Il sacro futurismo del veicolo che sperava di cambiare il senso della sicurezza stradale

Costruire un’auto di successo: quanto può essere difficile? Chiedetelo a Preston Tucker. Prima della progettazione parametrica, delle analisi di mercato, delle simulazioni computerizzate, tutto quello che serviva per varare un nuovo tipo d’assemblaggio di carrozzeria e ruote si esauriva in un’idea e un tavolo da disegno. Oltre a ingenti fondi o tempo da vendere, oppure una combinazione di entrambe le cose. Così negli anni ’50, come loro personale iniziativa di ricerca del mitico sogno americano, personaggi con i giusti presupposti scelsero di cimentarsi nella più nobile delle arti di creazione industriale. Con risultati talvolta magnifici, altre meno, talune semplicemente terribili. E poi venne, bulbosa e lucida, l’Aurora: tutte queste cose allo stesso tempo, connotate dall’intromissione della Provvidenza. Già, perché l’unico uomo al comando portava il colletto bianco e non era quello del tipico completo da lavoro: tale padre Alfred A. Juliano, entrato in seminario decenni prima e membro di una certa fama del Sacro Ordine dello Spirito Santo. Al punto da vantare una congregazione che faceva il tifo per lui, anche quando verso la metà del secolo decise di tornare ad una delle sue vecchie passioni. L’ingegneria, ovviamente, che aveva perseguito assieme alla laura in discipline artistiche, quando avrebbe potuto diventare una giovane promessa del settore automotive (si narra che in gioventù stesse per ottenere un tirocinio alla General Motors, sotto la supervisione del leggendario Harley Earl). Ma la vita è sempre incline a scegliere per molti di noi, così che egli completò gli studi ecclesiastici, indossò la tunica, guadagnò la sua congregazione a Branford, Connecticut. Finché un’abile gestione dei fondi della sua parrocchia, secondo alcuni volontariamente investiti su di lui dai fedeli, nell’opinione di altri sottratti in maniera non propriamente legittima, gli permise d’investire progressivamente in qualcosa che, a suo avviso, avrebbe aggiunto un valore positivo alla moderna civiltà dei trasporti. Costruita in mesi di lavoro nel suo garage, adattando una struttura in fibra di vetro e plastica al telaio di una Buick del 1953 con perizia manuale non indifferente, il prete aveva infatti ricevuto un certo tipo di proverbiale ispirazione: che se un’automobile esteriormente accattivante, ed al tempo stesso più sicura sulla strada, avesse ricevuto un sufficiente successo sul mercato, la costante perdita di vite umane ogni anno sulle strade avrebbe certamente subito un calo. Ed al tempo stesso, altre compagnie avrebbero potuto seguirne l’esempio, giungendo a produrre un innegabile valore positivo per l’epoca presente. L’intento d’altra, per lo meno in linea di principio, avrebbe potuto essere benevolo. Ma l’impietosa linea degli eventi successivi, uno di seguito all’altro, avrebbero condotto l’encomiabile proposito alla dannazione…

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Fiero fuoco Vs l’elicottero con la proboscide che salva vite umane

