Il sogno delle mante che volevano volare

“Addio, e grazie per tutto il pesce” è la frase che ci viene rivolta dai delfini nella Guida Galattica per Autostoppisti, il famoso romanzo fantascientifico dell’umorista Douglas Adams, nel momento in cui l’intera popolazione fugge decollando da un pianeta condannato, proprio mentre la Terra stessa viene marchiata per la demolizione, da parte dell’astronave aliena dei crudeli Vogon, allo scopo di far spazio a un’autostrada interstellare. È un’immagine che ricorre più volte nella serie, e ad un certo punto giustificata col concetto vertiginoso di multipli universi quantistici, attraverso cui il più amato dei mammiferi marini, singola specie più influente dell’intero Sistema Solare, avrebbe potuto spostarsi a piacimento, nel caso del sopraggiungere di una catastrofe annunciata. Il che appare alquanto improbabile dal punto di vista scientifico, benché esista una costante funzionale che troviamo anche nella nostra ineccepibile realtà: i delfini saltano, soprattutto perché sono intelligenti. E si dimostrano tali, proprio perché dedicano parti significative delle loro vite a praticare attività insensate, illogiche, del tutto prive di una funzione. Giocando, per il loro esclusivo e massimo divertimento. Ed allora, perché mai salta il diavolo di mare? (Mobula mobular). Questo pesce cartilagineo imparentato con gli squali, del tutto simile alla manta, il cui grado d’interazione più singificativo con la specie umana include avvicinarsi per lasciarsi accarezzare, o seguire ipnotizzato le vaghe increspature dell’oceano causate dall’incedere di un imbarcazione a motore… La risposta è molto più semplice di quanto potremmo pensare: per lui, l’attività ha uno scopo molto chiaro. Attirare l’attenzione della femmina, nella speranza di ottenere l’occasione di accoppiarsi. Così è nella stagione degli amori, che questa creatura per lo più solitaria si aggrega in branchi di centinaia, persino migliaia di esemplari. E i più giovani ed aitanti del gruppo, senza falla, puntano lo strano muso verso la distante superficie. Iniziano a salire, e quando oltrepassano la linea terminale del loro ambiente nascituro, continuano cionondimeno a risalire, finché le due corna frontali dall’aspetto vagamente maligno, le grandi pinne pettorali simili ad ali e la sottile coda con la spina acuminata, non si trovino egualmente esposti all’aria e il Sole distante. Per poi ricadere goffamente, con un tonfo sordo, nella maniera più piatta e meno idrodinamica che si possa pensare. Certo: è proprio questo suono sordo e ripetuto, il metodo con cui dovrebbero attirare lei. Un singola grezza panciata alla volta.
Nel momento in cui una popolazione significativa del pesce in questione, in luoghi come il mare di Cortez nella Bassa California, inizi a praticare assiduamente questa attività, la visione che si presenta all’occhio dei turisti o eventuali pescatori costituisce un netto punto di rottura con le aspettative convenzionali relative a come le faccende oceaniche attraversino la fase dello svolgimento. Una dopo l’altra, le piatte e larghe creature dirompono dalle profondità, spiccando il volo con un seguito di spruzzi ad arco, simile agli effetti speciali di un film. Proprio per questo, esse sono state definite anche mante volanti, benché nei fatti appartengano a una specie totalmente distinta, evolutasi in maniera indipendente da un antenato comune appartenente alla classe dei Condritti, pesci con scheletro cartilagineo come per l’appunto, gli squali. Così come le razze velenose, che tuttavia si riconoscono da una forma romboidale piuttosto che a punta di freccia, ed hanno abitudini biologiche del tutto differenti. Mentre tra manta e diavolo Mobula, in effetti, qualche somiglianza c’è: entrambi sono suspensivori, ovvero filtratori dei microrganismi presenti ovunque nell’acqua marina, grazie a grandi bocche eternamente spalancate, con apposite pinne cefaliche mirate a convogliare il flusso nella più efficiente maniera. Nel caso delle due specie di manta attualmente esistenti, in grado di raggiungere anche i 7 metri di larghezza, tali strumenti risultano essere dei veri e propri arti, in grado di dispiegarsi e cambiare forma in base alle necessità. Mentre per quanto concerne i diavoli saltatori, essi assumono una forma più corta e tozza, come le semplici corna caprine da cui prendono per l’appunto il nome. La bocca si trova inoltre in posizione frontale nelle prime e sotto il corpo, invece, nei secondi. Ultima ma non per importanza, i diavoli sono generalmente molto, molto più piccoli, con una dimensione media di 3-4 metri di apertura “alare” benché esistano esemplari eccezionali in grado di raggiungere i 5 metri. Le due specie hanno però un punto significativo in comune: il rapporto dimensione-del-corpo/cervello più a vantaggio del secondo nell’intero mondo sommerso dei pesci nuotatori. Ovvero, sarebbero dei veri e propri geni tra i loro pari…

