Casa, mostri e meraviglie dell’artista che credeva nel libero arbitrio

Essere o avere? Credere o pensare? Vivere… O immaginare? Scelte inconcludenti quando il sentimento riesce a prendere il controllo della narrativa, ovvero il filo conduttore che determina la progressione funzionale delle idee. È forse proprio questa la ragione per cui l’arte costituisce, nell’immaginazione di molti, l’abbandono della razionalità e l’ingresso tra le forme che delimitano zone contrapposte alla coscienza. E regni magniloquenti, proprio perché spiegano in maniera estesa le impreviste alterazioni del rapporto tra causa ed effetto. Ma per ogni spazio fuori dallo scibile, occorre un guardiano. Il Cerbero massiccio delle circostanze ovvero, in altri termini, il dragone. Una creatura dalla bocca spalancata ed occhi attenti, artigli usati per sorreggere il supremo simbolo del suo potere, come avviene per il Lóng dell’Asia Orientale. O per meglio dire in questo caso, due di questi oggetti: il dado bianco e quello nero. Poiché pur non costituendo un demone, la statua più famosa del Musée Robert-Tatin dedica il proprio compito alla protezione di ogni cosa buona. E ciascun principio opposto, affine al male. Questa era la vita e la profonda verità di un uomo, colui che ha dato il nome a questo luogo mentre si trovava ancora in vita. Avendo percepito l’effettiva possibilità di un lascito, un’eredità per noialtri e tutti quelli che volessero incontrare la sua personale concezione del gesto d’artista. Così come si giunse ad inserirlo, grazie ai critici, tra il novero dei massimi esponenti della corrente naïf, dedicata all’espressione spontanea e senza filtri di una specifica visione del mondo. Laddove Tatin non si considerò mai parte di alcun movimento e d’altra parte, basta approfondirne brevemente la vicenda biografica per comprenderne a pieno titolo l’effettiva ragione. Molti anni prima che si stabilisse nella villa della Loira che attualmente porta il suo nome, l’autore nacque dunque nel 1902 a Laval, da una famiglia per lo più composta di donne e il padre allestitore di fiere circensi in giro per l’intero paese. Così trasferitosi a Parigi nel 1918, fece molti lavori mentre studiava alla Scuola delle Belle Arti disegno e pittura, prima di prestare il servizio militare a Chartres. Sposato con la prima moglie a due anni di distanza, egli avrebbe dunque costituito un’impresa di costruzioni dal notevole successo, che continuò a costituire la sua principale occupazione per tutta la decade degli anni ’30. Prima d’intraprendere una serie di viaggi tra Europa, Africa e Nordamerica, appena prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale relegandolo a ruolo di geniere sul fronte della linea Maginot. Non è dunque del tutto impossibile pensare che sarebbe stata, fondamentalmente, proprio tale esperienza a cambiarlo…

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Metallo che ruggisce tra i radiocomandi nati sotto il segno del cataclisma

L’arte all’epoca di Internet non ha le regole e non ha la progressione tipica di alcun ambito accademico o struttura formalmente incaricata di commentarla. Il che significa, in parole povere, che l’iniziativa autogestita di un appassionato può vantare esattamente lo stesso potere mediatico del pluripremiato rappresentante di una scuola o discendenza professionalmente affermata, grazie al plebiscito popolare, idealmente autonomo, dei suoi lavori giudicati degni dalle moltitudini indivise. Un processo con diversi aspetti negativi, vedi il modo in cui preclude un piedistallo a chi persegua metodi o messaggi non del tutto palesi; ma garantisce, se non altro, la maggiore visibilità di colui o coloro che dimostrano capacità tecniche, in determinati ambiti, al di sopra della media umana. Settori presumibilmente inesplorati in precedenza dal senso comune, come quello di creare automobili o motociclette con radiocomando che ospitano veri e propri animatronic esuberanti, autonomi, vivaci nelle presumibili aspirazioni ed espressioni evidenti. Rappresentazioni fuoriuscite dalla mente di un creativo come l’australiano Danny Huynh, famoso ormai da 10 anni per la propria interpretazione estremamente personale di cosa possa rappresentare un mezzo di trasporto in scala, completato da piloti tanto riconoscibili quanto stupefacenti, nel nuovo e incomparabile contesto d’appartenenza. Così emerge per esempio, verso l’inizio dello scorso mese, la sua ultima creazione di una hot-rod con il motore esposto e la carlinga a forma di sigaro, ove campeggia prepotente la Union Jack, ai cui comandi appare il personaggio e macabra mascotte del gruppo inglese degli Iron Maiden, Eddie the Head, con cappello e occhiali da aviatore, quella che sembra una tuta di volo strappata in più punti. E alle sue spalle, schiena contro schiena, il “gemello” con un grosso sigaro stretto in bocca, intento ad armeggiare con una mitragliatrice a canne rotanti. Il che sarebbe già abbastanza notevole, anche senza prendere atto di come i due si muovano in modo realistico, inclinandosi nelle curve del breve video dimostrativo, puntando in giro l’arma mentre i cilindri rotativi del motore esposto paiono imitare la doppia elica di un ipotetico Avro Lancaster o la mitica fortezza volante B-17. Espressione, se vogliamo, maggiormente valida della rule of cool, potente linea guida del mondo immaginifico contemporaneo, ove dovrebbe essere l’innato senso della meraviglia e iniziativa immaginifica del fruitore, a crearne conseguentemente un contesto. Approccio, quest’ultimo, davvero molto valido a comprendere il potere comunicativo delle opere di un tanto eclettico autore, sia magnifiche che terribili, al tempo stesso impressionanti e volutamente rimediate nel proprio aspetto derelitto e “vissuto”…

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L’esercito dei graffitari di Los Angeles contro le svettanti torri del silenzio californiane

