L’impianto che trasforma in elettricità la forza delle onde

Wave Energy

Due grandi boe gialle galleggiano nel porto di Pecém nella regione di Ceàra, vicino a Fortaleza do Brazil. Non per segnalare una scogliera, né come semplice decorazione. Ma per lo scopo tecnologico più importante e imprescindibile di tutti quanti: trasformare l’energia non misurabile in qualche cosa di davvero utile, questa ronzante, corposa e splendida elettricità. Una lampadina, in fondo, è più che una semplice idea; rappresenta, piuttosto, il simbolo di una qualsiasi Idea. La spinta ingegneristica al miglioramento, il desiderio di arrecare luce lì dentro e sotto i letti, dove la tenebra distende i suoi tentacoli d’inedia e decadenza. Ed accenderla vuol dire sacrifici. Avete mai visto un giacimento di petrolio? Ettolitri di fluido nero e maleodorante, frutto della decomposizione vegetale. Le cosiddette “risorse del pianeta” non sono preziose in senso innato o sacrosante nell’aspetto, bensì uno scarto, l’esatto opposto delle cose degne o meritevoli di essere preservate. Uranio e torio, a loro volta, i minerali usati come pietra focaia di reazioni nucleari, altro non sono che un veleno fattosi materia inerte, la cui mezza-vita è un lungo periodo d’orrida disgregazione radioattiva, con nefaste conseguenze per gli astanti o chicchessia si trovi lì vicino. Eppure, fin dall’epoca moderna, occorre ricercare tali orrori e molti altri, per bruciarli nel profondo di fornaci chiarificatrici. Altrimenti, addio rasoio elettrico! Niente pile per Gameboy! È questo il paradosso che contrasta la comune ecologia, un pericoloso pensiero, conduttore al tempo stesso di salvezza, del suo opposto, ovvero: questo pianeta, se lasciato a se stesso, sopravviverebbe assieme a noi. Si, ma come? E siamo davvero sicuri che l’influenza dell’uomo, un gran riciclatore delle cose prive di significato, sia un male incurabile dei princìpi naturali…
Questo nuovo approccio color-banana alla generazione d’energia pulita e rinnovabile, frutto della collaborazione fra l’ente con partecipazioni statali COPPE e la compagnia privata Tractebel Energy, con un forte investimento dell’amministrazione regionale di Cearà, pone il Brasile nel gruppo estremamente ristretto dei paesi dotati di un’installazione energetica basata sul moto ondoso, assieme agli Stati Uniti, l’Australia e poi Svezia, Finlandia, Danimarca… Perfettamente chiaro: come per il classico mulino a vento, la collocazione degli impianti necessari per incanalare il ritmo degli elementi richiede, inevitabilmente, caratteristiche ambientali idonee al ripetersi frequente della condizione di partenza. E niente è più prevedibile, furioso, potenzialmente pericoloso, che l’abbattersi ondoso sulle coste dei due maggiori oceani della Terra.
L’energia elettrica, nella sua forma più diffusa e funzionale per la società, è sempre frutto della trasduzione di un lavoro meccanico, o per usare altri termini, la conseguenza di una forza su di un corpo in grado di trasformarla con il magnetismo. Sarebbe questo il concetto originario del disco di Faraday, applicato in serie e con diverse proporzioni. Ma pur sempre quell’irrinunciabile costante: il moto rotativo. E se osservate il classico grafico della posizione di una particella su di un moto ondoso, è presto chiaro: quella disegna, con precisione potenzialmente geometrica (dipende dall’intento) un susseguirsi di spirali. Guarda caso, esattamente come il frullatore collegato alla sua spina dentro casa! Quale significativa suggestione di mimési…

