Fuga ninja dalla scuola media superiore

Ninja girls

Come quando fuori ninja, così, d’un tratto. La vita è piena di rimpianti? Non in questo caso, di Fuka Yoshino, kickboxer professionista, e Muneomi Senju, la batterista del gruppo d’avanguardia dei Boredoms. Due ragazze giapponesi, nella compunta uniforme detta sailor fuku, che si lanciano dal terzo piano senza farsi male. Si arrampicano sui templi. Gettano in giro pericolosi chiodi a tre punte, pardon, makibishi. Si trasformano in pezzi di legno (!) Poi si rincorrono per la città di Atami, ridendo e scherzando, nella ragionevole approssimazione di un combattimento, senza posa, tra i guerrieri con il volto sempre in ombra, lame occulte nella notte, piedi lievi e grande agilità. Un principio di evasione da imitare.
Dopo le lunghe ore consumate sopra i banchi, dietro a materie sempre meno rilevanti, sotto a una campanella che non suona mai; la noia! Una faticosa sensazione di espletata rilevanza, che ti coglie senza presupposti di coinvolgimento. Mentre la mente vaga e si costruisce roboanti vie di fuga, tra l’ora di geometria, la ricreazione e quella di ginnastica. Perché il corpo freme nell’attesa. Di tornare all’aria aperta, per fuggire da una tale impenetrabile apparenza. Corri, salta, calcia e rotola per terra. Più ci pensi, meno riesci a farlo. Troppo complesso è liberarsi dalle imposizioni del contesto, trascendere il bisogno di quell’arbitrario voto, un triste numero tracciato a penna. Mancano le vie di sfogo. Ci si dedica, dunque, a collaterali attività. Le due protagoniste sono qui coinvolte in quello che, ai nostri occhi d’internauti, si presenta in modo molto chiaro. Parrebbe infatti una versione alternativa del concetto di parkour, la disciplina di origini francesi, che consiste nel prodursi in pazzeschi acrobatismi urbani, spesso rischiando infortuni…Di variabile natura. Un ambito sportivo d’azione, se tale si può definire, che da tempo trova interessanti associazioni con il contesto culturale giapponese. Per l’evidente analogia con certi antichi personaggi, associati allo spionaggio, l’assassinio e la furtività. Li conosciamo molto bene, grazie ai fumetti e ai cartoni animati. Anche il PK dei nostri giorni, del resto, nasceva in ambito militare, dalle teorie dell’ufficiale di marina Georges Hébert. Il quale affermava, nei suoi studi, che la forza derivasse dalla capacità di adattamento ad ogni circostanza e alle necessità dell’attimo presente. Appunto: è proprio questa, fondamentalmente, la distinzione tra i soldati semplici e quelli delle forze speciali; o per meglio dire nel nipponico contesto, tra i samurai ed i ninja. Appartenenti, spesso, alla stessa classe sociale, eppure drasticamente differenti per contegno e senso dell’onore. Perché i secondi, soprattutto, ricercavano il valore dell’utilità. Risolvere i problemi, invece che crearseli da soli. Metti caso, ad esempio, che sia ancora in corso la lezione dell’ultima ora. Le porte sbarrate della scuola, i custodi con le loro forti scope a forma d’alabarda, e i severi insegnanti, il crudele vicedirettore con i baffi stile Nobunaga; finita la pazienza, resta solo la rassegnazione. Giusto? Questa è l’unica strada ragionevole. Oppure, se rifiuti la minestra….