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Le avventure di un’acchiappamosche di mare

Un ronzio insistente udito nelle regioni silenziose della Zona Economica Americana delle isole Samoa, nell’Oceano Pacifico Meridionale. Qualcosa di completamente nuovo, al cospetto della suprema rappresentazione dell’abitudine e la familiarità. Ovvero questo fiore negli abissi, che si agita nella corrente, impegnato nell’attesa perenne della cosa più importante della sua giornata. Cibo svolazzante, minuscolo, fluttuante, sfarfallante e insettile, com’è l’usanza per la sua consimile di superficie, la pianta che Darwin volle definire “la più splendida del mondo”. Un cibo che non ha le ali, in questo caso, né ronza. Ma potrebbe. Come scossa da uno strano brivido, la cosa del fondale si agita da un lato, quindi l’altro. Nuove e imprevedibili correnti la raggiungono agli oltre 2.000 metri della montagna sottomarina, presso cui ha scelto di trascorrere la sua esistenza. Tramite un sommovimento semi-volontario del suo scheletro idrostatico, contenuto fluido del’involucro esterno, l’essere pianta/animale compie un leggiadro movimento, riorientandosi verso la sua prossima preda. Che avvicinandosi diventa grande, sempre più grande, fino a sovrastarlo con l’immane massa rigida e giganteggiante. Quindi un segnale a banda larga si propaga nelle fibre ottiche del cavo, trasportando una parola fin dentro l’impressionante controparte. “Luce” dicono da terra. E luce fu.
Ora, qualsiasi pesce, gambero, granchio, mammifero marino, verme predatore, scoiattolo e cicogna del profondo, a questo punto avrebbe avuto un solo tipo di reazione: fuggire nella remota speranza di aver salva la vita. Ma Actinoscyphia aurelia, altrimenti detta l’anemone acchiappamosche di Venere, non soltanto non conosce la paura, ma non ha occhi, orecchie o altri organi di senso in grado di offrire un quadro effettivo della situazione. È soltanto uno stomaco largo fino a 30 cm, con una pratica apertura che funge da bocca ed ano. Tutto ciò che vuole capire, è che qualcosa “arriva” e quindi spalancare la sua apertura agitando i tentacoli, nella speranza di riuscire a fagocitare quel che non può semplicemente ignorare. O mettere in fuga, grazie all’innato terrore del veleno paralizzante contenuto nel suo corpo all’interno di milioni di minuscoli arpioni, ciò che non potrà fagocitare. Molti metri sopra questa scena, nella nave da esplorazione sottomarina Okeanos della NOAA, l’Ente Americano dell’Amministrazione Oceanica e Atmosferica, un gruppo di scienziati esulta, potendo scarsamente credere ai suoi occhi: “Guardatela, sembra che ci stia…Sfidando?” Presso le coste del vicino centro di ricerca, in una sala di controllo non troppo diversa da quella usata nelle missioni spaziali, l’addetto alla regia sussurra il suo consiglio: “Andate…Andategli più vicino. Il pubblico di Internet impazzirà per questa cosa!” I click aumentano sul sito della spedizione, connesso a svariati canali di Twitter, YouTube ed altri attrezzi similari. Il pilota a bordo spinge avanti la sua leva. Con l’incrementarsi di quel suono roboante, il sommergibile telecomandato Deep Discoverer si muove con la telecamera dinnanzi all’obiettivo. Che si chiude a questo punto come un’ostrica. A quanto pare, qualche cosa da mangiare l’ha trovata.
Questo tipo di cnidaria, phylum di esseri del fanno parte anche le meduse, appartiene al sottogenere dei polipi, che non sono, contrariamente all’opinione comune, quegli esseri con gli otto tentacoli che si aggirano liberamente nel mare. Il termine scientificamente corretto, in quel caso, è polpo. Qui stiamo parlando di creature sessili (ovvero fisse in un solo luogo) che hanno la prerogativa di ancorarsi ad una roccia con il loro piede basale, per poi agire come un ostacolo nella corrente. Per migliaia di microrganismi ogni giorno, che cadono preda della loro inesauribile fame. È una scelta chiara, questa, e funzionale ad uno scopo. Nel calderone delle forme di vita che si agitano nel profondo, scegliere di fare a meno dell’ostilità significa aprirsi ad ogni tipo di abuso del proprio spazio vitale. Ma una mosca non oserà mai sfidare una di queste cose…

