Droni sorvolano cattedrali nel deserto

Burning Man Drone

Entrino i robot volanti, dotati di telecamera, celebrità virtuali dei canali dell’intrattenimento on-demand. Droni, silenziosi testimoni dell’umana follia. Questa momento, fra tutti, andava registrato. E per fortuna così è avvenuto. Sopra un letto di sale, sotto un cielo di stelle, fra agosto e settembre e nel pieno mezzo degli Stati Uniti c’è da sempre un titano che brucia. Con lui brucia un tempio. E dopo che sono stati tutti e due ridotti in cenere, stranamente, vengono ricostruiti per l’anno seguente, da molti anni a questa parte. Per assistere all’evento, si fonda tempestivamente una città, con decine di migliaia di abitanti. Si costruiscono fantasiose opere d’arte, le automobili diventano mostri, si balla, si gioca e si canta. Pochi giorni dopo, come per l’intervento di una forza misteriosa, fra quelle scure, rocciose montagne resta soltanto la desolazione. Sarebbe poi quella, terribile, del deserto di Black Rock, formatasi durante l’ultima era glaciale, famoso per la sua vasta playa, l’ultima testimonianza dell’antichissimo lago Lahontan. Volle il destino che di una simile polla pleistocenica, sparita per l’effetto di possenti mutamenti climatici, restasse soltanto il sale. Volle invece l’uomo, in tempi assai più recenti, che qui si facesse baldoria. Il nome della festa è The Burning Man e si tratta di un evento ormai quasi leggendario, nato più di venti anni fa come rito moderno del solstizio d’estate, dapprima grazie all’idea di un gruppo d’amici, tutti originari della città di San Francisco. Qualcuno, ingenuamente, potrebbe definirli gli ultimi depositari della cultura hippie, gli eredi della torcia di Woodstock. E in effetti ci sono dei punti di contatto, come il rifiuto del denaro, subordinato al baratto o allo scambio di doni, nonché la libertà di essere nudi e ricercare l’incontro tra i sessi. Il festival, tuttavia, si basa su una serie di princìpi più moderni, come l’autosufficienza radicale, la responsabilità civile e l’ecologia, particolarmente sentiti dagli organizzatori e da una buona parte degli eterogenei partecipanti…Però il punto più interessante sarebbe un altro, almeno secondo me. Il celebre statuto T.B.M, fatto di 10 regole, non assomiglia per niente a un manifesto infiammatorio, quanto piuttosto ad un prontuario d’interazione sociale. “Così ci si comporta qui, a Black Rock City, fra agosto e settembre” Sembra dire. E basta. Una volta tornati stanziali, nelle vostre solide città di cemento, portate con voi un ricordo di questi giorni. Ma non cercate di cambiare il mondo. E proprio in tale ragionevolezza d’intenti, in un certo senso, si può identificare la forza di questo durevole movimento.

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Il motore V12 più eccentrico del mondo

V12Laraki
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Frutto di nove mesi di lavoro, questa scultura di Eric Van Hove costituisce la puntuale ricostruzione di un motore Mercedes V12, più precisamente quello montato sulla prima auto sportiva nordafricana, la Fulgura di Laraki Borac, rarissima supercar dell’omonima compagnia, prodotta soltanto in numero limitato e a partire dal 2005. Facendo scontrare i presupposti dell’ingegneria moderna con l’arte di culture ed epoche lontane, il creatore ha dapprima smontato il cuore pulsante del veicolo, suddividendolo in 465 pezzi, bulloni non inclusi, per poi coinvolgere 35 sapienti artigiani del Marocco che, impiegando materiali tradizionali, hanno puntualmente fornito delle copie esatte di ciascun componente. Metalli istoriati, ossa d’animali, legno d’ebano, madreperla, corno, marmi preziosi e molto altro. Ciascun singolo pezzo parrebbe già di per se adatto all’esposizione in un museo. Messi tutti assieme, costituiscono qualcosa di veramente originale, se non proprio velocissimo. L’obiettivo, ovviamente, non era la creazione di un dispositivo realmente funzionale, quanto il rendere omaggio a un sogno incompleto, il concetto di quel mezzo marocchino d’ultra-lusso, completato soltanto grazie al sostegno di tecnologia motoristica d’importazione. La globalizzazione dei mercati, nonché il naturale funzionamento dell’economia di scala, hanno ridotto l’importanza del singolo in tutte le branche della creatività, incluso il design automobilistico. I mecenati dei nostri tempi, investendo in costosissimi capolavori a quattro ruote, contribuiscono all’esistenza di compagnie relativamente piccole, comunque produttrici di mezzi straordinari: Tesla Motors, Koenigsegg, Ariel, Pagani, Saleen… Ciascuna di esse associata, nei fatti, ad uno, massimo due modelli e con qualche doppia dozzina di addetti alla produzione. Eppure, nonostante questo, diventano il bersaglio elettivo di centinaia di ordini annuali, con liste d’attesa interminabili e l’acquisizione istantanea di una grande fama internazionale. È ormai letteralmente impossibile fare tutto da soli: come ampiamente dimostrato dalla Laraki, speso serve coinvolgere delle valide terze parti. La risposta di Eric Van Hove, questo motore da sogno ricostruito a mano, arriva in effetti ad una domanda che nessuno si era mai posto: e se invece di guardare innanzi, si mettesse la retromarcia? Nell’epoca del Rinascimento, le opere d’arte non avevano ruote, sedili o volanti. Però si vendevano lo stesso, eccome!

