La maestosa invadenza del sacro toro blu indiano

L’idea che una particolare attenzione nei confronti del mondo animale possa essere non soltanto l’istintivo senso di empatia nei loro confronti, bensì diretta risultanza della possibilità che in essi siano stati reincarnati i propri cari o vecchie conoscenze delle nostre vite passate, è profondamente radicata in almeno due delle maggiori religioni asiatiche, entrambi provenienti dal subcontinente indiano. Persino partendo da un simile presupposto, tuttavia, è possibile decidere di fare un’eccezione per creature la cui esistenza può riuscire a risultare troppo problematica, o pervasiva, perché la naturale tolleranza umana venga condotta oltre i limiti ulteriori della sua portata. E quando questo avviene, folle inferocite tendono a compiere dei gesti particolarmente irrimediabili, culminanti nel linciaggio, contro ogni legge del proprio stesso paese, nei confronti di esemplari particolarmente mal tollerati. Al che di certo, viene da notare come il cosiddetto “toro” o “mucca” noto scientificamente come Boselaphus tragocamelus, non sia l’una né l’altra cosa, e tanto meno un cammello, bensì la più imponente e prolifica tra tutte le specie di antilope asiatica, con pressante concentrazione del suo areale nella parte settentrionale dell’India. Eppure non è affatto possibile trascurare l’etimologia del suo nome comune nilgai, nato dal composto hindi che significa letteralmente il bovino blu, condividendo la seconda parte “gai” con uno degli appellativi dati alla Kamdhenu, mucca sacra le cui quattro zampe che atte a simboleggiare le sacre scritture, mentre le mammelle rappresentano tutte le ricchezze materiali di questo mondo. Eppure la questione di riuscire a preservare questa imponente creatura, capace di raggiungere in media i 288 Kg di peso e una lunghezza di 2,1 metri, continua ad essere un argomento controverso in diversi stati, al punto che lo stesso candidato al parlamento della Federazione può inserire nel suo programma severe norme di protezione nel suo originale luogo di provenienza, mentre promuove l’eliminazione sistematica o sterilizzazione nei territori maggiormente soggetti alla convivenza con questo animale. Ciò in quanto il nilgai, per sua implicita inclinazione, non ha problemi particolari ad avvicinarsi all’uomo ed ai suoi terreni, riuscendo agevolmente a saltare le recinzioni comunemente disponibili agli agricoltori degli strati di popolazione più disagiati. Per poi provvedere a fare scempio delle coltivazioni di grano, rape e fagioli neri, consumandone le piante e calpestando tutto ciò che non risulta essere di suo gradimento. La che si aggiunge un indole tendenzialmente timida e schiva, che tuttavia una volta che si trova messa alle strette cambia subito comportamento, potendo contare sulla propria imponenza e la notevole possenza dei calci vibrati, più che sufficiente a ferire gravemente, o persino uccidere una persona adulta. Questioni necessariamente fatte passare in secondo piano, quest’ultime, dal punto di vista dei molti Gau Rashak, gruppi di protezione bovini attivi nel paese, tra cui spicca in modo particolare la tribù dei Bishnoi (o Vishnoi) 960.000 uomini e donne fermamente convinti che la vita di una creatura appartenente al regno naturale valga lo stesso, o persino più di quella di coloro che risultino disposti a porvi termine, non importa quanto ciò possa apparire superficialmente giustificato.
Non che i piccoli branchi di questi abitanti del sottobosco, chiamati in certi ambienti rojad (“antilope della foresta”) proprio per allontanarli concettualmente dalla condizione di sacralità connessa ad altre specie bovine, siano in alcun modo consapevoli di queste diatribe, preoccupandosi soltanto di fare ciò per cui la natura ha provveduto a perfezionare il loro organismo: consumare senza pregiudizi erba o foglie, anche poste a mezza altezza grazie alla notevole portata del loro collo taurino. Mentre si muovono in gruppi composti in genere da 10-18 membri, qualche volta molti meno, composti alternativamente da un paio di femmine coi loro figli, tre o sei adulti di entrambi i sessi seguiti dalla prole, oppure tutti maschi scapoli attualmente in cerca di una consorte. La marcatura del territorio avviene nel frattempo tramite l’impiego di una complicata tecnica di defecazione, che prevede il mantenimento prolungato di una posa a gambe larghe utile a segnare uno spazio capace di raggiungere i 50 cm di diametro. Il che rientra d’altra parte nella notevole agilità del nilgai, che alcun tipo di barriera (fisica o culturale) sembra in grado di riuscire a contenere per tempi medi o prolungati…

