Un corpo lungo e ruvido, dalla forma tubolare che stringe sul davanti, fino al presentarsi di una “testa” priva di occhi, bocca o altri riconoscibili elementi. E dall’altra parte, un’apertura da cui viene espulsa l’acqua, che l’essere filtra in quantità abbondante per nutrirsi di sostanze planktoniche e minuscole particelle vegetali. Ma volete sapere la cosa più affascinante? Questo semi-tubo, emette luce e pulsa in modo ritmico. A partire dal momento in cui si scelga di toccarlo. I pirosomi del genus Pyrosoma, questo il loro nome ufficiale, sono incapaci di nuotare: non hanno del resto muscoli, arti o pinne di alcun tipo. Semplicemente si lasciano trascinare dalla corrente, aiutandola per quanto possibile attraverso il moto delle ciglia presenti in corrispondenza dei loro organi principali, che spingono con forza il frutto della loro digestione. Acqua pulitissima. E sogni di pianeti inconoscibili per l’uomo. Si fa presto, in effetti, ad immaginare un essere di fantasia e chiamarlo “alieno” mentre lo si usa come elemento di sfondo per le proprie storie o fantasticherie. Ma la vera difficoltà è pensare a un qualche cosa che sia veramente diverso, o in effetti più strano di quello che noi già abbiamo sulla Terra. Che è in se stessa, innumerevoli ambienti ben distinti, ciascuno dotato delle sue caratteristiche ed insoliti abitanti. Perciò a superficie degli oceani, quando la attraversi, non è come un velo sottilissimo e insignificante. Bensì un vero confine, oltre il quale si presenta ai nostri occhi un mondo progressivamente più bizzarro, tanto più si scelga di dirigersi in profondità.
Basta avvicinarsi a questi esseri con intento di studio, dunque, per scoprire come essi non rispondano alle comuni leggi della biologia, non avendo limitazioni teoriche né per quanto concerne le dimensione, né in materia di durata della loro esistenza tra i viventi. Un pirosoma risulta, teoricamente, del tutto immortale. Il dovrebbe far pensare, pressoché immediatamente, a una colonia di cloni, come quella dei pioppi o di altre specie vegetali, che ripetendo all’infinito la stessa serie di cellule ricreano loro stessi una generazione dopo l’altra, letteralmente indisturbati dall’incedere del tempo. Ed un tale aspetto, certamente, si trova a fondamento dell’intera insolita questione, benché ne esistano degli altri validi a distinguerla da simili creature della superficie. La classificazione scientifica pone infatti questi insoliti giganti ben lontani dal regno vegetale, ovvero all’interno del sub-phylum dei tunicati, una categoria che, a differenza di quella dei sifonofori (un altro essere risultante dall’aggregazione evolutiva tra animali un tempo distinti) è parte a pieno titolo del phylum dei chordata, gli animali dotati di una notocorda, o struttura di sostegno affine alla colonna vertebrale. In altri termini, si potrebbe dire che essi siano in qualche misura addirittura più simili a noi di tante altre alternative del loro ambiente. Il che, naturalmente, non si riferisce tanto al grande tubo tramite cui scelgono d’affrontare le peripezie del mondo. Ma ai singoli elementi costituenti di quest’ultimo, gli zooidi lunghi poco più di un millimetro sospesi nella sostanza gelatinosa della “tunica”, ciascuno dotato del fondamentale dispositivo di filtraggio noto come cesta branchiale. E necessariamente intento a risucchiare ed espellere il suo medium di movimento, curandosi di averne assorbito almeno l’equivalente del suo peso per ciascun minuto trascorso. Non c’è specializzazione della cellula, o per meglio dire delle loro equivalenze, in questi placidi navigatori degli abissi. L’unico ruolo a cui devono rispondere i singoli elementi, quindi, diviene il mangiare, mangiare…