Una macchina perfettamente collaudata in cui ogni persona, ciascuna singola norma, le diverse cognizioni di contesto tendono a collaborare nell’ottenimento di un risultato duraturo e importante. Questo può costituire, in un certo senso, l’amministrazione di un grande centro urbano come la seconda città più popolosa degli Stati Uniti con una popolazione quasi equivalente a quella di Roma, sommata a Milano. Così è quasi sempre con le migliori intenzioni che una di quelle entità tentacolari, spesso multinazionali e in grado di contribuire con un nuovo grattacielo ai mari tempestosi di vetro e cemento aprono i propri cantieri di fronte al pubblico non propriamente interpellato degli abitanti. E se le cose prendono una piega inaspettata, allora cosa? Dinosauri senza una voce giacciono incompleti eternamente, finché il tempo e l’incuria, nel punto di svolta fatale che costituisce un danno per l’immagine e il decoro, non determinano l’esigenza di tornare ad uno stato di grazia? Certo, in periferia. Diverso il caso in cui ciò tenda a concretizzarsi dall’altro lato della strada di una delle arene e palazzetti dello sport più famosi del paese. Tra proprietà immobiliari e terreni dal valore spropositati che rientrano nella particolare sfera del DTLA (il Centro). Un luogo in cui determinati tipi d’ingiustizie, che si tratti d’abusi o soprusi, tendono a venire presi in mano dalla pubblica opinione. Perché possano, se vogliamo, “risolversi” da soli.
La situazione ha cominciato dunque a palesarsi, degenerando progressivamente, con data di partenza nei primi giorni di questo febbraio 2024 sulle alte pareti della Oceanwide Plaza, il cantiere lungamente abbandonato di un gruppo di condomini da 504 unità residenziali + un albergo con 184 stanze. Ormai diventato una vista familiare per la gente di qui, nell’attuale stato derelitto e dolorosamente aperto alle intemperie del mondo. Finché coloro che passavano lungo l’arteria stradale spaziosa e rapida di Figueroa Street, scrutando casualmente verso l’alto, iniziarono a scorgere qualcosa di non totalmente inaspettato. Qualche tag variopinta, le tipiche firme abusivamente prodotte dei cosiddetti artisti di strada, moderni guerriglieri fuorilegge e fuori dall’ordine costituito, latori di proteste de facto nonché considerati con valide ragioni degli avversari della pace laboriosamente acquisita. Quindi altre che continuavano ad aggiungersi, finché quasi ciascuno dei 49 piani della torre più alta, ben presto seguita dalle sue vicine, non hanno continuato la propria rapida ed inusitata trasformazione in un museo verticale all’aperto. Haarko, Shaak, Rakm, Naks, Tolt, Tonak e via di seguito, uno per ciascun piano, si erano premurati di marchiare il territorio derelitto a nome proprio e degli altri, facendosi i palesi portavoce di un possibile intento di ribellione comunitaria. Giustizia… Era stata fatta? Beh, dipende in larga parte da quale sia la vostra esatta cognizione in materia…

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Strani ponti e l’oblunga interazione paesaggistica del museo fluttuante

“Ho camminato sulle acque immaginando un mondo in cui uomo e natura possano coesistere in modo pacifico, lasciandomi alle spalle le ingombranti implicazioni della società moderna.” È il tipo di asserzioni che potrebbe assecondare, nel giusto stato d’animo, lo Zai Shui Meshuguan 在水美術館 (Museo dell’Arte dell’Acqua) recentemente inaugurato nel bel mezzo di un lago artificiale presso la città di Rizhao, nella provincia dello Shandong. Con l’aiuto di un architetto che rientra a pieno titolo tra i principali specialisti del suo ambito, nel tradurre il linguaggio abitativo riuscendo ad inserirlo in un contesto pre-esistente, talvolta, persino all’esistenza dell’uomo stesso. Qualcosa che qui Jun’ya Ishigami, lavorando come scultore ancor prima che architetto, sembrerebbe aver perseguito mediante il più eclettico ed inaspettato degli approcci: costruendo una lunga linea grigia dell’estensione di un chilometro, caratterizzata da una sottile striscia di cemento in qualità di tetto. Per uno spazio utilizzabile all’interno di 20.000 metri quadrati, con una larghezza media di 10 metri e senza mai superare i 20. Ciò affinché la città committente, come si confà al nuovo ruolo di centro culturale regionale, possa beneficiare di uno spazio utile per mostre d’arte, esposizioni ed eventi. La cui diretta sperimentazione già costituisca, in modo atipico nonché desiderabile, una via d’introduzione alternativa al tema. Quello stesso discorso inseguito, in molte maniere parallele, da una parte significativa dell’architettura sostenibile contemporanea, benché si tratti molto spesso di una conseguenza di fattori superficiali, motivati dal desiderio di ottenere certificazioni e riconoscimenti. Laddove l’eventualità che si possa nel presente caso essere giunti a tanto appare arbitrariamente subordinata, persino secondaria alla necessità di realizzare un tutt’uno coerente. L’effettivo luogo di transito tra l’esistenza tangibile di un monumento, e l’inconscio. La caratterizzazione, in altri termini, di un percorso meditativo in cui l’acqua viene lasciata compenetrare liberamente in mezzo ad una letterale foresta di 300 colonne metalliche, il cui ripetersi è stato previsto come irregolare, possibilmente al fine d’esemplificare l’imprevedibile progressione dei processi inerenti. Gli stessi responsabili di aver creato, come sfondo, le iconiche montagne di Wulian e Fulai, assieme al resto di quella catena elegantemente ripresa dall’ondulatorio andamento del museo lineare. Il cui ingegno procedurale, ed utili implicazioni funzionali, non si esauriscono senz’altro in questo…

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