Secondo il romanzo pseudo-storico del sedicesimo secolo sul periodo dei Tre Regni, nel 189 d.C. la storica capitale e più antica città della Cina era stata occupata dal dissoluto signore della guerra Dong Zhuo, che aiutato dall’invincibile figlio Lu Bu scacciò i membri della corte, istituì la legge marziale e sperperò i fondi del governo per vivere nel lusso e nell’immoralità per un disastroso periodo lungo 10 anni. Finché Yuan Shao, il potente governatore della comanderia di Runan, non mise assieme un’eterogenea armata di eroi provenienti dai quattro angoli del paese, per sconfiggere le armate dell’usurpatore e riprendere il controllo del sigillo imperiale rubato a Luoyang. Occasione in cui per l’ennesima, e certamente non ultima volta nella storia del Regno di Mezzo, il suono della armi avrebbe risuonato in mezzo alle montagne di Qinling dell’odierno Shaanxi, presso l’angusto passaggio che prende il nome di Hu Lao (la Gabbia della Tigre) in un susseguirsi di scontri e stratagemmi, culminanti nel ruolo chiave di una donna, capace di far redimere l’uomo più forte che fosse mai vissuto su questa Terra.
Oggi, oltre 1.800 anni dopo, la stessa asperità geografica del paesaggio costituisce un problema per ragioni radicalmente diverse: la capacità di costituire un muro per l’aria che grava sulla capitale, ostacolando il naturale ricambio di ossigeno per i suoi abitanti. Il che potrebbe essere un problema per un luogo abitato da 2 o 3 milioni di persone… Un serio imprevisto nel caso in cui si trattasse di un centro da 5 o 6 milioni di persone… Ma è un vero, costante disastro che perpetra se stesso, per quella che oggi la Cina classifica come “città di medie dimensioni” e il cui conteggio degli abitanti supera gli 8 milioni di potenziali ammalati d’asma, disfunzioni respiratorie, cancro ai polmoni e altre gravi patologie dell’apparato respiratorio. Soprattutto quando si considera che ci troviamo in un luogo dove, tra dicembre e marzo, le temperature medie scendono annualmente sotto lo zero, costringendo gli abitanti a fare un uso pressoché continuo del loro impianto riscaldamento, alimentato ancora primariamente grazie all’impiego dei carburanti fossili dall’alto tasso d’inquinamento.
Ed è per questo che quando verso l’inizio dell’anno 2016, ad opera del Prof. Cao Junji dell’Accademia delle Scienze presso l’Università di Pechino, giunse la proposta per un nuovo tipo d’approccio edilizio all’essenziale ricerca continuativa dell’aria pulita, essa venne accolta come l’arrivo di un famoso condottiero alla testa di un’armata liberatrice. Nonostante si trattasse di un’idea particolarmente costosa e difficile da realizzare: dopo tutto, il problema dell’inquinamento della Cina deriva anche dal suo straordinario boom delle costruzioni, che può essere una forza oltre che un’ostacolo, soprattutto nel caso in cui si desideri edificare con il proprio limitato budget dedicato all’ambiente urbano una massiccia torre di cemento alta esattamente 100 metri, circondata da una serra al livello del terreno che si estende per l’equivalente de “la metà di un campo da calcio”. Stiamo parlando, tanto per passare ai soliti acronimi, alla prima realizzazione di un progetto teorizzato soltanto l’anno prima presso l’Università del Minnesota, con il nome di SALSCS (Solar-Assisted Large-Scale Cleaning System) senza pensare probabilmente che qualcuno, tanto presto, avrebbe pensato davvero di realizzarlo.
