Le cibarie conturbanti poste sottovetro per le strade di Tokyo possiedono un fascino che aspira all’impossibile perfezione: sushi, ramen, pesce fritto, bistecche, cavoli, dolciumi… Ciascun singolo elemento colorato come in un dipinto, immutabile quanto un esempio prelevato raffigurato su di un libro di ricette preparato con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Ma se un gorilla affamato, sfuggito accidentalmente dallo zoo, dovesse infrangere la barriera trasparente che separa gli ingredienti dal desiderio, esso andrebbe incontro a una sgradevole sorpresa, immantinente. Poiché la paraffina e cera, il cloruro di polivinile (PVC) e la vernice per l’aerografo di oggi non hanno il buon sapore di una volta. E per quanto sia possibile mangiare un qualche cosa con gli occhi, non è tipico degli esseri viventi riuscirne a trarne un valido nutrimento. Mentre procede per strade celebri tra i foodies come Yanaka Ginza, Tsukishima Monja o i dintorni dell’inconfondibile mercato del pesce di Tsukiji, l’ipotetico primate affamato finirebbe per imbattersi in particolari manifestazione che neppure lui, con il coraggio animalesco ereditato dalle pregresse generazioni nate e cresciute nella foresta, avrebbe la predisposizione istintiva a fagocitare. C’è un fantasma d’altra parte, una sorta di surreale poltergeist, che si manifesta presso questo tipo di località ed istituzioni. Il suo agire non ha forma, ma dimostra l’efficacia di una tipica e comune contingenza: un paio di bacchette o perché no, la nostra familiare forchetta d’Occidente, si sollevano magicamente dal piatto. Mentre il cibo contenuto al suo interno, nella maggior parte dei casi una pasta lunga o il tipico soba d’Oriente, tende necessariamente a seguirlo. L’effetto è surreale eppure stranamente accattivante. Ma l’essere sovrannaturale, sospeso tra il sollevamento e il trionfo gastronomico, non porta mai conclusione il suo gesto. Inducendo il fascino che stimola il fondamentale appetito delle persone.
Il che permette, accantonando ciò che sembra per spostarci dritti verso il nocciolo della questione, di evocare a buon ragione il nome di un esperto creativo di queste parti; Shigeharu Takeuchi, maestro di quell’arte che prende il nome di 食品サンプル (shokuhin sampuru) essenzialmente consistente della costruzione artificiale di pietanze, in materiali non deperibili, da usare come esca invitante per i possibili clienti della propria istituzione cibaria. Ristorante, bar. caffetteria, bancarella o persino carretto itinerante, ciò non ha importanza. Tutti, nel Giappone dei topi elettrici ed i fieri combattenti praticanti di un antico codice d’onore, hanno familiarità con tale caratteristico approccio al pubblico da parte dei preparatori del loro cibo. Ed hanno potenzialmente visto, nel corso delle sue reiterate partecipazioni televisive ed i concorsi vinti all’interno del suo settore, un’opera di questo vero e proprio artista della manualità, con oltre cinque decadi d’esperienza nella costruzione di un qualcosa in grado di affascinare e catturare le papille contenute all’interno della cavernosa e prevedibile bocca degli umani…
personaggi
L’arte pubblica monumentale osservata dalla lente di un collezionista della routine
Nella terra dei tornado per eccellenza, grossi e pesanti oggetti che fluttuano nell’aria sono una visione che ricorre nelle cupe fantasie della gente. C’è tuttavia un particolare prato, innanzi al museo Nelson-Atkins di Kansas City, Missouri, dove tale ipotesi appare meno improbabile o spiacevole che in altri luoghi. Grazie alla presenza dal 1994 di quattro volani da badminton costruiti in alluminio e fibra di vetro, dal calibro unitario di due tonnellate e mezzo per 5,5 metri d’altezza, che alludono apparentemente alla partita recentemente completata da un’allegra comitiva di ponderosi giganti. E chi può dire quando, all’improvviso, potrebbero tornare a sollevarsi le loro racchette….