Una di quattro ninfe d’acqua in abito da sposa, l’improbabile cappello di color vermiglio, con l’ornamento auricolare che ricade libero da un lato della testa rotante. Muso di zanzara che persiste roboante in mezzo ai cieli. Alte ed agili, con il velo bianco che cambia forma e lancia in ogni direzione strali di luce, mentre camminano su piedi d’aria in mezzo a braci incandescenti. Fuoco, fiamme, dannazione. L’esiziale effetto dell’incendio che percuote la collina della Capitale. In molti l’hanno visto, questo agosto, dalle finestre delle case circostanti, facendo eco alle squillanti esclamazioni della gente nota sopra il tetto della Rai di Via Teulada: “Eccolo, sta ritornando. È l’apparecchio che consegna l’ACQUA dove ne persiste il maggior bisogno…”
La presenza un tempo nota come Erickson/Sikorsky S-64 Sky Crane. Ma che alcuni, dalle nostre parti, amano chiamare per antonomasia “Nuvola Rossa”. Appellativo da nativo americano, così come quello di Orso Bruno, Cochise, Toro Seduto… Utilizzati nel corso degli anni per riferirsi ai mezzi dello stesso tipo che si sono succeduti al servizio del Corpo Forestale dello Stato prima, e successivamente al suo scioglimento nel 2016 direttamente i Vigili del Fuoco italiani. Creazioni tecnologiche in origine forgiate per assolvere ai complessi problemi logistici di un conflitto, quello della guerra del Vietnam, durante cui gli americani avevano bisogno di spostare uomini, mezzi e pezzi d’artiglieria attraverso ininterrotti territori boscosi, senza l’accenno di una strada che non fosse costantemente battuta dai temibili e agguerriti Vietcong. Oltre al bisogno ricorrente di recuperare gli aeromobili precipitati durante le loro missioni in territorio nemico, per un risparmio stimato entro il 1968 di 220 milioni di dollari complessivi, corrispondenti a 423 velivoli riportati alla base. Mansione tra le più adatte ad una “gru volante” come l’allora denominato CH-54 Tarhe, evoluzione dei precedenti esperimenti nel settore ad opera dell’azienda elicotteristica per eccellenza, con sede a Stratford, nel Connecticut, che qui aveva concentrato i margini di miglioramento più significativi frutto di un lungo processo di ricerca e sviluppo: il passaggio ad una coppia di motori a turbina alleggeriti, un sistema di livellamento per i carichi sospesi, nuovo rotore a sei pale ed un seggiolino girevole per l’assistente alle operazioni di carico/scarico, dotato di comandi che potevano assumere l’autorità di controllo temporaneo dalla postazione del pilota e copilota tradizionali. Come nelle migliori storie sul ritorno alla vita civile di un soldato stanco di combattimenti e spargimenti di sangue, tuttavia, si può affermare che sarebbe stata la versione successiva con denominazione S-64, a lasciare un’impronta maggiormente positiva nella storia contemporanea dell’aviazione, particolarmente quella concentrata sul progetto di mitigare l’agguerrito e pervicace espandersi del fuoco che ogni cosa consuma…

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L’altro F-22: ali di aquilone, prestazioni sufficienti ad inseguire l’alba del nostro presente

Il diamante disegnato sullo schermo dei radar, generalmente, non va interpretato in senso letterale. Semplice figura in un diagramma destinato a rappresentare un velivolo in avvicinamento, senza informazioni inerenti in merito alla sua direzione di spostamento, esso sottintende ali perpendicolari a una carlinga longilinea. Salvo casi limite dalla probabilità estremamente remota di presentarsi; immaginate dunque la sorpresa di un ipotetico avversario del nostro futuro presente; alle prese con un contatto destinato a rivelarsi, al suo contatto visivo, con la forma di un letterale rombo volante. E appena il tempo di pensare “UFO!” Prima di udire il suono che indica l’aggancio da parte di un radar di tracciamento per l’ingaggio ravvicinato…
La lezione che possiamo trarre dagli eventi del primo secolo dell’aviazione, nonché l’ulteriore quarto trascorso dall’inizio del secondo, è che non esiste spinta maggiore al progresso tecnologico in questo campo, che la necessità di primeggiare in un conflitto armato, sia materialmente incombente che soltanto prospettato in via teorica nelle simulazioni dei comandi maggiori. Così all’inizio degli anni ’80, con l’emersione nel teatro della guerra congelata di nuove minacce quali gli agili Mig-29 e Su-27 sovietici, l’aviazione statunitense iniziò a nutrire dubbi sulla possibilità di mantenere di un’effettiva posizione di preminenza utilizzando ciò che era, da soltanto mezza decade, il loro principale jet intercettore adibito alla superiorità aerea: l’ottimo, ma relativamente convenzionale F-15 della McDonnel Douglas. Ciò che ebbe modo di scaturirne fu il cosiddetto ATF (Advanced Tactical Fighter) uno dei progetti ingegneristici più impegnativi e costosi di tutti i tempi, da cui sarebbe scaturito l’avveniristico strumento di battaglia capace di sovvertire totalmente le proiezioni d’ipotetici duelli ad alta quota. Ma molto prima che l’iconico F-22 Raptor potesse essere prodotto in serie, un traguardo destinato ad essere raggiunto non prima del 1996, i principali fornitori delle forze armate statunitense avrebbero fornito in risposta al concorso d’appalto circa due dozzine di proposte divergenti tra loro, sostanzialmente alla convergenza di quattro qualità fondamentali: l’aereo del futuro sarebbe stato economico/rapido da produrre; capace di mantenere la velocità supersonica per lunghi periodi; dotato di un basso profilo radar; pensato per ingaggiare il nemico con missili a lungo raggio, ad altitudini e velocità elevate. In un tripudio di forme e soluzioni tecniche, entro l’ottobre del 1986, l’istituzione diventata nel frattempo nota come SPO (Systems Program Office) giunse a selezionare le due aziende finaliste sulla base di una lunga serie di fattori, ma strizzando l’occhio soprattutto all’esperienza pregressa nel cosiddetto black world, il settore dei mezzi da combattimento invisibili ai radar. Il che giunse a mettere a confronto le rispettive proposte della Lockheed e della Northrop. La prima, con l’YF-22, qualcosa che già presentava le linee estetiche e funzionali dell’aereo destinato ad essere il coronamento di un così notevole dispendio di risorse ed ingegno umano. L’altra, grazie all’YF-23, apparentemente guidata da visione e finalità operative nettamente distinte. Tali da lanciare nei cieli di questo periodo sperimentale, una singolare interpretazione del concept di un jet da combattimento, che non si era mai vista prima. E che ancora ad oggi, resta totalmente priva di un termine di paragone…