Mentre i primi dati raccolti dal governo, soltanto recentemente, hanno iniziato a filtrare verso le testate internazionali, alcuni giornali pubblicano riferimenti ad alcune interviste degli abitanti di Xi’an “Da qualche tempo si respira meglio, la mia salute è migliorata. Sono convinto che stia facendo la differenza” oppure: “È soltanto un placebo, l’aria risulta irrespirabile esattamente com’era prima”. Nel confrontare le contrastanti opinioni, passiamo quindi ad approfondire il funzionamento del rivoluzionario quanto imponente dispositivo cilindrico, che ricorda anche esteticamente l’aspetto della parte finale di quegli oggetti creati per depositare catrame all’interno dei delicati alveoli umani…
Asia
Dall’Italia alla Cina, l’incredibile palazzo forato di Canton
Potrebbe certamente destare un qualche lecito diritto alla sorpresa, se io vi raccontassi dell’esatta provenienza del Guangzhou Circle Mansion, comunemente detto “il Cerchio alto 33 piani” costruito come sede dello Hong Da Xing Ye Group, importante mercato borsistico di polimeri, materiali plastici e altre industriali amenità. Questo letterale enorme Stargate, o ciambella dai bordi netti e squadrati, che una propensione alla metafora più prettamente italiana potrebbe anche ricondurre alla caramella Polo, il cui incarto forma con scaltrezza quel cilindro in cui lo spazio vuoto equivale a circa un terzo dell’intero insieme. Eppur corrobora, e in qualche modo riconferma, il fascino della particolare forma sempre ricondotta a un senso rinfrescante di soddisfazione. Opinione nazionale quest’ultima, che potremmo definire tanto maggiormente rilevante sulle rive del Fiume delle Perle, di quanto potremmo essere indotti a pensare, poiché un simile costrutto non è in effetti il solito prodotto di un qualche disegnatore del più grande paese comunista al mondo, bensì la risultanza diretta di un lungo processo di studio e approfondimento effettuato da niente meno che Joseph di Pasquale, rinomato architetto nato a Como e residente a Milano, in qualità di fondatore e titolare di uno studio dai notevoli interessi internazionali.
Ed è in effetti la nascita stessa dell’insolito edificio ad assumere i toni sfocati di una vera e propria leggenda. Iniziando dalla presentazione effettuata durante un concorso pubblico risalente al 2009, in occasione del quale i partecipanti di provenienza regionale si presentarono a Canton con i soliti rendering e progetti mentre Di Pasquale, tra i pochi occidentali presenti, ebbe l’idea e l’iniziativa di sfruttare la sua esperienza pregressa nel campo della realizzazione registica di brevi segmenti, durante la sua esperienza di studio alla New York Film Academy. Ed è così che nacque un cortometraggio (purtroppo non pubblicamente reperibile) in cui il pastore Niulang e la tessitrice Zhinu, amanti di una storia folkloristica risalente a un paio di millenni a questa parte, vennero allontanati l’uno dall’altra per l’intervento divino dell’immortale Dea da cui ella discendeva, senza tuttavia riuscire a separarli del tutto. Poiché lui, per ulteriore intercessione sovrannaturale, sarebbe diventato la stella di Altair, mentre lei quella di Vega, e il bue che era solito accompagnarli durante le scampagnate avrebbe ricevuto la forma immateriale dell’enorme via Lattea, il ponte che compare periodicamente per riunire gli innamorati. Così nella versione decisamente più terrena di questo racconto, l’architetto mostrava i due incontrasi sulle rive del principale lungofiume della Cina meridionale, in un abbraccio trasformato nel vasto cerchio della sua proposta, riuscendo a colpire profondamente colpiti gli ufficiali della compagnia. Per una ragione più di qualsiasi altra, che forse non era stata neppure al centro (anche filosoficamente “vuoto”) dell’idea: l’importanza di una tale forma nel contesto Cinese ed in senso più specifico, la zona un tempo occupata dalla prima dinastia imperiale degli Zhou (XII – III secolo, secondo le cronache ufficiali).
Inizierà dunque ad apparire chiaro ciò di cui stiamo parlando: in lingua cinese questa esatta tipologia di cerchio prende il nome di bi (璧) un termine normalmente usato per riferirsi anche alla giada di cui è spesso costituito, come importante emblema portafortuna e letterale strumento di connessione alla divinità. Un’emblema collegato fin da principio alla figura del re, quindi l’imperatore, soprattutto nella sua accezione doppia e sovrapposta esteriormente riconducibile alla cifra del numerale arabo “8”, per una mera coincidenza eternamente suggestivo del concetto di ricchezza in Cina. Siamo quindi di fronte a un edificio straordinariamente propizio, sopratutto nel momento in cui la sua immagine trova l’occasione di riflettersi nelle acque antistanti, le quali dovrebbero idealmente simboleggiare l’arrivo di copiose quantità di denaro. Le stesse monete d’oro dell’epoca pre-moderna, in maniera tutt’altro che casuale, venivano fabbricate in maniera tutt’altro che casuale con un buco in mezzo (serviva in effetti ad infilarci uno spago che agiva in vece del portafogli). Riuscite in effetti ad immaginare un’analogia portatrice di maggiori meriti, per la sede centrale di una qualsivoglia compagnia commerciale?
