Le stagioni si susseguono e le circostanze cambiano costantemente. Col passare delle decadi, molte cose finiscono per essere dimenticate. Nel contesto della nostra epoca, ad esempio, è normale utilizzare lo strumento digitale per cercare informazioni utili o interessanti. Eppure c’era un merito importante, nell’antico luogo “sacro” dell’edicola e le sue riviste. Pagine su pagine di concezione effimera, ciascun titolo pre-figurato sull’intento di rendere qualcuno momentaneamente un esperto. In materia di… Sport? Computer? Cronaca mondana? O il campo che più di ogni altro può beneficiare di approfondimenti collaterali: la tecnologia che cambia e al tempo stesso condiziona la vita delle persone. Simili prodotti editoriali, qualche volta, permettevano a momenti aneddotici o frangenti collaterali di venire registrati per il beneficio delle generazioni future. Come il giorno in cui Steven P. Nemeth, istruttore della scuola di volo di McCook Field vicino a Dayton, Ohio, seppe guadagnarsi meritatamente i sue cinque salienti minuti di celebrità. Ne parlarono in America “Modern Mechanix” e l’irrinunciabile “Popular Science” tra le pagine pubblicitarie di modellini, radio tascabili e orologi cromati, premurandosi di riportare dettagliatamente la reazione dei presenti a un’occasione più unica che rara. Non capitava certo particolarmente spesso, d’altra parte, di vedere un aeroplano fermarsi all’improvviso in volo. Per fluttuare giù verticalmente, lievemente, fino al delicato impatto con il terreno. Capacità fornita dall’insolita forma della parte più importante del velivolo, un disco dal diametro di 4,6 metri costituente a tutti gli effetti una singola ala, capace di agire nei suddetti attimi come l’approssimazione funzionale di un parasole. La scelta del termine di paragone usato dalla stampa, d’altra parte, risulta sorprendentemente facile da motivare. In quello stesso 1934, Helen L. Goff scriveva sotto lo pseudonimo di Pamela L. Travers il primo romanzo della serie destinata a diventare infinitamente celebre di Mary Poppins, una governante che decollava grazie al magico potere di un ombrello. E d’altra parte gli stessi fratelli Wright avevano dimostrato, 31 anni prima, come qualsiasi cosa potesse, volare a patto di disporre di aerodinamica precisa e una quantità di potenza bastante allo scopo.
Il che figurava, certamente, tra i pensieri dell’insegnante trasformatosi in pilota collaudatore Nemeth, mentre s’impegnava ad affrontare il gravoso problema della quantità d’incidenti sperimentati nel suo ambito dove frequentemente un attimo di distrazione, o manovra poco avveduta, poteva portare a un’immediata e irrisolvibile perdita di controllo del mezzo. Ragion per cui pensò di progettare, a suo modo, la versione migliorata di un biplano che poteva entrare in un garage personale, i cui comandi potessero venire impugnati con facilità dopo soltanto qualche ora di addestramento. E che praticamente nessuno, per quanto incompetente, avrebbe potuto condurre fino al punto aerodinamico di non ritorno…
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La storia italiana dell’auto-dirigibile che precorse il concetto di monovolume
Volare, guidare, c’è davvero una differenza? Quando ciò che conta è raggiungere ad ogni costo un obiettivo, possibilmente prima di quanto possa esserci riuscito chiunque altro. Al punto da trasformare la tipica forma di un aerostato nella carrozzeria di un mezzo stradale… Ma il semplice fatto che fosse possibile non sottintende, necessariamente o imprescindibilmente, una chiara giustificazione d’intenti. C’è una storia collegata alla città di Ancona che esemplifica una determinata caratteristica della nobiltà italiana dell’inizio del secolo scorso, potenzialmente riconducibile ad uno stereotipo tipico del nostro paese. Essa inizia con il conte Luigi Raimondo Ricotti, padrone della storica Villa Favorita alla Baraccola, che si recava presso una sua proprietà nel rione di Pinocchio, così chiamato per la quantità di pini italici che vi crescevano liberamente (benché in seguito, proprio qui sarebbe stata eretta una statua dedicata al celebre personaggio di Collodi). Era dunque il 22 ottobre del 1897 quando a bordo della sua carrozza, un’elegante berlina recante lo stemma di famiglia, il nobile settantenne veniva avvisato dal fedele cocchiere Bonafede dell’incipiente e terribile alluvione, che avrebbe richiesto