Leggi tutto

Pecorelle costruite senza il filo da cucito

Felt Sheep

Naturalmente il 2015 è l’anno della pecora e dunque non c’è niente di meglio, per finire il mese di Gennaio, che introdurre dentro casa propria un esemplare o tre di quelle classica tipologia di ruminante. Che non sarà buona da mangiare quanto il maiale né la mucca, ma del resto ha un ottimo vantaggio funzionale: può fornire quella lana, tutta quella lana calda e morbida e piacevole da includere nel proprio abbigliamento. Basta un prato ed una stalla, basta avere tempo per giocarci e fargli compagnia. Fino al giorno della tosatura. Svegliarsi una mattina, con l’uovo di gallina e un po’ di latte nella tazza, le forbici ed i ferri da cucito già perfettamente pronti ed affilati perché oggi, magari, un golf. Domani certamente il mondo (*del commercio digitalizzato grazie ad Etsy, Pinterest e tutti gli altri). Una pecora è un investimento, come l’assicurazione. Né si può soprassedere, del resto, sulla limpida soddisfazione di riuscire a far le cose da se; come i praticanti dell’antica arte dell’autosufficienza, per cui nulla importa, tranne il Sole, il mare, l’animale.  Il fiore, l’ago, il muro, il pane, il copricapo e lei, la pecora. Naturalmente. Calda, candida botte di vino.
Ma c’è un approccio nello specifico, quello praticato dalla scaltra ed abile creativa Maqaroon, al secolo Joanna Zhou, che potrebbe risultare maggiormente attraente agli aspiranti allevatori di Merino, Lacaune o similari; ha qualcosa a che vedere nella soluzione scelta per l’approccio produttivo, con le pratiche esteriori del Voodoo. In quanto consiste nell’approccio per creare in un effige l’animale in questione, usando il materiale frutto concettualmente imprescindibile di quella stessa creaturina: lana ben cardata, tutta aggrovigliata o per usare un termine dalla maggiore concisione, feltro, panno mobido e follato. Che non è proprio un tessuto e di sicuro non potevi trarne un pezzo d’abbigliamento, ma presenta i bei vantaggi di essere piuttosto malleabile, di riuscire a mantenere la sua forma. E soprattutto, di avere fibre tanto larghe da poter incorporare gli altri lembi di se stesso.
Così nasce questa idea piuttosto divertente, forse del tutto nuova (non saprei) per cui la praticante si procura una ricca serie di battufoli piuttosto colorati, li appallottola con cura, poi li unisce ed ecco come. Pugnalate, pungolate, infiocinate, l’una dopo l’altra e reiterate, lungo i punti maggiormente utili allo scopo. Finché alla fine, mirabile a vedersi, il tutto regge e resta insieme. È una forma di lavorazione tessile che sfiora il concetto della piccola scultura, eppure è semplice, nei suoi principi. Forse l’esempio più valido, proprio perché accessibile, resta questo delle tre pecorelle sovrapposte con il frutto sulla testa, che riprendono la forma del kagami-mochi, un popolare dolcetto giapponese per il nuovo anno, fatto con l’impasto di riso pressato, la cui duplice forma sferoidale rappresenterebbe, per la tradizione, l’incedere delle generazioni. Così, signora mia. Una pecora dopo l’altra, si perpetra la sequenza, direttamente dal prato, al consumatore, alla mensola della cucina. Dove alberga il sentimento di un secondo pupazzetto, parimenti rilevante alla gustosa situazione…

Leggi tutto

Che ne sarebbe del nostro pianeta con un Sole differente

Stars exchange

Fra milioni di stelle così disordinatamente sparse per il cielo, abbiamo scelto proprio te: gialla e tonda (perché addirittura quello, non era affatto garantito) calda e grossa, esattamente il giusto. Se il tuo contenuto d’idrogeno fosse stato lievemente maggiore, se la tua corona solamente un po’ più turbolenta, se il velo ionico della magnetosfera non riuscisse tanto bene nel fermare quelle radiazioni attanaglianti… La vita sulla Terra, per come la conosciamo, non esisterebbe affatto. Eppure? C’è chi porta un simile ragionamento alle sue estreme conseguenze. Avete mai sentito l’espressione: “Se l’orbita del nostro pianeta fosse stata di appena 2 (quattro, sei…) Metri più ampia, saremmo tutti congelati nel vuoto cosmico dell’oblio; nel caso esattamente contrario, il fuoco purificatore ci avrebbe cotto in due minuti al massimo… (Eh no, salire sopra una scaletta non è AFFATTO la stessa cosa!)” Ecco, benché tale idea sia piuttosto diffusa nel senso comune ed apparentemente priva di connotazioni problematiche, si tratta di una presa di posizione estremamente ben schierata. Significa, a conti fatti, voler credere che siamo pressoché soli nell’Universo, e che l’umanità sia il frutto di una condizione sacra e irripetibile, monotipica e monoteista. Quando invece per chi ha voglia di guardare, là sopra l’orizzonte c’è davvero spazio per chiunque: basta puntare un comune telescopio verso l’alto, in una notte senza troppa Luna, riflettori o fuochi d’artificio, per scrutare in lontananza tanti e tali grandi padri, ciascuno frutto di un miracolo diverso. Grandi e luminosi, oppure piccoli ed appena definiti, gialli, azzurri, nebulosi. Milioni di scintille sopra il mare di velluto nero, ciascuna potenziale conduttrice di un antico sentimento, la religione e il culto d’inimmaginabili consorzi dei viventi. L’abbiamo visto succedere, persino qui da noi: gli Aztechi che uccidevano il gran sacerdote per il sopraggiungere di un eclisse; i servi del faraone che lo seguivano fin dentro la sua tomba, poiché egli era il figlio di Ra, personificazione di quel colossale fuoco. Difficile non adorarlo fino alla follia, un tale oggetto sconfinato. Il più vasto ed influente che sia posto a meno di un paio d’anni luce dal nostro lungo esperimento di diversa civilizzazione. Si, ma diversa da cosa?
Così un giorno, quello lì ha inventato il telescopio. Scoprendo gradualmente, assieme ai suoi immediati successori, che non siamo speciali. Che di Soli come questo, ce ne sono due milioni di migliaia e di miliardi ancora, esattamente uguali e non è neanche questo il peggio: una buona parte di essi, tanto spesso, è addirittura più imponente e luminosa. Siamo, per così dire, nella media. Prigionieri della nostra convinzione, dunque tanto eternamente affetti da un complesso della solitudine per scelta. Non puoi uscire dalla media ed aspettarti di continuare indisturbato, come niente fosse, sulla stessa strada pre-esistente. A dimostrarcelo, in codesto pregno caso, sopraggiunge un video del canale russo Телестудия Роскосмоса, che ha tanto gentilmente provveduto a sostituire alla mega-palla tanto amata, in una serie di sequenze, alcune delle stelle più famose del distinto firmamento: Alpha Centauri, Sirio, Arturo e quella grossa prima donna, detta dagli amici la Polare. Il risultato è filosoficamente rilevante, il che è strano, soprattutto vista la semplicità dell’idea di partenza. Ma il risultato è pure…Preoccupante.