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Una ruota per sfuggirgli e nella polvere lasciarli, via dalla città di Marion, dove il sole scende

C’è qualcosa di sottilmente poetico, la sostanziale simmetria di causa ed effetto, nella figura di un truffatore inveterato che propone al mondo un nuovo mezzo di trasporto, qualcosa di veloce al punto da permettere, idealmente, di lasciare indietro qualsivoglia tipo di automobile o persino i velivoli della sua stessa epoca remota. L’anno è il 1898, quando un certo professor Elza James Christie, recandosi all’ufficio brevetti di Marion, Iowa presenta agli impiegati i disegni e la descrizione di qualcosa di assolutamente fuori dall’esperienza umana pregressa. Volendo brevemente anticipare la questione, stiamo qui parlando di un attrezzo in grado di spostare il suo pilota alla velocità stimata di 400-640 Km orari. Ma il diavolo è come si dice nei dettagli o nel particolare caso qui preso in esame, nell’assenza di ogni punto di riferimento a soluzioni simili nei trascorsi tecnologici di siffatta natura; fatta eccezione per un singolo pneumatico di bicicletta, del diametro di 4 metri, direttamente collegato ad un pesante ma potente motore d’aeroplano. E due ulteriori circonferenze simili a ruote, non poggiate a terra, bensì capaci d’agire come un singolare giroscopio, per poter garantire la posizione eretta della controparte centrale potendo essere spostate a comando, così da modificare, senza inclinazioni, l’effettiva direzione di spostamento. Un “Nuovo terrore su strada” come avrebbe titolato enfaticamente la storica rivista Popular Mechanics nel numero di aprile del 1923, essendo stata invitata a visionare il prototipo finalmente costruito dal professore di scienze tramite un contratto a Philadelphia, dietro l’investimento di fondi dalla provenienza non sempre del tutto chiara. Questo perché Mr. Christie, secondo una biografia dell’Università dello Iowa, intorno all’età di 35 anni si era già costruito una reputazione di personaggio assai poco raccomandabile, dopo aver venduto più volte ad imprenditori locali l’atto di proprietà per delle miniere non esistenti. Essendo stato più volte arrestato e rilasciato a cavallo dell’anno 1900, e venendo dipinto nei giornali dell’epoca come famigerato uomo d’affari dalla lingua d’argento e la capacità, in una maniera o l’altra, di riuscire sempre a cavarsela senza pagare le conseguenze dei propri gesti. Non c’è davvero molto di stupefacente, allora, se al momento in cui riuscì di nuovo a fare breccia nella coscienza comune con quella che sarebbe passata agli annali, senza dubbio, come la sua invenzione di maggior fama, egli era di nuovo sotto assedio dai suoi creditori, per aver raccolto fondi dallo stato con la promessa di far edificare assieme ad uno dei suoi ben dieci fratelli un nuovo tratto della Ferrovia Americana, una sorta di tram interurbano statunitense. Possibile, allora, che l’opportunità di dare forma finalmente al suo sogno di vent’anni prima per spostamenti rapidi su strade pre-esistenti fosse soltanto un ulteriore stratagemma, elaborato al fine di distrarre l’opinione pubblica, ed il forte braccio della legge, dall’iniziativa assai probabilmente implementata senza un solo briciolo di buona fede? Di sicuro, i princìpi presi in esame per percorrere quel sottile nastro d’asfalto avevano almeno una vaga presa sulle logiche della fisica e termodinamica del nostro persistente Universo…

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