Un viaggio nella foresta dei cinghiali barbuti
Il dramma quotidiano del suino di ogni possibile nazionalità è più o meno sempre lo stesso. E potrebbe riassumersi nel fatto che ogni volta che tenta di pronunciare: “Buongiorno, signore. È stato portato alla mia attenzione che lei potrebbe avere del cibo. Potrebbe cortesemente confermare o smentire una simile presa di posizione?” l’unico suono che fuoriesce dal suo grugno appiattito parrebbe essere: oinkoinkoin-grunf-wiiiii e così via dicendo. Ed è soprattutto per questo che, nel tipo di dialogo interspecie che tende a portare un vantaggio gastronomico di qualsivoglia tipologia e un transitorio senso di soddisfazione da parte dell’umano di turno, diventa per lui essenziale sapersi esprimere attraverso il linguaggio del corpo. Spalancare quei tristi occhioni, farsi espansivo e pacifico, muovere le orecchie a ritmo col sussurrante richiamo della sua giungla, che può essere letterale, approssimativa o persino urbana (qualcuno potrebbe arrivare a chiamarla “Roma Nord”)… Oppure perché no, sorridere sotto un gran paio di affascinanti baffi. Come dite, i maiali selvatici, da quando Miss Piggy ha lasciato lo show-business, non possiedono alcun tipo di folti mustacchi? Questioni di punti di vista, come si suol dire pressoché ovunque. Oppure questioni di contesto geografico, come potrebbero affermare gli orgogliosi abitanti della più grande isola d’Oriente, suddivisa tra tre paesi che si sono spartiti una delle più vaste ed antiche foreste pluviali al mondo. Ma non c’è percezione alcuna dei confini tra Malesia, Brunei ed Indonesia, nella tranquilla esistenza del Sus Barbatus, comunemente detto babi hutan o suino pelosamente avvantaggiato. La cui caratteristica principale sembrerebbe essere, oltre al caratteristico ciuffo bilaterale sul muso, zampe particolarmente lunghe, forti ed agili, perfette per compiere lunghe migrazioni attraverso l’intero estendersi del proprio areale.
Il che costituisce, senz’ombra di dubbio alcuno, il nesso principale della questione: nulla di tutto ciò riesce a cogliere l’occhio potrebbe esistere, senza l’intervento puntuale, e continuativo, dell’amichevole quanto interessata genìa grugnente, il cui naso rosa è da sempre sinonimo di un qualche tipo d’indagine approfondita del sottobosco. Coadiuvata dall’impiego di un orologio biologico estremamente funzionale, che indica al suo possessore il momento esatto in cui l’eccezionale biodiversità vegetale dei un simile luogo d’appartenenza ha terminato la fase di fioritura, e sta per riversare a terra una vasta quantità di ghiande o altri frutti simili, alternativa naturale al continuo bisogno d’infastidire i custodi delle dispense umane. Il che avviene, secondo uno schema evolutivo tipico delle dipteracee, nutrita famiglia d’arbusti di cui fa parte la canfora del Borneo (Dryobalanops aromatica) con tempistiche scaglionate tra i diversi angoli della foresta, quasi seguendo un copione attentamente iscritto nel succedersi esatto delle stagioni. Una tempistica talmente importante per la sopravvivenza e prosperità del babi hutan, che esso arriva a pianificare la sua attività riproduttiva sulla base delle grandi migrazioni che ne derivano, affinché i piccoli siano sufficientemente grossi e forti da poter affrontare i molti pericoli della terra in cui dovranno, un giorno, riuscire a imporsi in qualità di onnivori e sostanziali dominatori. Ma sarebbe certamente superficiale, pretendere di esaurire una simile attività come mera funzione di accaparramento ed accrescimento personale, laddove l’attività dei maiali diventa effettivamente la via d’accesso, per la foresta stessa, ad un fondamentale metodo di propagazione attraverso il trasporto a rilevanti distanze di molte, molte migliaia di semi…
L’acuto richiamo del pika, guardiano della montagna