Leggi tutto

Colpisce una freccia in volo e la divide in due

Lars Andersen

Quest’uomo è Lars Andersen. Lars Andersen può lanciare lanciare dieci strali prima che uno solo tocchi terra, come sapeva fare solo il capo Hiawatha, fondatore della confederazione degli Irochesi. Ma lui è Lars Andersen. Che quindi salta verso il ramo alto dentro il quale la penultima di quelle frecce si era conficcata, per raccoglierla e scagliarla anch’essa contro l’obiettivo. Tutto, nel compiersi di un solo fluido movimento. Robin Hood pensava di essere il migliore degli arcieri. Quell’allegro ladro si sbagliava e come lui lo svelto Guglielmo Tell. Perché non conoscevano, Lars Andersen. L’artista e studioso danese, che da qualche anno spara dardi a tutte le distanze, con vari metodi e nelle più diverse situazioni, verso l’obiettivo di veder segnato il proprio nome negli annali de…Lo sport? Il cinema? La guerra riportata nello stato primigénio? Difficile capirlo, per lo meno basandosi soltanto sull’ultimo trailer, narrato e montato come un segmento pseudo-catastrofista dell’History Channel, quel caravanserraglio digitalizzato in cui spesso l’archeologia sperimentale diventa l’approssimazione di un’orribile battaglia, con tanto di sangue finto e manichini tagliuzzati. Qui, fortunato sia il buon gusto, ci si limita a bersagli bidimensionali, pur se semoventi. Però! Non manca invece nulla del resto, neanche l’irrinunciabile voce robotica e spietata, qui fornita dall’amico Claus Raasted, doverosamente citato nei brevi, ma intensi titoli di coda con l’appellativo di SPEAK. E non poteva essere altrimenti. Questo susseguirsi di scene tende a far perdere il fiato e la concentrazione (addirittura, il supporto tecnico riceve la firma vagamente sconcertante di Incompe-tech). Pare quasi di assistere, grazie a validi artifici situazionali ma sopratutto per l’innegabile capacità di lui, ai primi timidi passi di un supereroe.
È innegabile che lo spunto di partenza sia piuttosto originale: vengono mostrati, nel giro di 10 secondi, alcuni geroglifici egizi non meglio definiti, un bassorilievo assiro di “almeno 5.000 anni fa” e la copertina di un famoso testo del tardo periodo medievale, ad opera dell’arciere-filosofo Nabih Amin Faris: Il libro sull’eccellenza dell’arco e delle frecce (a cui spesso ci si riferisce con il telegrafico titolo in inglese di Arab Archery) ciascuno conduttivo ad una particolare visione della tecnica di combattimento a distanza più antica, nonché culturalmente nobile, nella storia di ciascuna civiltà. Ovvero: quantità, prima che precisione. Il che parte da un presupposto molto valido, a pensarci. Sui campi di battaglia del contesto pre-moderno, perché a tali dichiaratamente lui s’ispira e non certo a Orione o Diana, ciò che contava maggiormente non sarebbe mai stato: la percentuale dei colpi portati a segno rispetto a quelli scagliati, oppure l’avvicinarsi con la punta acuminata ad un pallino rosso ed arbitrario; bensì fermare, il nemico. Ad ogni costo e con qualsiasi metodo a disposizione.
Nel concepire il combattimento all’arma bianca, il senso comune dispone di strumenti maggiormente validi alla comprensione: immaginiamo un moderno sportivo armato di fioretto, pur se agile e veloce, contro un vichingo in cotta di maglia che brandisce in una mano l’imponente brando della scuola runica di ULFBERHT, due spanne d’ampiezza ed una lama lunga a doppio taglio, nell’altra l’ampio scudo ligneo simbolo della categoria. Benché possano sorgere dubbi sull’effettivo vincitore del confronto, ciò anche in funzione dell’abilità dei contendenti, è indubbio che la vecchia maniera presenti alcuni vantaggi particolarmente significativi. Perché, dunque, non pensiamo in questi termini dell’arco? Chi ha detto, come vuole lo stereotipo, che i più leggendari praticanti dei secoli trascorsi fossero paragonabili, per precisione, ai campioni olimpionici di oggi, per di più senza l’uso di mirini, corde nanotecnologiche o vistosi contrappesi…Di doti, assai probabilmente, ne avevano parecchie; ma erano diverse!

Leggi tutto