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Come il pesce pappagallo, che mangia roccia ed espelle corallo

Siamo fatti di polvere di stelle, tu ed io, materia cosmica che splende nell’oscurità. Schegge d’esistenza fuoriuscite dal vortice esplosivo di una supernova: ecco un’immagine che è poesia e al tempo stesso infusa del sottile fascino, così facile da attribuire, che deriva dalle ragioni della pura ed assoluta verità. Eppure vi siete mai soffermati a pensare, tra un limone ed un lambrusco, quale sia effettivamente l’origine di questa sacrosanta “materia”? Nient’altro che lo scarto, ascoltate a me, il rifiuto, di processi ultra-millenari il cui verificarsi è sempre stato, e continuerà ad esserci anche dopo la nostra sempre più imminente distruzione. Siamo il pelo nel poro dell’universo. Ed è proprio questo assioma, fra tutti, a consentirci di capire realmente la vera natura. Perché senza di esso, come potremmo mai spiegare la bellezza delle cose grevi, quali i miliardi di granelli di sabbia che compongono una spiaggia delle Hawaii… Fuoriusciti dal didietro di un pesce! Quel bianco splendido ed ininterrotto, la cui essenza, in fin dei conti, non è altro che una mescolanza di diversi micro-granuli, di origine sia minerale (carbonato di calcio) che biologica (aragonite), Ma se i primi vengono dall’erosione, allora sarà giusto chiedersi, chi o cosa genera il processo che trasforma un mare di corallo in terra emersa, piccole isolette o banchi che si estendono a partire da una costa immota: soltanto lui, o costoro che si dir si voglia, i pesci variopinti con il forte becco, caratteristiche che hanno portato ad associarli, attraverso gli anni, al più famoso uccello parlante della superficie. Che poi sarebbero gli scaridi (scaridae) scientificamente parlando, ma in altri termini le cocorite del mondo sommerso, o ancora, tali e tante sgranocchianti mucche delle occulte profondità.
È una percezione auditiva molto strana, prendendola in analisi al di fuori del contesto: immergersi con pinne ed occhiali in mezzo ad uno degli ambienti più affascinanti del pianeta Terra, magari presso le coste dell’Australia o una delle molte isole nell’Oceano Indiano, dinnanzi alla barriera frutto dell’incessante lavorìo di molti miliardi di minuscoli polipi, soltanto per trovarsi ad ascoltare un’insistente suono, simile a quello di una macchina per fare le granite. “Crunch, crunch, crunch!” Ed a produrlo, sono loro, chi se no? Centinaia di Bolbometopon muricatum da un metro e 45 Kg l’unopesci pappagallo verdi con il bulbo sulla testa, tramite l’impiego del loro particolare dente faringeo, una sorta di becco fuso tutto assieme, in grado di strappare un pezzo di corallo come usando una cesoia delle forze speciali. Mentre altri attrezzi duri dell’evoluzione, posti sul palato dell’animale, si occupano di ridurla in fine polvere, pronta per la digestione “Crunch, crunch, crunch!” Ed a voi viene da pensare che se questa situazione potrà continuare indisturbata, molto presto la barriera corallina sparirà del tutto. Il che, alquanto prevedibilmente, non è del tutto vero: ciò perché la finalità ultima del branco di distruttori, nei fatti, non è divorare ciò che cresce per l’effetto ed il volere di altre creature appartenenti al regno animale, bensì l’alga infestante, che con quest’ultima esistenza non può fare a meno di competere, cercando il predominio del poco spazio ideale a disposizione. Questi pesci sono essenzialmente validi spazzini, oltre che dei giardinieri a tempo perso di alcune delle spiagge più amate dai fotografi di cartoline. La ragione è splendida, ed al tempo stesso, giusto un po’ inquietante. Questi pesci, chiamati dalle popolazioni indigene delle hawaii uhu (un termine che significa becco) non hanno lo stomaco, e tutto ciò che ingoiano, nel giro di qualche minuto attraversa l’intestino e viene espulso in fitte nuvolette di polvere, simili alla scia sfuggente di un aereo a reazione. E quando costruiamo, in determinati luoghi, castelli di sabbia, piste per le biglie o un realistico ritratto a mezzo busto dell’ultimo presidente degli Stati Uniti, è fondamentalmente questo che stiamo impiegando: le deiezioni del pesce pappagallo. “Crunch, crunch!” Ma aspetta un attimo! Le stranezze non finiscono qui.