Leggi tutto

L’arma segreta delle megattere affamate

Bubble net feeding

Uno spettacolo unico al mondo, una visione indimenticabile e per certi versi terrificante. Adatta a chi vuole sperimentare la furia potenziale della natura, testimoniata dal comportamento specifico di un gruppo di creature pesanti 30-40 tonnellate, che cooperano nel momento di cacciare. Vorreste vederlo? Allora vi consiglio di venire…In Alaska. Dove altrimenti? E per essere maggiormente precisi, nella baia di Seward, sulla penisola di Kenai, dove da tempo ormai le barche piene di turisti si lanciano dai moli, per andare a far da spettatori a quelle che qui chiamano le Humpback whales (Balene gobbute) e che per noi corrispondono alla definizione scientifica di M. novaeangliae, ovvero quella delle Megattere “del New England”. Come volle chiamarle, per primo, il naturalista Mathurin Jacques Brisson nel 1756, benché oggi sappiamo, simili creature abitano in molti dei mari e degli oceani della Terra. Al punto da aver fatto teorizzare, dai classificatori moderni, l’esigenza di definire tre sottospecie differenti: l’una residente nel Pacifico Meridionale, l’altra nell’Atlantico Settentrionale e poi c’è questa. La megattera del Pacifico Settentrionale, che sola tra le sue simili dimostra la speciale abilità in questione. Così strategicamente complessa, e tanto valida nella risoluzione di un problema in rapido divenire, da ricordare l’invenzione di un intero comitato militare. Un qualcosa di “pensato”.
Ed in effetti, strano a dirsi, è proprio così. La caccia con la rete di bolle non è affatto scritta nel codice genetico delle balene: ciò possiamo ben desumerlo dal fatto che soltanto certi gruppi delle creature, ed unicamente in luoghi specifici, posseggano gli strumenti di pensiero ed attuazione necessari a praticarla. Si tratta dunque di una tecnica trasmessa attraverso le generazioni, patrimonio attentamente custodito di singole tribù d’animali. Vederne le ultime battute, dal ponte di una barca noleggiata in quel d’Alaska raramente lascia i turisti privi di un’impressione profonda e significativa. Soprattutto quando, come talvolta capita, ci si ritrova lì, fra l’onde. Per udire nel momento atteso il canto acuto dei giganti, che contrariamente a quanto ci viene dato ad intendere dal senso comune, è si! Udibile dall’orecchio umano. Addirittura dall’altro lato delle increspature sulla superficie che sostiene il nostro duro scafo. Una materia sempre più agitata e meno trasparente, fino a che non viene data l’occasione di scrutare le ombre colossali, che preannunciano e danno ad intendere il momento della verità. Ed ecco che finalmente, arrivano! Come coni vulcanici, come colline eruttive, quattro, cinque, sei bocche spalancate, in un vortice di spruzzi e di gabbiani, che prontamente si erano gettati nell’occhio del ciclone per tentare di arraffare il cibo. Rubandolo da un pasto costituito, guarda caso, da branchi di aringhe o eglefini, o ancora qualche sparuto gruppo di merluzzi neri. Gli oggetti di una simile, pericolosa attenzione. Si tratta di una questione, a ben pensarci, alquanto semplice da definire. Le megattere del Pacifico, per loro imprescindibile natura, sono grandi. Molto: fino a 27 metri di lunghezza. Il che significa, per le leggi fisiche del mondo, che sono anche relativamente lente, potendo raggiungere al massimo i 25 Km/h, ma soltanto dopo un lungo periodo d’accelerazione. Ed è proprio questo il motivo, tra l’altro, per cui si nutrono preferibilmente dell’invisibile brodo di microrganismi e gamberetti che viene convenzionalmente definito krill, esattamente come usa fare la distante cugina ancor più sovradimensionata, la balenottera azzurra. Ma si può anche capire, poco ma sicuro, il loro bisogno di mettere in pancia qualche volta un bocconcino un po’ più sostanzioso… Ed è qui che entra in gioco l’agilità concessa dalle grandi pinne anteriori di questi animali, che non per niente prendono il nome dalle parole greche mega-/μεγα- “grande” e ptera/πτερα “ali”.