Scherzosamente contrapposti alla facciata formale dell’edificio, reinterpretazione moderna dello stile Beaux-Arts del neoclassicismo francese, essi trasportano il visitatore in un mondo in cui tutto sembra possibile e l’arrivo di un forte vento, ancor più che in altri luoghi di questa metropoli, potrebbe scatenare un pandemonio. E non a caso sussiste la leggenda che gli oggetti in questione, in realtà dei veri e propri monumenti, siano del tutto privi di ancoraggio al suolo ma piuttosto meramente appesantiti mediante un nucleo in acciaio, il che sarebbe a dir poco imprudente o persino, negligente. Tanto che risulta difficile crederci, soprattutto vista l’esperienza pluri-decennale e i grossi passi avanti compiuti in questo eclettico settore, da parte dell’autore Claes Oldenburg che sarebbe giunto a specializzarsi attraverso una lunga carriera conclusasi soltanto nel 2022 e per il suo decesso all’età di 93 anni, in un particolarissimo tipo di Pop Art, che si esprime essenzialmente attraverso lo sproporzionato ingrandimento degli oggetti che siamo soliti vedere, o utilizzare nella vita di tutti i giorni. Come la molletta da 13 metri edificata per il bicentenario della città di Philadelphia (Pennsylvania, 1976) o la grande mazza da baseball reticolare che ne misura 31 (Chicago, 1977). O ancora l’arco di un cupido ipertrofico (San Francisco, 2002) puntato con sua freccia tagliente verso il suolo dell’Embarcadero per alludere con tramite l’ampiezza di 18 metri alle forme delle navi di passaggio o perché no, lo svettante arco del vicino Bay Bridge. Un modo indubbiamente insolito, ma tanto drammaticamente accattivante, di ri-contestualizzare l’arte assieme al suo presunto, rassicurante significato…
L’arcaico suono del cornu e gli altri utili strumenti delle battaglie romane
E fu allora che nel fragore e l’impeto delle uccisioni, nel caotico incidente prolungato all’infinito, mentre uomini uccidevano uomini ed il vento soffiava della melodia dell’odio contrapposto tra gli schieramenti, alcuni cominciarono e cercare l’ordine, riuscendo a trarne imperitura soddisfazione. Poiché tutti possono combattere, nell’ipotetica ricerca di una condizione migliore per se stessi o le proprie famiglie, sotto la suddivisione di una classe dirigente disinteressata nei confronti del bene assoluto; ma è una vera scienza, intesa come la tangibile derivazione della matematica, quella necessaria a trasformare il membro di una milizia cittadina in soldato di professione. Ed il più antico ritmo artificiale, che abbia mai trovato un senso pratico attraverso i gesti delle moltitudini, è la musica. Tra tutte le espressioni di un qualsiasi tipo di creatività, quella maggiormente utile ad accompagnare i gesti, certe volte assolutamente distanti dal suo contenuto. In altri casi, cadenzati e addirittura migliorati dal susseguirsi delle note calibrate ad uno scopo evidente. Chi può davvero garantire d’altra parte, nel fragore coincidente a un luogo simile, che la voce e direttive dell’ufficiale supremo, possano effettivamente essere udite dai suoi sottoposti? Chi se non l’aeneator, soldato veterano esperto suonatore di strumenti a fiato, esonerato dalle mansioni o i compiti eccessivamente rischiosi. Proprio perché sua, era la responsabilità di prolungare e ottimizzare l’opportuna ricezione della mente al comando. Figura nella fattispecie non dissimile, all’interno delle presenti circostanze, da quella del suonatore sperimentale Abraham Cupeiro, famoso in Spagna soprattutto per aver ricreato e portato in tour il corna o “corno di mucca”, desueto attrezzo sonoro utilizzato dai pastori della Galizia medievale. Ed ancor più di ciò, anche nel resto del mondo, grazie alla sua lunga passione nel dimostrare l’utilizzo specifico di taluni storici