certamente di fermarsi a lato della strada o possibilmente, presso un luogo adeguatamente protetto dagli elementi. Al che il datore di lavoro, un personaggio eccentrico e notoriamente testardo, pronunciò la frase destinata a rimanere celebre: “Avanti si vada!” Che avrebbe purtroppo portato, alcune ore dopo, al cappottamento della vettura sulla strada allagata con conseguente decesso proprio e del suo cavallo. Mentre soltanto il servitore, per sua fortuna, sarebbe stato tratto in salvo da un passante con una corda, poco prima dell’annegamento. Ecco dunque il desiderio di andare veloci ad ogni costo, raggiungere la destinazione nella maniera più efficiente anche a discapito di ogni possibile incitazione alla ragionevolezza. Lo stesso che avrebbe potenzialmente guidato, 24 anni dopo, il suo possibile discendente anch’egli dotato della qualifica di conte, Marco Ricotti di Milano, nel chiedere alla propria carrozzeria di fiducia una vettura che fosse più performante, anche a discapito di qualsivoglia aderenza alle nascenti regole della progettazione stradale. Naturalmente a quel proposito il mondo era ormai cambiato, e nel particolare settore dei trasporti personali era diventato del tutto tipica la rinuncia ad una forza motrice di derivazione equina, anteponendogli l’utile funzionamento meccanico del motore a combustione interna. Un ambito commerciale all’intero del quale si muoveva con dimestichezza la compagnia identificata ancora all’epoca con l’acronimo di A.L.F.A. (“Anonima Lombarda Fabbrica Automobili”) e che soltanto nell’epoca corrispondente all’inizio della grande guerra avrebbe visto il suo stabilimento del portello acquistato, e diretto da colui che avrebbe contribuito con la seconda parte dell’appellativo odierno, Nicola Romeo. Ragion per cui in quel 1914 la figura chiave del marchio poteva ancora essere individuata in Giuseppe Merosi, progettista ed imprenditore, il cui primo successo internazionale può essere individuato nel modello ALFA 40-60 HP, veicolo a quattro cilindri con 6082 di cilindrata in linea biblocco, dalla caratteristica forma a sigaro destinata a diventare imprescindibile nelle maggiori gare di resistenza e gran premi della propria Era. Già perché dei 25 esemplari prodotti in questa serie, tra cui due specificamente configurati e potenziati per ottimizzare le prestazioni di gara, la maggioranza si sarebbe fatta onore in simili competizioni, dimostrando la possibilità presente e futura di realizzare automobili pensate per questo specifico utilizzo da parte della casa milanese. Il che avrebbe indirettamente portato, in un certo senso, alla prima concept car italiana e possibilmente della storia, rispondente alle specifiche esigenze di un cliente molto particolare…
Il principio della nave che avrebbe attraversato l’Atlantico con sei ruote motrici
Il problema del metodo scientifico ed il motivo per cui, ancora oggi, non piace a molti è che applicarlo significa spesso gettare da parte i propri sogni e le relative speranze, sostituendoli con la glaciale realizzazione che il mondo opera in base a delle regole precise. Non sempre o quasi mai allineati a ciò che apparirebbe “logico” nella purezza operativa del pensiero basato su considerazioni pregresse. Così macchine volanti, le prime automobili e i battelli in grado di sommergere se stessi senza affondare dovettero fare i conti, nel corso dello scorso secolo, con accorgimenti ingegneristici essenzialmente contrari alle metodologie di superiore estetica ed efficienza. Ed in questo modo l’inventore francese Ernest Bazin, già creatore dell’aratro elettrico, un taglia-verdure, una macchina idrostatica per fare il caffè, nel 1891 cominciò ad armeggiare con un singolare modellino in legno di forma rettangolare integrato con sei galleggianti rotativi dalla forma lenticolare. Un’imbarcazione, nonostante le apparenze, almeno parzialmente basata sui dieci anni trascorsi a partire dall’età di 15 per volere del padre, che l’aveva fatto imbarcare come mozzo su un vascello destinato a girare il mondo. Esperienza destinata a farne un pensatore eclettico, ma anche un avventuriero e soprattutto la persona dotata dell’insolita commistione di capacità opportune a rivoluzionare, un giorno, l’intera industria dei trasporti navali. Dovete considerare, a tal proposito, come al ritorno in Francia dopo il 1855 egli ebbe modo di recarsi a corte incontrando