Leggi tutto

La mostruosa cavalletta dei Māori

Weta

È sangue quello? Per niente infastidita, la qui presente ricercatrice ci dimostra gli effetti della rabbia di uno strano essere senz’ali. Giallo e nero, saldamente tenuto in posizione, l’artropode infernale parrebbe in linea con l’aspetto di un pericoloso mostro xenomorfo del film Alien. Anche perché, proprio come quest’ultimo, oltre a mordere, rilascia della copiosa saliva rossiccia, la sua secrezione di riconoscimento. O pre-digerimento?! Difficile immaginarsi al posto di una mano tanto sfortunata: la passione per la scienza, come l’amore, non ha altri occhi se non quelli della mente. Però tutti, se davvero ne hanno voglia, trovano l’animale domestico dei propri sogni di bambino…
I weta, che prendono il nome da una parola invariabile della lingua māori, sono grandi all’incirca quanto un cucciolo di chihuahueño. Ma definirli in questi termini, in effetti, non gli rende davvero giustizia. Giacché il cane messicano per eccellenza, tozzo e compatto, è il più piccolo rappresentante della sua specie. Mentre gli insetti in questione, parenti prossimi della cavalletta verde o del grillo talpa, sono mastodontici e mostruosi, corazzati, spiniformi e battaglieri. Per secoli padroni delle proprie isole a largo della costa neozelandese, tra cui le Mercury o le Poor Knight’s, sono cresciuti a dismisura, privi di nemici naturali, fino ad estendere il proprio areale lungo le propaggini del continente. Caso limite: il weta gigante, il cui nome scientifico Deinacrida significa in greco “cavalletta terribile”, può pesare fino a 35 grammi ed ha una lunghezza massima di 10 cm, antenne e zampe escluse. È più grande e pesante di un comune passero europeo – ma vegetariano ed altrettanto inoffensivo. Almeno in teoria.
Oggi suddivisi nelle due famiglie AnostostomatidaeRhaphidophoridae, questi graziosi  esseri occupano una vasta varietà di ambienti, tra cui foreste, caverne o le alte colline del Rock and Pillar Range vicino Dunedin, nell’Isola del Sud. In tale luogo ventoso, che in inverno può scendere fino a i -10 gradi Celsius, l’Hemideina maori sopravvive grazie a un espediente assai particolare. La sua emolinfa, il fluido che circola nell’organismo, è arricchita di una particolare proteina, che funzionando da anti-gelo gli impedisce di ghiacciarsi. Sono molte le soluzioni per essere lasciati in pace… Ma non tutti i weta sono tanto rustici e solitari. Non è infatti insolito, tra gli ambienti urbani di Auckland o Takapuna, di incontrare un parente prossimo di quel montanaro che si aggira tra le case nella notte, in cerca di rifiuti da addentare con le possenti ganasce masticatrici. Una famigliola di tali creature se lasciata prosperare, come tutti gli altri insetti,  può ben presto aumentare di numero a dismisura. La loro tana simile ad un tunnel, scavata nel tronco degli alberi o di un legno messo appositamente nel giardino, viene definita un weta motel e può contenere fino a 10 femmine oltre a un maschio, sempre ben disposto a riprodursi. Questi mostriciattoli non sono velenosi  né pericolosi per l’uomo. Benché se messi alle strette, in caso di necessità, siano in grado di difendersi. Persino dal gatto,  l’arcinoto terrore di tutte le cose più piccole di lui. Come mostrato nel seguente video…

Leggi tutto

La verità nascosta dietro la corteccia

Wood Grain

Chissà come mai non ho tagliato un fusto d’albero, né l’ho fatto poi a dadini. Per prendere ciascuno dei frammenti risultanti, metterlo sul tavolo e passarci su la pialla con un gesto ripetuto, al fine di ottenere…Fogli, anzi, figli, di un’idea. La prova inconfutabile che l’universo ha un ordine preciso. Chiamatela, se volete, la forza del metodo scientifico. Distruggere per studiare. Il problema delle cose è che guardandole dall’esterno, senza troppo approfondire, paiono caotiche, disordinate. Una foresta, in quanto tale, è il sovrapporsi senza senso di duemila teste vegetali, l’una a ridosso dell’altro, tutte intrecciate con i rami nel rigoglio di una grande confusione. Pini e querce e faggi e abeti, attentamente alternati, affinché soltanto gli uccelli silvani potessero capire il nesso basilare di mescolamento. Ci hanno provato in molti, a sbrogliare questo enigma e l’ultimo, per certi versi, ci è riuscito. Guardate. Keith Skretch, artista visuale, ha avuto la trovata davvero interessante di ridurre in molte fette un legno precedentemente vivo, fotografando quindi ciascuna delle risultanti lamine, per montarle in sequenza, l’una dopo l’altra, attraverso la tecnica dello stop-motion. Il risultato è molto bello. Il risultato è sconvolgente. In un vortice di linee, la tempesta ordinata dei cosiddetti cerchi d’albero (provate un po’ a contarli!) Compaiono fulmini trasversali e crepe longitudinali, nere come nebulose. I nodi, prolungamenti interni di perduti rami, migrano, con il procedere del video, verso i margini dell’inquadratura. Se abbastanza grandi, sembrano pianeti, che si rincorrono per spazi cosmici dimenticati. Dal centro di essi, irradiandosi al ritmo incalzante di una colonna sonora attentamente selezionata, lampi frastagliati si separano e scappano via. Sono, questi ultimi, le astronavi esplorative spedite contro l’aloclino, o linea di demarcazione, tra il durame e l’alburno, parti rispettivamente interna (dura) ed esterna (morbida) del tronco. Mezzi immaginifici, di spiriti invisibili. Meccanismi proprio come i nostri. In alternativa, tutto questo turbinare è invero affine ai vortici che si rincorrono sulla rossastra superficie del pianeta Giove, antichi e grandi quanto la nostra azzurra Terra. Via Lattea > Sistema Solare > pianeta > tronco e poi?
Viene voglia di caderci dentro. Per comprendere, da un tale microcosmo, la ragione primigenia in base a cui il piccolo riprende il grande, comunque, in un rincorrersi di proporzioni e aspetti sempre uguali. Già questo, senza considerare le altre nascoste corrispondenze, tra loro, le piante e noi, umani. Rese manifeste da questa seconda testimonianza video…

