Farsi mucca per danzare, dare latte o guadagnare

Alpura Cow

“Ha mai provato…” Signora, “Vorrebbe favorire…” Oh, my: “È un’assoluta novità del nostro marchio…” In nome della vacca che comanda il pascolo nei prati, la vita del promoter nei supermercati non è facile, né ricca di momenti memorabili di una giornata. Tre giorni scarsi di preparazione. Quindi, si tratta di mettere in campo tutto il proprio fascino e la capacità dialettica per tentare di convincere chi amava un logo verde che anche il rosso a strisce non è tanto male, il grigio e il giallo hanno un perché. Che l’arancione sul barattolo è supremo e indicativo di una rilevante qualità, anche se il viola, ok, esisteva da una vita. Siamo bestie, abitudinarie. Creature della fattoria incommensurabile del consumismo, in cui tutto viene disgregato eppure, nel contempo, eternamente riformato: in scatole attentamente etichettate, affinché siano massimamente uguali quegli oggetti che compriamo, poi mangiamo ogni mattina, pomeriggio e sera. Ma il cambiamento non è facile da istituire e tanto meno può riuscirci un/a singolo/a ragazzo/a, appena dopo l’università, che si metta volenterosamente in discussione, prima d’instradarsi (auspicabilmente) nella sua vera scelta di carriera. Fare parte di una campagna pubblicitaria nazionale diventa, quindi, come cavalcare contro i mulini a vento della consuetudine. Costruire piramidi inusitate di barattoli, soltanto per vederli rovinare a terra, come in un cartoon, per l’intramontabile battaglia tra gatto e canarino, topo e scarafaggio, road runner e quel gran figlio di un coyotes nordamericano. “Ah, non vuole provare il nuovo yogurt doppiogusto fragola-papaya con granelli di tartufo bianco di Polonia? Signora, se lo lasci dire, lei è una vera Vacca” Oibò, “Grazie, giovinastro, tale appellativo mi arreca un grande senso di soddisfazione. Sia dunque tanto dolce da fornirmene una confezione”. E che c’è di strano?
Affinché sia degna di essere stimata. Perché finalmente, dopo tanto vilipendio, l’animale ruminante per eccellenza venga considerato degno termine di paragone. In quanto mucca, di per se, non vuole dire: insofferenza. Ma una gioia di vivere senza confini, la realizzazione quotidiana dell’intramontabile serenità. Erba, sole, figli maculati, tutto quello che gli serve. In verità mi appare adesso chiaro, che se l’attuale civiltà terrestre fosse nata da quel braccio dell’evoluzione, il mondo degli erbivori tranquilli, non avremmo guerre, sofferenza o carestie, né del resto discoteche, in quanto con gli zoccoli non è una passeggiata: ballare. A meno che! Chi ha detto, in fondo, che la fantasia di una mascotte col capoccione sia del tutto scollegata dai ritmi cardiaci della progressione naturale… Può anche succedere, in un giorno che sembrava come gli altri, di varcare quella soglia del grande negozio, e ritrovare innanzi al banco una creatura ritmica senza controllo. Che non ha più nulla d’umano, tranne il gusto di attirare l’attenzione, dando luogo al sogno e al ritmo della splendida ragione, la MUUUUUUsica!

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Cane buffo e gatto sulla cuccia trafugata