personalmente Napoleone III, il re del Belgio e il Granduca di Russia. Così che non gli sarebbe stato difficile, col progredire degli anni, trovare investitori pronti a rendere possibili e sostenere le proprie idee fino alla fondazione assieme al fratello Marcel nel 1893 della società per azioni parigina Navire-express-rouleur-Bazin. Nessuno si sarebbe d’altronde sognato di mettere in dubbio in quel momento il balzo quantistico offerto dall’avveniristica bateau rouleur o “nave rotolante” che avrebbe condizionato, di fronte ai posteri, l’apice finale della sua lunga carriera. Un sistema di massimizzare la velocità e minimizzare i consumi che traevano l’ispirazione, sotto ogni punto di vista ragionevole, da preconcetti che nessuno avrebbe potuto confutare empiricamente all’epoca. Non era forse vero, d’altronde, che i catamarani riuscivano a spostarsi più velocemente di qualsiasi altra nave da crociera esistente? E ciò non avveniva, forse, per il fatto che la superficie dello scafo posta a contatto l’acqua risultava quantitativamente inferiore ad altri tipi di soluzioni convenzionali? “Dunque immaginate se l’intera parte della nave a contatto con i flutti marini cominciasse, adesso, ad assecondarne i movimenti.” Avrebbe esordito nella propria conferenza esplicativa “Scorrendo via letteralmente sotto il battello, in maniera analoga agli efficaci e paralleli semiassi di un vagone ferroviario…”
PL-12 Airtruk: l’anima italiana che caratterizzò l’aeroplano più bizzarro dell’emisfero australe
Una piccola elica e la cabina costruita a svilupparsi in senso verticale, ricordando un pesce della barriera corallina. Due ali principali ed un altro paio poste a fargli da ombra collegate con dei montanti, molto più corte, da cui sporge un carrello dai tre pneumatici simmetricamente distribuiti. Ed un paio di… Code? Poste in parallelo, totalmente scollegate l’una dell’altra, al termine di altrettante derive lievemente rastremate della corta fusoliera. È proprio vero, verrebbe quasi da esclamare, che con la giusta quantità di potenza quasi QUALSIASI cosa può riuscire a staccarsi da terra! Benché un’apparente mancanza d’efficienza, in certi determinati casi, possa tendere a portare in errore.
Fin dalla sua genesi etimologica, il termine anglofono truck ha voluto significare ben più della sua diretta traduzione come camion o autocarro, volendo indicare in senso più ampio il veicolo dotato di ruote la cui funzione fosse allineata con il senso più utilitaristico dell’esistenza. Carrozze da trasporto, all’epoca del Medioevo in cui venne perfezionato l’idioma destinato a diventare lingua franca di metà del mondo e con l’ingresso nell’epoca dei motori, tutto l’ampio comparto di SUV, fuoristrada o pickup stradali, inclusi come approcci personali alla necessità di movimentare una certa quantità di materiali inerti. Vedi il caso dell’attuale strano Tesla Truck di Elon, ma anche il prodotto di un’altra fervida mente tecnologica, vissuta tra il 1913 e il 2001, la cui funzione fondamentale era sostanzialmente quella di poter riuscire a staccarsi dal suolo. Pur non assomigliando, effettivamente, ad alcun aereo costruito fino a quel momento o nelle decadi a seguire, rispondendo unicamente ai crismi convenienti di quel mondo del design assecondato da un’inerente ricerca estetica di distinzione, tanto indissolubilmente associato anche nell’immaginario collettivo alla cultura del nostro paese. Giacché italiano era Luigi Pellarini (come dubitarne, visto il nome) ed originario nello specifico della città di Milano, quando nel 1944 si associò con la Carrozzeria Colli per la produzione e dimostrazione al pubblico del suo primo prototipo degno di nota: l’auto volante P1, sostanzialmente un piccolo aereo da turismo con quattro pneumatici stradali, dotato di due ali pieghevoli che potevano essere posizionate sopra il tetto, riducendo il suo ingombro stradale a quello di una vettura utilizzabile nel quotidiano. Così percorrendo 1800 Km per tutta la penisola da Torino a Bari, passando per Roma ed Ancona, egli fece quindi ritorno nella sua città, dove la presentò ufficialmente al cardinale Schuster, occasione in cui il settimanale il Tempo soprannominò la proposta veicolare con l’altrettanto insolita definizione “L’angelo degli adulti”. Tutti sembrava andare dunque per il meglio, fino al momento in cui sembrava di essere ormai prossimi alla produzione in serie…