Leggi tutto

Avventura subacquea sul ciglio di una salamoia gigante

Brine Pool

Se aveste chiesto agli antichi navigatori fenici che cosa ne pensano dei sommergibili, la loro risposta sarebbe stata probabilmente univoca: un vascello che affonda intenzionalmente? Davvero una pessima idea! Eppure anche loro, dovevano certamente conoscere il senso e il bisogno di spingersi avanti, oltre quel filo dei pensieri che trasformò le colonne d’Ercole, da limite semi-divino ai vagheggiamenti dell’uomo, a un marmoreo segno di sfida, da lasciarsi alle spalle con tracotanza e sincera soddisfazione. Fino al raggiungimento, tra scogli, sirene e tempeste, di una barriera titanica, costruita nelle ere remote del tempo: oltre il quale, silenzioso e desolato, si estende il deserto del Tartaro, ove le anime vanno ad evaporare, strappate dai corpi dismessi per l’avanzata del tempo. E nulla può sopravvivere, oltre quel punto. Ma immaginate adesso, soltanto per un attimo, di poter disporre di uno scafo completamente impervio alle influenze nocive di ciò che lo circonda. Come una nave spaziale effettivamente costruita, ma a differenza di quella, in grado di operare per un tempo sufficiente a raggiungere i più remoti recessi del suo luogo d’impiego elettivo: il fondo degli oceani della Terra. Nel mezzo del nulla, come al centro dei punti di scambio, ove popoli senza cervello, né occhi, né nome, soggiacciono prosperando, dimentichi di ogni problema. Una sorta di Limbo, o di Purgatorio, purché si escluda la potenziale speranza di redenzione. La vasca subacquea della Morte, che ha un preciso indirizzo laggiù nel Golfo del Messico, definito dagli scienziati protagonisti di questo video, molto appropriatamente, la “Jacuzzi della Disperazione”.
“Ma come…” L’obiezione è lecita, vi prego di continuare: “…Può esistere, un lago effettivamente distinto e separato dall’acqua circostante, a un chilometro sotto la superficie del mare?” Il motivo di una tale situazione, che sia chiaro non è metaforica, bensì la neutrale messa in parole di un’effettiva realtà, è da ricercarsi nella densità e la pesantezza del sale, quella sostanza minerale che un tempo ricopriva la superficie di vaste pianure, un elemento paesaggistico ben più diffuso all’epoca della Preistoria. Finché, per i mutamenti del clima dovuti al progressivo raffreddamento del globo  terrestre (ora siamo nel bel mezzo del processo opposto) un aumento del vapore acqueo nell’atmosfera portò ad un aumento delle piogge, portando a valle sedimenti ed acqua mescolati assieme, in una sorta di tsunami prolungato e finale. Così, il sale primordiale fu ricoperto e svanì dagli occhi di ogni creatura, per sempre sepolto al di sotto del remoto fondale. Per sempre, si fa per dire: poiché è nella natura di questa sostanza granulare attraversare il processo geologico della diagenesi, che la porta a variare la sua disposizione in funzione dell’aumento della temperatura e dei sommovimenti della crosta terrestre. E fu così che accadde, in questo come in taluni altri luoghi sperduti sui remoti confini, che tale composto di ioni cristallizzati (non così diverso dal nostro condimento preferito per le bistecche) assumesse la forma di una cupola in grado di premere dal basso, che sollevò il resto del suolo a formare delle ripide, quanto solide pareti. Le stesse strutture che possiamo ammirare, nel video soprastante realizzato esattamente un anno fa dal sub comandato a distanza della spedizione oceanica privata Nautilus Live, letteralmente ricoperte di molluschi simili a vongole, che le voci entusiastiche fuori campo descrivono soltanto col termine generico di mussels. Mentre ciò che costoro ben sanno, come del resto anche noi, è il passaggio successivo della formazione di questo raro lago-salamoia (in inglese brine lake): la cupola di sale, infatti, ad un certo punto della sua storia, ha fatto breccia nei sedimenti marini, ritrovandosi dispersa nell’acqua soprastante. Che tuttavia, per la mancanza di forti correnti unita al suo peso e densità naturalmente superiori alla media, è rimasta intrappolata fra le alte pareti di un vero e proprio cratere. Generando un ambiente ecologico letteralmente unico al mondo.

Leggi tutto