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Biglie acute nella giungla e incontri ravvicinati del tarsio tipo

Quando si considera la serie di caratteristiche comunemente riferite al Gremlin, inteso come mostro cinematografico degli anni ’80, non è tanto la sua capacità di replicarsi in modo asessuato quando bagnato con l’acqua, né la trasformazione malefica se mangia dopo la mezzanotte, a trovare una corrispondenza pratica nel mondo naturale. Quanto l’atipica commistione nello stato primigenio, di creatura sonnecchiante e al tempo stesso famelica, in qualche modo alieno stranamente intelligente. Quasi come se riuscisse a incorporare i tratti tipici di una piccola scimmia, con quelli di un essere proveniente da un ramo estremamente differente del grande albero dell’evoluzione. Così osservando quell’essenziale dualismo, è una forte tentazione ricondurre la creatura di nome Gizmo a un qualche tipo di lemure malgascio, sebbene la nazionalità del venditore d’animali visitato dal protagonista umano Randall possa offrirci un valido spunto di approfondimento: la lunga barba e baffi, il senso persistente di misticismo asiatico, la collocazione del suo negozio all’interno del quartiere newyorchese di Chinatown. Abbastanza da riuscire a prendere in considerazione un preciso contesto geografico. Ed all’interno di quest’ultimo, la più probabile ispirazione trasformata sotto la lente fantastica della cinematografia di genere: la famiglia tassonomica dei tarsi o Tarsiidae, suddivisa in tre generi originari d’Indonesia, le Filippine, la Malesia e il Brunei. Le cui orbite gemelle, grandi come telecamere, sembrano scrutare dento l’anima stessa di chiunque riesca a ritrovarsi al loro cospetto.
Quando si considera l’ecologia dei predatori notturni, prendendo come esempio quello a noi più noto del comune gatto domestico, è piuttosto facile individuare tra questi un’importante costante morfologica: quella del tapetum lucidum ovvero l’elemento al posto della fovea dietro il bulbo oculare, che riflettendo e amplificando le fonti di luce permette loro d’individuare la più piccola e sfuggente delle prede. Certamente notevole, nonché piuttosto inaspettato, appare il fatto che una soluzione alternativa possa non soltanto esistere, ma riuscire ad ottenere risultati quasi altrettanto validi nella maggior parte delle circostanze. C’è mai stata l’effettiva possibilità d’altronde, di ottenere risultati meno che soddisfacenti, dando una risposta positiva alla domanda “E se provassimo a farli più grandi?” E imponenti riesce ad esserlo senz’altro, questo paio di finestre lucide sul mondo, al punto da riuscire a risultare in talune specie ancor più grandi del cervello dell’animale stesso. Tanto sproporzionati, rispetto a creature in grado di raggiungere al massimo i 16 cm di lunghezza, da trovarsi addirittura impossibilitati a muoversi, guardando essenzialmente innanzi come telecamere di tipo digitale. Tutto il contrario del pupazzo meccanico Furby, i cui sguardi sornioni da un lato e dall’altro finiscono piuttosto per avvicinarsi a quelli di tutt’altra genìa. Per una soluzione che parrebbe uno svantaggio significativo nella quotidiana corsa per la sopravvivenza, finché non si apprende la notevole facilità con cui il tarsio può voltare la testa da una parte e dall’altra, arrivando a girarla agevolmente fino a 180 gradi dalla parte opposta al ramo a cui è solito aggrapparsi coi propri arti prensili dalle lunghe dita. Tra l’altro dotati, per quanto concerne quelli anteriori, di una lunghissima estensione del metatarso, da cui incidentalmente viene anche l’etimologia del suo nome. Altrettanto degna di esser menzionata la presenza, nella maggior parte dei casi, di polpastrelli a forma di ventosa in grado di massimizzare l’aderenza a superfici di tipo scivoloso, mentre la creaturina tenta di raggiungere luoghi abbastanza alti da effettuare i notevoli balzi che caratterizzano il suo metodo preferito di spostarsi all’interno delle vaste giungle di provenienza. Alla costante ricerca di nuove fonti di cibo, principalmente costituiti da insetti, piccoli mammiferi, uccelli, rane, lucertole di passaggio… Un pasto come un altro, per l’ultimo primate esclusivamente carnivoro di questo mondo.