Leggi tutto

La spartana educazione delle anatre

Anatre tombino

Gioventù è avventurarsi per il mondo camminando a becco alto senza un’idea chiara della propria meta, eppure certi di raggiungerla, alla fine. Un piede dopo l’altro sull’asfalto della contentezza, in mezzo a ostacoli tangibili e concreti: come il marciapiede, la grondaia ed il tombino. Dura la vita di un piccolo anattroccolo! Sia questo bello, oppure brutto. La statura resta uguale, in relazione agli incidenti di percorso dell’improvvido destino. È la madre, piuttosto, che fa la differenza. Fra tutte le caratteristiche della macrofamiglia anatidae, la più famosa è certamente questa naturale conseguenza dell’imprinting. Il modo in cui, dopo la schiusa, un’intera nidiata di pulcini impara presto a camminare, ben sapendo che altrimenti non avrà futuro. Perché già mentre cade a terra il primo pezzo del sottile guscio d’uovo, la spietata genitrice si ricorda di un impegno altrove. E tutti gli altri piccolini, dondolanti e resi miopi dalla luce forte dell’estate, devono seguire quella piuma ritta sulla coda della dama starnazzante, la bandiera di una sicurezza relativa. Che metafora per la vicenda umana! Si dice che gli uccelli siano assai devoti ai propri figli. Vedi la rondine che nutre la nidiata, rigurgitando allegramente nella bocca dei suoi pargoli affamati. Oppure il pellicano con il pesce nella pappagorgia, pronto a cederlo, se necessario. E certamente lei, la mamma con il seguito di piedi-gialli che si affrettano a seguirla, è un’immagine davvero affascinante. Che sottintende protezione, amorevole attenzione. L’anatra, come la gallina, sa contare. Però è distratta e non considera le problematiche ambientali. Il che significa che dove passa lei, ovviamente, passeranno pure i suoi pulcini, giusto, quack? Un presupposto che non regge all’implacabile evidenza. Le dimensioni contano, eccome. Soprattutto negli ambienti concepiti per la vita urbana, ricchi di connotazioni non immediate, per un cervello ad ogni modo piccolo, adatto per la vita di palude. Dove non ci sono, buchi. In questo video di Tommy Allen si dimostrano le estreme conseguenze della forza di gravità ed il modo in cui, dove ben poggia il piede dell’uccello adulto, non per questo i figli possano evitare di sparire in un secondo. Persi, forse per sempre, al mondo delle cose vive o illuminate.
È una storia tragica, ma seguitela fino in fondo. Ha un lieto fine. Si svolge, assai probabilmente, in un centro abitato di regioni temperate degli Stati Uniti. Dove non è insolito, né sorprendente, che pianeti come questi, di un’anatra con i suoi dodici satelliti, traccino la loro orbita sbadata. Tanto che, nel momento del bisogno, la gente è lieta di ristabilire il flusso più auspicabile delle cose.

Leggi tutto