Pixel the Bulldog

Ah, tauromachia, taumaturgia – dell’orrenda umiliazione. Se soltanto avesse continuato ininterrotta quella cosa! L’antica e sacra opera delle genti di cultura minoica-micenea, in cui giovani aitanti danzavano la danza della morte potenziale, saltellando tutto attorno allo sbuffante, scuro, dondolante, abnorme, raccapricciante, cornuto e portentoso maschio di bovino. Di certo, simili scene non avrebbero mai avuto luogo. Giacché al di là del mare, sulle coste dell’Epiro in cui vivevano i Molossi, tale pratica assumeva forme differenti. Tra cui quella maggiormente significativa, per lo meno agli occhi di una simile tribù, secoli dopo avrebbe dato il nome ad un intera classe di creature a quattro zampe. Erano cani forti e ben piazzati, i loro, che sotto il sole a mezzogiorno, tra i canti e il rullo di tamburo, venivano introdotti nell’arena per sfidare il mugghiante demone dei prati, in una cruda reinterpretazione di ciò che prima era soltanto immaginato per figure o storie senza tempo, come la scena dell’affresco degli acrobati sul toro di Heraklion. Altro che una semplice corrida… Del resto il cane è nato per aiutarci nelle nostre imprese, feconde o distruttive, fin da quando non si chiama lupo, mentre il gatto, il gatto è molto differente. Sceso fluido e silenzioso giù dal piedistallo posto al centro dei santuari egizi, si è instradato e poi diffuso per l’Europa, come bestia differente, non più semplice uccisore di pericolosi roditori. Bensì l’immane dimostrazione, carezzevole con coda elicoidale, che gli dei camminano talvolta in mezzo ai loro servitori, fattosi pelosi, e quando ti concedono qualcosa, in cambio il pagamento: “Sia sollecito” occhi di brage, artigli acuminati: “Ed ingente, rozzo umano” Felix il fecondo, il futuribile, giammai: felice. Gatto è bello ma vezzoso, pacifico, eppure stòlido nel suo carattere, nei gesti. Così avvenne, per il proseguire di generazioni tanto brevi (domestico, seppur per scelta, vuol dire vivere meno dei tuoi padroni) che il massimo ambasciatore dell’intero genere felino si auto-migliorasse nel suo ruolo, raggiungendo vette di assoluto predominio nel suo ambiente rilevante. Sempre più furbo e attento, rigido e affilato come una katana. Talvolta senza peli, sfinge canadese, ancor più aerodinamico e pur sempre svelto, furbo e forte almeno quanto basta. Il che ovviamente, non bastava per il toro, né l’eterno suo nemico.
Pero ebbene il cane, nel frattempo, si è trovato conseguente dalla diaspora dei geni; tali e tanti incroci para-evolutivi, indotti da quel giorno ormai lontano, che dal quattro zampe molossoide ha dato molti frutti differenti, pomi eclettici e distanti tra di loro. Ricondotto a miti consigli dei cinofili, trasformato in utile assistente per la pastorizia, oppure spirito guardiano, le sue metamorfosi si estesero dalla Corsica all’isola di Terranova, in un tripudio di forme, di colori e dimensioni. Finché un giorno, in terra d’Albione…

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Sculture animate grazie alla progressione matematica di Fibonacci

Zoetrope Sculpture

C’è un solo modo di contare, il che significa che esistono due modi: convenzionale, interessante. Se si parte dal primo numero della sequenza, il solo ed unico, se si procede via da quello e avanti verso l’infinito in assoluta regolarità, si ottiene un cubo, quindi un poliedro, poi cristalli sempre più complessi e sfaccettati. Sarebbe questo il sentiero inanimato, delle cose minerali o dei computer, che dal calcolo poligonale sanno trarre ambienti, mondi fantastici e ogni tipo di realizzazione visuale, anche vivida, se serve. Basta dare luogo a occulte mescolanze, combinare, ricoprire con le texture e il bump mapping rilevante. Mentre il soffio della vita è differente: essa non conosce l’illusione. Il che non significa che sia incapace di nascondersi: guarda il ragno, la farfalla, guarda il paguro nella sua conchiglia. Tutto fanno, per sparire, eppur quel tutto è strutturato e armonico, come il disegno dell’artista nella sua bottega. Come queste, le ultime sculture di John Edmark, professore di Design all’università di Stanford, che prendono l’ispirazione da quel nuovo metodo produttivo, il sistema che, fra tutti, permette la migliore materializzazione dei poligoni virtuali. La stampante tridimensionale. Si tratta sostanzialmente di forme plastiche, animate grazie ad una luce stroboscopica e il semplice meccanismo dello zootropio, dal greco ζωή – vita, e τρόπος – girare, anche se in tale categoria spiccano tra gli altri, perché seguono una strada differente. Le lucubrazioni, guarda caso, di un filosofo del mondo.
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci (1170-1240) era un cultore dei numeri quali pochi ne nascevano, a quei tempi e forse ancora adesso, che risulta ancora stranamente trascurato nella riscoperta letteraria di quell’epoca, assai popolare nei nostri romanzi storici fondati sul mistero. Fu lui per primo, nel suo Liber abbaci a proporre all’intera Europa rinascimentale un differente modo di contare, basato sulle nove cifre che lui definiva indiane, ovvero i nostri attuali numeri arabi, unite a quel concetto che contiene tutti gli altri, il vuoto assoluto dello zephirus, lo zero. Da cui tutto viene ed a cui torna, prima o poi? Ecco, non è facile da definire. Tutto dipende dalla concezione di partenza, l’unica possibile disquisizione: ovvero, se ci fosse quella mano immisurabile, una mente e l’intenzione. Che l’universo sia creato, oppure solamente derivato da un qualcosa di automatico ed ineluttabile, come la caduta giù da un’albero, di un pomo rosso e saporito (diceva bene Newton, yum). Osservazione empirica: ciò che avviene è chiaro all’apparenza. Ma i limitati sensi dell’uomo, fin dall’Epoca Classica, ne rendevano impossibile la vera comprensione. Tale metodo di ricerca basato sul sostegno tecnologico, formalizzatosi in Inghilterra nel 1600, grazie all’opera di alcune grandi menti, era già alla base di un metodo pre-esistente, se non proprio scientifico, quanto meno valido a capire. Ciò è chiaro dalla sequenza in questione, detta dal nome del suo creatore per l’appunto, di Fibonacci. La costituzione di un’ipotesi perfetta: si disponga di una coppia di conigli appena nati. Questa coppia, fertile dopo il primo mese, generi una nuova coppia entro 30 giorni dalla sopraggiunta possibilità. La nuova coppia di candidi batuffoli, a sua volta, si comporti nello stesso modo. Passino gli anni ed ora via, tempo di contare (le coppie): una e poi di nuovo una, perché l’altra non è ancora fertile, quindi 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377 […] tendente all’infinito ed oltre. Dal che si trae la conclusione, oltre che del come i roditori siano destinati a controllare il mondo, di una tendenza all’aumento progressivo delle nascite, a partire dalla relativa ragionevolezza delle prime moltiplicazioni. L’aspetto interessante di questa serie è il rapporto ben preciso che la caratterizza, ovvero un ripetuto phi=1,618. Che si può ritrovare nella crescita di molte cose. È particolarmente facile notare tale numero nelle misure di un carciofo e del broccolo romanesco, come pure in ogni sorta di spirale naturale, come quelle delle conchiglie, in piccolo, o dei cicloni tropicali, nel macroscopico più distruttivo. Ma che sussiste talvolta addirittura nei rapporti tra le sostanze chimiche, negli spettrogrammi degli spazi interstellari e perché no, nelle sculture rotative di John Edmark.