strumenti musicali tipici dell’Antica Roma, utilizzati in maniera continuativa almeno dall’introduzione della legione mariana (fine II sec. a.C.) fino alla caduta dell’Impero d’Occidente (476 d.C.). Come questo eccezionale cornu o grande tuba a forma di lettera G con asta di sostegno lignea centrale, qui utilizzato nel museo archeologico della provincia di Hispaniola per creare un’atmosfera unica capace di portare la mente ad antichi conflitti e le specifiche metodologie impiegate per risolverli a vantaggio della maggior gloria dell’Eterna capitale del mondo. Una prospettiva che val bene ricordare, in qualsivoglia tentativo di comprendere le circostanze in cui simili suoni rimbombavano sulla testa delle persone…
L’ascesa e inesorabile declino dell’albergo costruito sulla cima dell’Amazzonia
Come le rovine di un’antica civilizzazione, lo scheletro di torri un tempo fiere sorge sulla riva del grande fiume. Persone sulle imbarcazioni che vi passano dinnanzi scrutano curiosi all’indirizzo di quei misteriosi edifici: “Sembra un gazometro” esclama sottovoce qualcuno. Ma non c’è tempo di fermarsi a meditare. Già dozzine di caimani, recentemente ritornati nella regione dopo l’eminente riconquista da parte della natura, si affollano presso la scia dei borbottanti motori. E l’acqua increspata lascia intravedere le ombre dei piranhas, pericolosamente interessati alla presenza umana e il “cibo” che talvolta sembra accompagnarla, nel caso tutt’altro che inaudito di eventuali incidenti di navigazione. Una scimmia sulla cima del suo albero, con un’arancione bacca di Acai tra le mani, sembra stare per lanciare un grido. Poi ci ripensa, e voltando le spalle al gruppo, sparisce tra camminamenti lignei e fronde elevate.
L’hotel Ariau, all’apice costituito da sette edifici popolati di oltre 300 ospiti e quasi altrettanti membri del personale reclutati localmente, ha per oltre un ventennio costituito il fiore all’occhiello del nascente ecoturismo brasiliano, inteso come moda sul finire del millennio di avventurarsi presso luoghi remoti o un tempo irraggiungibili, senza per questo rinunciare alle comodità di un mondo interconnesso nell’era contemporanea. Situato a poco meno di 60 Km dalla città di Manau, lungo il corso vorticoso del Rio Negro, il suo aspetto ponderoso nascondeva tuttavia una fragilità inerente, quella di una struttura dai costi operativi, di manutenzione e contributi nei confronti dello stato assolutamente al di sopra di ogni altra istituzione d’accoglienza turistica convenzionale. Tanto che un’eventuale estemporanea fluttuazione o cambiamento del paradigma internazionale avrebbe potuto, nel giro di pochi mesi o anni, portare al collasso economico dell’azienda che ne garantiva l’esistenza continuativa nel tempo. Ariau non sarebbe probabilmente sopravvissuto, ad esempio, agli anni del Covid. Ed Ariau non sopravvisse, già oltre due decadi prima di tale data, all’inimmaginabile crollo delle Torri Gemelle. Così che entro il 2016, con il grosso dei pagamenti effettuato ormai non più in dollari ma nella più debole valuta locale dei reais, l’imprenditore brasiliano Francisco Ritta Bernardino, figura chiave dietro l’invenzione ed apertura di un simile punto di riferimento utile all’economia dell’intera regione, non poté far altro che chiudere i battenti. Non senza un profondo senso di rammarico, i motori delle imbarcazioni, delle moto d’acqua e degli elicotteri, fatti atterrare sull’apposita piattaforma integrata nel complesso, tacquero. Dando inizio, in un certo senso, al più interessante degli esperimenti: quanto ci avrebbe messo la giungla Amazzonica, polmone verde della Terra, a riprendere il controllo di quanto per secoli e millenni gli era appartenuto senza che a nessuno potesse venire in mente di sfidarla?