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Scoperto nel cratone l’animale con più zampe d’Australia e del mondo

Un modo molto strano per pescare, quello in uso presso Yilgarn nell’Australia Occidentale, in quelli che prendono il nome niente affatto casuale di Goldfields: Campi Dorati. Prima si scavano dei pozzi verticali nella nuda roccia, tra i 60 e 150 metri di profondità ed appena 150 mm. Quindi si lasciano passare diversi anni, se non decadi, scavando ed estraendo materiali da quel sito e negli immediati dintorni, provvedendo a trasformare l’area in una ragionevole approssimazione del formaggio Emmenthaler. Quindi un giorno in apparenza come tutti gli altri, un gruppo di scienziati provenienti da diverse università australiane e il politecnico della Virginia statunitense immettono all’interno del pertugio un lungo filo verticale. All’estremità del quale è situata quella che viene comunemente definita come trogtrap, un tubo in PVC traforato, ricoperto a sua volta di fori e pieno di pezzi di foglia, muschio e mucillagine di vario tipo. Questo perché non c’è alcun tipo di verme, a fare da esca, in quanto il verme se vogliamo è proprio il bersaglio di una simile attività. Una creatura lunga e serpeggiante, sotterranea, ma che non possiede anelli ma segmenti in grado di sovrapporsi l’uno all’altro, né risulta particolarmente incline a strisciare. E perché mai dovrebbe farlo, quando la natura l’ha dotata di ALMENO 1.306 zampe distribuite in appena una decina di centimetri e meno di un millimetro di diametro, perfettamente in grado di fungere all’unisono, come addestrati soldati di un’esercito silente dall’alto livello di disciplina? Oh Eumillipes Persephone, il primo “vero millepiedi” che vanta il nome della regina dell’Oltretomba nell’antica Grecia, rapita ogni anno dal dio Ade al solo scopo di essere la sua consorte per i lunghi mesi dell’inverno metafisico apparente. Una stagione che potrebbe facilmente non finire mai, così come le verdeggianti terre d’Australia diventarono, all’altro lato del pianeta, luoghi aridi ed inospitali, dolorosamente privi di pioggia, convincendo un’antica genia d’artropodi a trasferirsi armi e bagagli nelle più umide profondità del sottosuolo. Per assumere caratteristiche di tipo troglomorfico, come la colorazione pallida, una testa priva d’occhi ma dotata di un gran paio d’antenne dai sensilla sia meccanici che chemioricettivi, dalla forma conica abbastanza resistente da riuscire a incunearsi tra fessure e crepe di quel mondo privo di luce. Il che lasciava, essenzialmente, un singolo problema operativo: come fare per poter vantare forza sufficiente a farsi strada nei pertugi maggiormente resistenti, affidandosi alla meccanica implacabile della sua stessa persistenza? Se non vedendo crescere grazie al meccanismo della selezione naturale, una generazione dopo l’altra, il numero dei propri arti nell’unico senso possibile visto il suo stile di vita; quello longitudinale. Una soluzione in realtà tutt’altro che rara in questo clade dei colobognati, famiglia Siphonotidae, sebbene siano molto poche le creature in grado di poter vantare lo stesso successo in tal senso. O per essere ancor realistici essenzialmente una soltanto, il millepiedi imparentato alla lontana della specie Illacme plenipes, riscoperto nel 2005 dopo ben 80 anni dall’ultimo avvistamento, da un altro membro del politecnico della Virginia, Paul Marek. Dotato di appena 3 cm di lunghezza negli esemplari di tipo femminile, oltre a un record rilevato di “appena” 750 zampe, comunque più del doppio dei più dotati millepiedi conosciuti fino a quel momento. Ma per il resto morfologicamente simile in parecchi aspetti, inclusa la dotazione di gonopodi simili a pugnali al nono e decimo segmento, arti specializzati nella fecondazione e deposizione delle uova, nonché il dimorfismo tra i due sessi che vede il maschio maggiormente lungo (e zampa-dotato) della sua controparte femminile. Una notevole ancorché innegabile prova dell’antichità di questi esseri, potenzialmente riconducibili ad un antenato comune risalente a quando ancora l’Australia faceva parte di un’unica massa continentale indivisa, epoca durante la quale questo stesso sito oggetto del notevole ritrovamento avrebbe avuto d’altra parte un aspetto ragionevolmente simile a quello attuale. Questo implica in effetti il nome stesso di cratone, il più antico ed immutato tipo di crosta continentale, contrapposto all’orogene inteso come punto instabile dove si formano le montagne. Una massa per lo più granitica situata nella parte centrale dei continenti, collegata direttamente a una sezione del mantello superiore. Fonte assai frequente di notevoli ricchezze minerarie, nonché in rari casi come questo, veri e propri tesori biologici provenienti dalle occulte regioni del sottosuolo…