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Come spedire un secchio da 28.000 tonnellate

Negli ultimi anni trasformati dalla cultura del commercio digitale, abbiamo ordinato per posta veramente di tutto. Abbiamo ordinato libri, film e dischi musicali. Abbiamo ordinato anche cose più grandi, come oggetti tecnologici, scarpe, borse e giacche del completo. Talvolta, in un impeto di stravaganza logistica, abbiamo ordinato addirittura un mobile da ufficio o l’ultimo modello di sedia rotante. Ed in ciascuna di queste occasioni, facendo affidamento sulla metodologia comprovata, il valido furgone, l’abilità e l’intento di portare a termine il lavoro, l’uomo del corriere è giunto fino a casa nostra, senza esitazioni o fisime di sorta, la servizio del concetto quasi sacro della sua missione (nonché la relativa commissione). Certo. Che cosa ci voleva, dopo tutto? Non abbiamo mai pensato di ordinare un edificio. Galleggiante, ultra-moderno, dotato di caratteristiche così particolari che, nell’intero mondo conosciuto, poteva esserci un solo ed unico paese in grado di produrlo senza fare fuori ogni risparmio precedentemente accumulato. La Cina, chi altro… Il che non sarebbe stato certo un problema, se colui che ha scelto di comprarlo è sito in Corea, Giappone o le isole dell’Indonesia. E neppure un grande ostacolo, se avessimo parlato dell’Australia, paese distante in linea d’aria ma separato da un’unico gran braccio di alto mare dalla splendida città di Shangai. Può invece diventare un’avventura, se il fantomatico acquirente è sito a ridosso dell’Atlantico, costringendo il grande pacco a percorrere per nave l’intero Oceano Indiano, fino in vista delle coste del Madagascar, e poi sotto il Capo di Buona Speranza, tra lo sguardo fisso dei pinguini, per risalire l’Africa, l’Europa, e infine attraversar la Manica, fino alle coste occidentali dell’isola di Gran Bretagna. 45 lunghi giorni, un mese e mezzo di traversata, durante la quale un’intera compagnia, la DANA Petroleum, potrà dare gli ultimi tocchi strategici al suo progetto lungamente atteso dello Sviluppo delle Isole Occidentali, per lo sfruttamento di due giacimenti di petrolio siti a circa 160 Km dall’arcipelago delle Shetland, carichi di un’indeterminata quantità di preziosissimi idrocarburi. Vero punto di svolta della compagnia, nonché il coronamento di un periodo preparatorio che va avanti dal 2012, anno in cui il governo inglese concesse l’importante appalto, nella speranza di dare un impulso all’economia della regione. E ne sono successe di cose, da allora…
Ora, a tutti coloro che volessero sapere esattamente di cosa si tratta, e non vedo come resistere a una simile curiosità, dirò che il giganteggiante oggetto cilindrico che vediamo nel video è un moderno tipo di FPSO (Floating Production Storage and Offloading Unit – Unità galleggiante di produzione, stoccaggio e scarico) per l’industria dell’estrazione delle risorse, dalla forma cilindrica, costruito secondo le nuove dottrine produttive inaugurate negli scorsi anni dalla compagnia norvegese Sevan, che ha scoperto, grazie all’esperienza decennale, che la forma ideale per un simile dispositivo era proprio quella di un secchiello, invece che una nave. La principale ragione a seguire: in questo modo, una volta ancorata nella sua regione operativa, la struttura non dovrà più contrastare la forza del vento ruotando in senso contrario, affidandosi all’impiego di un complesso e costosissimo (circa 200 milioni di dollari, per essere precisi) sistema di ancoraggio a torretta. Semplificazione. Efficienza. Massima affidabilità. C’è ben poco da ridere, in tutto questo. Benché la scena, se vogliamo, abbia un quantum di surrealismo che risulta assai difficile da trascurare. Probabilmente a causa dei colori vivaci, scelti per massimizzare la visibilità in mare, m anche per le proporzioni tozze e che in qualche modo ricordano un giocattolo, l’incredibile oggetto tende a suscitare l’istintivo accenno di un sorriso. E non abbiamo ancora discusso la parte migliore: sapete come farà, il cantiere navale di Shangai responsabile per la sua costruzione COSCO, a spedirlo fin quaggiù? Caricandolo sopra una nave, ovviamente. La più grande… Di tutta… La Cina!

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