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iPhone guerrieri contro i folli eroi dell’ukiyo-e

Edo Superstar

L’eterna discussione in merito al fatto che i videogiochi siano definibili “arte” è tanto sterile quanto priva di significato. Tutto può esserlo, oppure niente lo è. Il treno in corsa che fuoriusciva dal cinematografo dei primi del ‘900, spaventando il pubblico che temeva di restarne investito, era certamente un valido strumento per guadagnare qualche soldo, niente a che vedere con le creazioni senza tempo di Ejzenštejn, Kurosawa o Stanley Kubrick. Eppure qualcuno ci aveva pensato. Prendendo la sua cinepresa, mezzo tecnologico senza precedenti, l’aveva portata sui binari e si era applicato a fondo, realizzando un’idea. Ed altri, vedendone il risultato, restarono colpiti. Il gesto che produce un pensiero incorpora sempre un qualche tipo di merito ulteriore, sia questo minimo oppure più significativo, persino epocale. Le xilografie giapponesi del periodo Tokugawa (1603-1868) non erano in alcuna misura percepite come un qualcosa di prezioso, destinato ad influenzare la pittura di mezza Europa e in seguito la grafica contemporanea del mondo intero. Spesso, soprattutto agli inizi di questa particolare forma espressiva, venivano impiegate come prototipo del moderno volantino pubblicitario, realizzate in grande quantità per uno spettacolo teatrale, affisse sulle pareti degli edifici e poi gettate via, senza spenderci un pensiero. L’Olanda le ricevette, casualmente, come carta da pacchi per le ceramiche o spezie d’Oriente. A casa di Van Gogh, guarda caso, non mancava mai il wasabi. Queste stampe bistrattate, identificate collettivamente con il termine altamente poetico di ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante), nonché la raffinata tecnica per produrle, stanno acquisendo di questi tempi un’alta visibilità online, grazie al lavoro di Jed Henry e Dave Bull, rispettivamente la mente e il braccio di Ukiyo-e Heroes, la più eclettica compagnia nata dal crowd funding del portale web Kickstarter. Sono comparsi all’incirca l’anno scorso, realizzando la reinterpretazione in chiave tradizionale di alcuni personaggi dei videogame Nintendo, successivamente trasportati su carta mediante l’antica metodologia giapponese. E adesso, stanchi di lavorare sulle idee altrui, si sono applicati in qualcosa di completamente nuovo, un interessante gioco di botte per cellulari iOS e Android. Il suo titolo è Edo Superstar e parla di scimmie, volpi e procioni picchiatori.

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L’uomo degli scheletri fioriti

Laquieze

Molte opere d’arte possiedono un messaggio logico e manifesto, evidente al primo sguardo di chiunque cerchi di studiarle. Perché parlano un linguaggio universale, quello della bellezza, matematicamente misurabile fino al decimo dell’unità. Il gusto del mostruoso, dal canto suo, va ricercato con passione. I pochi artisti che osano intraprendere questa strada, coraggiosi sperimentalisti del mondo visuale, rispecchiano gli ambiti meno apparenti della mente, perseguono finalità misteriose. Cedric Laquieze, il giovane olandese che realizza questi romantici agglomerati d’ossa animali e materia vegetale, rientra a pieno titolo in quest’ultima categoria. Dai suoi cadaveri lussureggianti zampilla il succo di un dualismo, una contrapposizione, che ha origini tanto antiche quanto fondamentali alla comprensione della stessa storia dell’umanità. Prendete, ad esempio, la serie delle sue fate e altri esseri leggendari. Oberon, re di quel mondo, vi ricompare come coleottero lucanide dalle ali di cicala, assiso sopra un trono d’ossa di pappagallo; che fine ha fatto l’elfo sapiente della commedia shakespeariana? È ancora lì, sottilmente nascosto. La chiave per tirarlo fuori non è poi così lontana, giusto l’esatta metà di un periodo millenario.
Tutto ebbe inizio, per l’appunto, a cavallo del quinto secolo dopo Cristo. Clodione detto il Chiomato, re del popolo dei Franchi Sali, aveva una moglie, Basina, che amava farsi il bagno nelle acque gelide dei mari del Nord. Siamo nella regione corrispondente all’odierna Olanda, in prossimità della foce del Reno, sede privilegiata di draghi sputafuoco, nani nibelunghi e altre astute diavolerie fluviali. Ma lei era di origine turingia e non sapeva. Fu così che malauguratamente incontrò una bestia, anzi no, la bestea Neptuni Quinotauri similis, quel figlio di Poseidone che aveva coda di pesce, corpo di uomo, testa di toro con cinque corna tutte intorno, un’insaziabile appetito per la battaglia e… Altre cose. Brutalmente, dunque, la violentò. Da quell’innaturale unione ben presto nacquero due figli: Meroveo, il guerriero, e Alberico, lo stregone. Dal primo ebbe origine una lunga dinastia. Dal secondo la figura di Oberon, gran signore di ogni Notte di Mezza Estate.

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