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Storia di un successo: come il bandicoot è ritornato a popolare l’Australia

Poiché la triste verità, l’assoluta e imprescindibile realtà, è che nel 1989 uno dei più caratteristici e meno conosciuti animali d’Australia stava per scomparire molto prima di esser diventato un protagonista dei videogiochi. Percorrendo la stessa strada senza ritorno dei porcospini azzurri, gli idraulici del regno dei funghi, i vermi in tuta spaziale e le linci antropomorfe alla ricerca del filo di lana rubato dagli alieni, molti anni prima che la Playstation della Sony avesse anche soltanto iniziato a rappresentare una forma nel puro regno delle idee: niente joystick con doppio analogico, neanche l’ombra di un CD-ROM, “Crash” sarebbe stato un nome, ed un destino, tristemente simile a quello di tanti altri appartenenti al suo particolare genere animale. Poiché il colore a parte la mancanza delle strisce, le proporzioni e la forma del particolare personaggio a voler essere ambiziosi, lo identificano in realtà piuttosto chiaramente come un membro della specie Perameles gunnii, ovvero la versione di gran lunga maggiormente celebre (sebbene alquanto stranamente, meno comune) dei superstiti tra quelli che comunemente vengono chiamati per l’appunto i peramelemorfi o bandicoot, per analogia del tutto non scientifica col “topo-maiale” di provenienza indiana. Laddove questa creatura notturna di circa 35-40 cm dalle grandi orecchie e il naso conico, che ricorda vagamente quello di un formichiere, è in effetti un chiaro rappresentante dell’infraclasse dei marsupiali, riuscendo a partorire il proprio piccolo dopo un periodo di appena 12 giorni, per poi continuare a custodirlo al sicuro nell’alloggiamento apposito situato in posizione ventrale. Una soluzione evolutiva questa, come ben sappiamo, particolarmente distintiva del continente Australiano e zone limitrofe, strettamente interconnessa ad un particolare ambito ecologico e sistema d’interconnessione tra le prede e coloro che erano naturalmente abituati a temere. Ovvero essenzialmente gufi, quoll e dingo, con l’unica contromisura di restare totalmente immobili cercando di passare inosservati. Di sicuro un’ottima idea in linea teorica, rivelatosi tuttavia del tutto inefficiente successivamente all’arrivo di creature non native come volpi, gatti e cani ferali, perfettamente in grado di varcare il velo di una tanto labile illusione, per fagocitare lietamente il gradito spuntino che non tenta neanche di mettersi in fuga. Una situazione sopportabile per una, due, quattordici generazioni. Ma che infine aveva trascinato, assieme ad altri fattori come la riduzione dell’habitat, i frequenti incidenti e gli esemplari finiti sotto un’automobile, alla riduzione dell’intera specie a soli 150-200 esemplari tra isole e continente, con una particolare concentrazione all’interno di zone poco consone della Tasmania, come uno sfasciacarrozze. Il che aveva portato gli enti responsabili, non senza un significativo rammarico, a dichiararlo formalmente prossimo all’estinzione, un destino da cui l’esperienza insegna, l’intervento umano può riuscire a mantenere al sicuro per qualche tempo al massimo, senza riuscire tuttavia a cambiare fondamentalmente l’andamento delle cose. Se non che i miracoli possono ancora accadere, persino in questa seconda decade degli anni 2000, al punto che lo scorso settembre, senza che nessuno avesse il modo o la ragione di prevederlo, il P. gunnii è stato all’improvviso riportato nell’insieme delle creature vulnerabili, ovvero non più prossime allo stato critico di non ritorno. Questo grazie al coronamento degli sforzi compiuti dall’ente naturalistico Zoos Victoria per un periodo di oltre 30 anni, consistenti nell’allevamento in situazione controllata, il mantenimento della diversificazione genetica e soprattutto la reintroduzione in natura, all’interno di tre particolari siti nella parte sud-est del paese, mediante l’impiego di un sistema eccezionalmente creativo. Ed è qui che entra in gioco il gregge di pecore, assieme allo sguardo quieto ma severo del cane da pastore maremmano…

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