Esiste tra gli animali di piccole dimensioni, una particolare frequenza al di sopra della quale ogni verso inizia ad assomigliarsi: uccelli, mammiferi e rane, il cui gesto di affermazione dell’io si trasforma, all’orecchio di chi si trovi a coglierne l’essenza, in una sorta di trombetta più o meno modulata, le cui implicazioni possono essere di vari tipo. Richiamare una potenziale partner, spaventare i rivali, avvisare i propri simili dell’avvicinarsi di un predatore… Oppure nel caso di particolari specie, tutto questo e molto altro, nella rispettabile approssimazione di un vero e proprio linguaggio. E tra le foreste e i dirupi rocciosi del Nord America, così come le vaste praterie dell’Est e le steppe eurasiatiche, un tale suono riecheggia, carico dello stesso significato, nell’apparente riconferma di uno dei fondamenti della linguistica applicata agli animali: che le configurazioni possibili di un apparato fonatorio, dopo tutto, non sono moltissime, e il metodo espressivo di specie diverse non può che finire per assomigliarsi vicendevolmente. È soltanto con l’avvicinarsi alla fonte di un tale episodio, quindi, attraverso l’impiego di potenti obiettivi fotografici, binocoli da bird-watching o perché no, i propri stessi agili nonché lievi passi, che la corrispondenza inizia a rivelarsi per quello che è: il prodotto di una effettiva somiglianza esteriore, da parte degli esponenti di un genus pseudo-cosmopolita per cui soltanto la nostra Europa Occidentale, in effetti, resta un territorio distante e sconosciuto. Così come lui/loro, incidentalmente, continuano ad esserlo per noi: gli ochotonidi/Ochotoni dalle orecchie corte e la coda pressoché inesistente, con assoluta identità di famiglia e di genere, le cui 30 specie vengono collettivamente denominate “pika”, fornendo secondo una nozione largamente non confermata l’ispirazione segreta del nome di Pikachu, famosa mascotte del mondo dei videogiochi e cartoni animati. Laddove in effetti, il suo appellativo è stato dimostrato provenire dalle due parole giapponesi pika (ピカ ; scintilla) e chū (チュー ; onomatopea indicante il verso del topo).
E nessun pika, pur trattandosi di un roditore, può essere paragonato in tutta coscienza all’abitante prototipico delle nostre campagne o indesiderato ospite delle case, essendo loro degli appartenenti a pieno titolo dell’ordine dei lagomorfi, lo stesso di cui fanno parte lepri e conigli, onnivori piuttosto che vegetariani e benché prolifici, difficilmente inclini ad improntare delle vere e proprie invasioni. Soprattutto nella loro doppia accezione d’oltreoceano, le due specie Ochotona princeps (o piccolo capo coniglio) e Ochotona collaris, il cui stile di vita altamente territoriale prevede una sostanziale segregazione delle coppie in età riproduttiva con le loro piccole famigliole, nelle rispettive zone del talus (cumulo di pietre) sul versante di una montagna o collina sufficientemente elevata. I pika in effetti, contrariamente ai succitati orecchie-lunghe dalla caratteristica coda a pom-pom, sono animali dalla vita sedentaria e particolarmente poco adattabili, per cui sopravvivere al di sopra di un’apparentemente ragionevole temperatura di 25 gradi risulta impossibile dopo soltanto poche ore, essendo stati identificati in funzione di questo come dei letterali “termometri del riscaldamento globale”. Ecco perché nella mappa distributiva del proprio areale, rispettivamente statunitense e canadese, i simpatici batuffoli di pelo si presentano come abitanti di vere e proprie isole/bioma, situate tra la cima degli alberi e le alture prive di sufficienti fonti di cibo vegetale. Di tutt’altra natura è invece la situazione di molte specie asiatiche, come i pika del Gansu, Ladak Nubra e delle steppe kazhake (Ochotona pusilla) a cui una temperatura ambientale più bassa permette di occupare direttamente le pianure, dove l’abbondanza gli consente una convivenza non del tutto dissimile da quella di suricati o cani della prateria. Un contesto in cui la capacità di farsi sentire dai propri simili, nel momento in cui dovesse avvicinarsi un possibile predatore, diventa sinonimo e principale ragione della propria stessa continuativa sopravvivenza…