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Come, perché complicarsi il cubo di Rubik?

Cubefly

Senza rete, senza occhiali, senza piedi né pedali. Senza guardare. Senza toccare. Senza luce, tempo, spazio e spazio-tempo, metaforicamente ormai privati del principio generativo primo (l’Alfa) e del finale apocalittico (l’Omega) resteranno sublimati gli uomini di solida volontà. Per essere rapiti, da un vento intriso ed improvviso, trascinati fino in paradiso? Nossignore, Platone. Salva Nos-signore; giù nel mare delle cose, tra il flusso nevrotico dei gesti, esiste un’unica complessa soluzione che ha 54 facce differenti, ma diversi modi di arrivarci. Conoscerli richiede due strumenti contrapposti, stretti e lunghi, affusolati. Piante lunghe nel giardino delle dita, mani destre oppur sinistre per gestire, quando serve, l’ardua progressione di…
Quanto fa 3x3x3 in un cubo? La risposta non è 18, né 18.000 e perché mai dovrebbe, bensì 43 miliardi di miliardi di combinazioni. Ce n’è un numero maggiore, in un singolo giocattolo ungherese dell’omonimo inventore, dei granelli nella spiaggia di Alpha Centauri IV, diciamo lunga quanto l’equatore del pianeta intero. Se si potesse moltiplicare un Rubik di grandezza regolamentare per il numero di possibili posizioni dei suoi colorati componenti, se ne potrebbe ricoprire l’intero globo terrestre, con 275 strati sovrapposti. Questa è la natura della sua casualità. Eppure ci sono persone coraggiose, giorno dopo giorno, che lo affrontano a viso aperto, con le doti e il desiderio di riuscire nell’operazione: gira e rigira, volta una faccia, giungi all’epica figura. Di un’esistenza geometrica perfetta, in cui ciascuna delle facce rilevanti, sia del preciso sapore: fragola, banana, menta, arancia, melone e azzuro (yum, azzurro!) E nulla d’altro chiaramente, niente più di quello. Non è fantastico come il cervello umano affronta le ardue situazioni? Piuttosto che esaminare e progettare la sequenza di mosse che portano alla soluzione, tanto maggiori di quelle possibili in una partita a scacchi, a dama o addirittura a Go, il giocatore può procedere per tentativi. Del resto; l’unico avversario ufficialmente riconosciuto nella pratica del cubo di Rubik resta, per purissima convenzione, il più vasto ed incorporeo dei titani: Chronos, la lancetta dei minuti. Che talvolta, tanto è brava certa gente dall’impostazione iper-professionale, si trasforma in quella dei secondi, o dei minuti dei secondi e ancora meno, l’unica capace di distinguere tra chi ci mette: un lampo, un lampo e mezzo, mezzo fulmine col botto. Se ci provi non è facile, ma se resti lì a guardare, una sola conclusione: impossibile, inumano. Non ci capisco nulla e poi: “Perché dovrei provare!” prosegui un po’ piccato: “Sono un genio sregolato che ha saggezza e non si applica, io. Persino laureato (*sic. laureando)” Che la Sapienza, venga a me – o un qualsivoglia altro tipo di istituzione universitaria, preferibilmente superiore, come questa in cui si svolge chiaramente la stupefacente scena, tra i ridenti prati del tipico campus dei brusii: ecco Ravi Fernando, giocoliere rinomato, che non usa palle ma…

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